Escalation harakiri
di Enrico Tomaselli - 05/10/2024
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Fonte: Giubbe rosse
Sin dai suoi esordi, lo stato di Israele ha sviluppato un
principio strategico sul quale ha sostanzialmente fondato se stesso: il
solo modo per sopravvivere in una terra rubata, circondata dalle genti a
cui era stata sottratta, è imporsi col terrore.
A questo principio
si è sempre ispirato lo stato ebraico, ma nel corso delle guerre contro i
paesi arabi vicini è divenuto una vera e propria strategia militare - e
quindi anche politica. L’applicazione operativa di questa strategia del
terrore, formulata come vera e propria dottrina di guerra, è stata
l’annichilimento del nemico, attraverso l’applicazione di una violenza
spropositata ogni qualvolta questi manifestava intenzioni ostili.
Ovviamente, una siffatta dottrina strategica non poteva che intrecciarsi
- in un reciproco alimentarsi - con il suprematismo religioso e
pseudo-razziale del sionismo. Considerare gli arabi come “animali umani”
(quali li definiva ancora un anno fa il moderato ministro della difesa
Gallant) rendeva infatti possibile cancellare qualsiasi remora morale.
Quello
che non avevano previsto, coloro che immaginarono e formalizzarono
questa particolare idea di guerra senza limiti, è che seppure prevedesse
appunto la cancellazione di ogni limite etico e morale (oltre
naturalmente quelli previsti dal diritto internazionale), essa invece ne
conteneva in sé uno insuperabile, che avrebbe condotto prima o poi
all’autodistruzione.
Il presupposto indispensabile, affinché questa
dottrina risultasse eternamente valida, era infatti che i nemici dello
stato ebraico fossero sempre - militarmente - in una condizione di
inferiorità. Solo così essa poteva funzionare. Instillare nel nemico la
certezza che qualsiasi tentativo di modificare i rapporti di forza
sarebbe stato schiacciato, richiedeva che il nemico interiorizzasse la
certezza di questa reazione violenta.
La deterrenza strategica
israeliana, in effetti, non si è basata semplicemente sulla superiorità
militare (del resto in buona misura dipendente dal supporto esterno
degli Stati Uniti), quanto dalla misura in cui questa veniva esercitata.
La deterrenza di Israele, insomma, è sempre stata fuori misura,
decuplicata. Se mi dai una spintarella, ti sparo; se mi spari, faccio
esplodere la tua casa con tutta la tua famiglia all’interno.
Tutto ciò ha funzionato per circa settant’anni.
Ma, ad un certo punto, sono accadute due o tre cose.
Innanzi
tutto, la Resistenza palestinese - storicamente laica - ha virato verso
una sempre maggiore influenza religiosa: il jihad, l’idea del martirio,
hanno fornito non soltanto una motivazione ancora più forte, ma anche
la capacità di accettare un costo maggiore, persino estremo, ed
accoglierlo come un dono.
D’altro canto, non solo la lunghissima
negazione di ogni diritto per la popolazione palestinese, ma anche la
spropositata violenza con cui è sempra stata trattata, ad un certo punto
sono traboccate, superando la soglia dell’umana sopportazione.
E,
infine, l’apparire sulla scena dell’attore politico iraniano (e l’azione
di costruzione dell’Asse della Resistenza, soprattutto ad opera del
generale Soleimani) hanno cambiato i termini dell’equazione.
Il 7
ottobre 2003, l’operazione Al Aqsa Flood dimostra che i palestinesi,
nonostante la soverchiante potenza militare israeliana, non hanno più
alcun timore di sfidarla apertamente (il che ovviamente significa che la
deterrenza ha perso il suo potere; e per ristabilirlo, la reazione deve
essere immensamente sproporzionata). Con le due operazioni True
Promise, poi, l’Iran non ha semplicemente sfidato la potenza militare
israeliana, ma ha dimostrato che ormai questa è in buona misura una
tigre di carta, e che la sua supremazia è in effetti ormai un ricordo
del passato.
La combinazione di questi fattori ha determinato la situazione in cui si trova oggi Israele, e ne determina lo sviluppo futuro.
Il
tentativo di ripristinare la deterrenza nei confronti della Resistenza
palestinese, che si è tradotta nella più violenta, vasta ed intensa
guerra contro un’intera popolazione dell’era contemporanea, è
chiaramente fallito. Così come è fallito quello di imporla all’Iran. Per
la prima volta nella sua storia, lo stato ebraico si trova nella
condizione che per poter avere ragione dei suoi nemici necessita non
soltanto del supporto, ma del coinvolgimento diretto degli USA. Ma,
soprattutto, avendo questa impostazione strategica fondata
sull’esagerazione, si ritrova ad avere margini di manovra
ristrettissimi.
Naturalmente, infatti, partire da un livello molto
elevato di violenza, si traduce nel fatto che un’eventuale necessità di
escalation arriva rapidissimamente a livelli insostenibili. Subito dopo
gli attentati terroristici di massa in Libano, ad esempio, scrissi che
così facendo per poter alzare eventualmente il livello di pressione
avrebbero dovuto uccidere Nasrallah. Cosa che in effetti Israele ha
fatto, solo pochi giorni dopo. Ma, come è evidente, se questo livello si
rivela - come in effetti è - insufficiente a conseguire i risultati
sperati (cioè a ripristinare la deterrenza, oppure a trascinare il
nemico in un conflitto con gli Stati Uniti), non restano però molte
mosse per alzarlo ulteriormente - mentre il nemico iraniano, che agisce
con estrema lucidità, ha ancora numerose possibilità di escalation,
prima della soglia massima.
In termini pratici, ciò significa che
Israele si trova nella situazione di avere poche carte da giocare, e poi
non avrà altre possibilità a propria disposizione. Quali che siano le
mosse successive (assassinare Khamanei? attaccare i siti nucleari
iraniani? lanciare armi nucleari tattiche?), le possibilità di escalare
sono ormai limitate.
E quando raggiungi il limite delle tue possibilità, e non hai ottenuto ciò che volevi, hai perso.
A
quel punto, non importa cosa succede nell’immediato, perché da quel
momento in poi non solo non ha più alcun potere deterrente, ma sei di
fatto soggetto al potere dei tuoi nemici. In pratica, ti sei suicidato
con le tue mani.
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