Benvenuti nel Blog di Claudio Martinotti Doria, blogger dal 1996


"Non nobis Domine, non nobis, sed nomini Tuo da gloriam", motto dell'Ordine dei Cavalieri Templari, Pauperes commilitones Christi templique Salomonis

"Ciò che insegui ti sfugge, ciò cui sfuggi ti insegue" (aneddotica orientale, paragonabile alla nostra "chi ha pane non ha denti e chi ha denti non ha pane")

"Quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell'Occidente è che perdono la salute per fare soldi. E poi perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente in tale maniera che non riescono a vivere nè il presente nè il futuro. Sono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto."
(Dalai Lama)

"A l'è mei mangè pan e siuli, putòst che vendsi a quaicadun" (Primo Doria, detto "il Principe")

"Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci." Mahatma Gandhi

L'Italia non è una nazione ma un continente in miniatura con una straordinaria biodiversità e pluralità antropologica (Claudio Martinotti Doria)

Il proprio punto di vista, spesso è una visuale parziale e sfocata di un pertugio che da su un vicolo dove girano una fiction ... Molti credono sia la realtà ed i più motivati si mettono pure ad insegnare qualche tecnica per meglio osservare dal pertugio (Claudio Martinotti Doria)

Lo scopo primario della vita è semplicemente di sperimentare l'amore in tutte le sue molteplici modalità di manifestazione e di evolverci spiritualmente come individui e collettivamente (È “l'Amor che move il sole e le altre stelle”, scriveva Dante Alighieri, "un'unica Forza unisce infiniti mondi e li rende vivi", scriveva Giordano Bruno. )

La leadership politica occidentale è talmente poco dotata intellettualmente, culturalmente e spiritualmente, priva di qualsiasi perspicacia e lungimiranza, che finirà per portarci alla rovina, ponendo fine alla nostra civiltà. Claudio Martinotti Doria

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Patriă Montisferrati

Patriă Montisferrati
Cliccando sullo stemma del Monferrato potrete seguire su Casale News la rubrica di Storia Locale "Patriă Montisferrati", curata da Claudio Martinotti Doria in collaborazione con Manfredi Lanza, discendente aleramico del marchesi del Vasto - Busca - Lancia, principi di Trabia

Come valorizzare il Monferrato Storico

La Storia, così come il territorio e le sue genti che l’hanno vissuta e ne sono spesso ignoti ed anonimi protagonisti, meritano il massimo rispetto, occorre pertanto accostarsi ad essa con umiltà e desiderio di apprendere e servire. In questo caso si tratta di servire il Monferrato, come priorità rispetto a qualsiasi altra istanza (personale o di campanile), riconoscendo il valore di chi ci ha preceduti e di coloro che hanno contribuito a valorizzarlo, coinvolgendo senza preclusioni tutte le comunità insediate sul territorio del Monferrato Storico, affinché ognuna faccia la sua parte con una visione d’insieme ed un’unica coesa identità storico-culturale condivisa. Se ci si limita a piccole porzioni del Monferrato, per quanto significative, si è perdenti e dispersivi in partenza.

Sarà un percorso lungo e lento ma è l’unico percorribile se si vuole agire veramente per favorire il Monferrato Storico e proporlo con successo come un’unica entità territoriale turistico culturale ed economica …

I piloti russi a Putin: vogliamo “vedere” il bluff americano, se veramente la loro aviazione è così superiore

I piloti russi a Putin: vogliamo “vedere” il bluff americano

Un amico mi gira questo:

“All’interno del comitato centrale di Mosca si stanno delineando chiaramente due posizioni che se non sono antitetiche comunque sono divergenti. Putin e i suoi sostengono ancora che si debba allungare più possibile la guerra in modo da fare esplodere le contraddizioni in America (linea che dal punto di vista politico sembra molto appropriata, con Biden che si sta liquefacendo sorto gli occhi degli elettori americani). Dall’altro lato i militari sono convinti che lasciare ancora 8 o 9 mesi alle potenze occidentali sia un grosso errore e serva solamente a far sì che si attrezzino meglio per un conflitto diretto.

Quindi se vogliamo sono arrivati a una sorta di compromesso. Se dal punto di vista del conflitto di terra la superiorità russa – che che se ne dica – è schiacciante, il punto forte della NATO si è sempre detto che è la strabordante superiorità dal punto di vista tecnologico della sua aviazione.

Ecco che diventa particolarmente sorprendente la richiesta da parte dei vertici dell’aviazione (che ancora non è una decisione solo dal punto di vista formale) di andare a vedere quello che loro ritengono il bluff occidentale. Cioè andare a sfidare direttamente nei cieli le potenze occidentali e la loro aviazione.

In apparenza si tratta solo della proposta di abbattere i droni occidentali che si avvicineranno alla Crimea volando in acqua internazionale sul Mar Nero (e che sono quelli che “dirigono il tiro”). Ovviamente, date le caratteristiche, è come fare tiro al piccione e quindi la risposta obbligata della NATO è quella di scortarli. Cioè farli accompagnare da jet da combattimento.

E altrettanto ovviamente, trattandosi di una missione di scorta “vecchio stile”, rendendoli vulnerabili, visibili ed esposti sia alla contraerea che alla caccia russa.

E poi quello che stanno cercando i russi per poter dare via ai duelli aerei e vedere alla fine chi ce l’ha più duro. Quindi la strategia di provocazione basata sul lancio di missili a lunga gittata sul territorio della Crimea alla fine sta scalciando indietro in maniera inaspettata.

La provocazione ha funzionato, ma potrebbe dare il via ad una provocazione più grossa, che porta dritto dritto ad una trappola. Kiryll Budanov, capo della intelligence ucraina, avrebbe detto ai suoi alleati che i russi hanno già Questo spiegherebbe l’improvvisa voglia di Lloyd Austin – ieri l’altro – di parlare col nuovo ministro della difesa russo, dopo mesi di assoluta mancanza di contatti. In gergo pokeristico si chiama “all in”, e gli americani vorrebbero evitarlo.

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Che questo sia vero,appare dal comunicato del ministro delal Difesa russo:

Il Ministro della Difesa Andrey Belousov, in relazione alla maggiore intensità dei voli di droni strategici degli Stati Uniti sul Mar Nero, ha incaricato lo Stato Maggiore di avanzare proposte per adottare misure di risposta tempestiva alle provocazioni.

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Il ministro Belushovv

Il messaggio diffuso dal Ministero della Difesa russo può essere interpretato come un avvertimento pubblico ai Paesi della NATO sulla disponibilità di Mosca a iniziare a contrastare i droni che formalmente operano nello spazio neutrale sul Mar Nero, ma che che effettuano ricognizione e designazione di bersagli da trasmettere ai dispostivi missilistici ad alta precisione, forniti alle forze armate ucraine dagli stati occidentali, per colpire obiettivi sul territorio della Federazione Russa.

Il Ministero della Difesa ha aggiunto che queste attività indicano il crescente coinvolgimento degli Stati Uniti e dei Paesi della NATO nel conflitto in Ucraina a fianco del regime di Kiev.

Il politologo Marat Bashirov spiega che i funzionari russi non daranno mai apertamente un comando per attaccare i droni della NATO, ma è proprio così che si può interpretare il messaggio di Belousov.

Escalation dopo escalation NATO  e superamento di linee rosse USA e UE, ora vela fa la Russia.

il Messico è considerato il Paese più pericoloso al mondo per i civili, tra il 2018 e il 2021 si sono contate altre 33 mila uccisioni

 

Messico: lo Stato “in pace” dove muoiono più civili che in ogni conflitto

30 Giugno 2024 

https://www.lindipendente.online/2024/06/30/messico-lo-stato-in-pace-dove-muoiono-piu-civili-che-in-ogni-conflitto/

 

Più di cinquemila episodi di violenza mirata contro i civili solo nel 2023: se questi numeri riguardassero un Paese dichiaratamente in guerra, probabilmente non ci sorprenderebbero. Tuttavia, il fatto che si riferiscano al Messico, uno Stato formalmente democratico e senza alcun conflitto ufficiale in corso, è sconcertante. Secondo l’ACLED, un’organizzazione non governativa specializzata nella raccolta di dati, analisi e mappatura dei conflitti nel mondo, il Messico è considerato il Paese più pericoloso al mondo per i civili. Se si tengono conto di tutti e quattro gli indicatori valutati dall’indice (mortalità, pericolo per i civili, diffusione geografica e frammentazione dei gruppi armati), il Messico è su scala globale al terzo posto, preceduto solo da Birmania, ripiombata in una guerra civile dopo il golpe del febbraio 2021, e Siria, dilaniata da un conflitto interno da più di tredici anni. 

Ma cosa rende il Messico un Paese così pericoloso e inospitale per le persone? Se dal 2006 al 2017 nel Paese si sono verificati quasi 235 mila omicidi, tra il 2018 e il 2021 si sono contate altre 33 mila uccisioni e in generale negli ultimi vent’anni hanno perso la vita circa 500 mila persone fra civili, militari e trafficanti (senza contare rapimenti e sparizioni), la colpa è principalmente della feroce competizione tra cartelli per il controllo del mercato illegale della droga. Tant’è che, per molte comunità messicane, le minacce sono più elevate di quelle presenti anche nei contesti di conflitto più violenti. La presenza di gruppi criminali è così radicata che essi controllano vaste aree del territorio, instaurando legami profondi con le istituzioni locali e nazionali. L’infiltrazione del crimine organizzato negli apparati dello Stato e nelle forze di polizia ha seriamente minato la credibilità del Paese, alimentando una violenza crescente che è anche il risultato della diffusa povertà e del dissenso sociale. 

Come riportato da uno studio pubblicato su Science, basato sull’analisi di circa dieci anni di dati su omicidi, persone scomparse e incarcerazioni, nonché informazioni sulle interazioni tra fazioni rivali, in Messico la criminalità organizzata è il quinto datore di lavoro, con un numero di persone impiegate compreso tra 160mila e 185mila e un reclutamento – molto spesso forzato – di 350-370 nuove persone ogni settimana. 

Cosa sono i cartelli della droga e come sono nati

I cartelli messicani sono organizzazioni criminali che gestiscono il traffico e la distribuzione di cocaina, eroina, metanfetamine e altri stupefacenti, dai Paesi produttori dell’America Latina al resto del mondo. Oltre al traffico di droga, questi gruppi – si arriva a contarne fino a 200 di dimensioni più o meno grandi – sono coinvolti anche in altre attività criminali come estorsioni, sequestri di persona, rapine e traffico di migranti. La loro radicata presenza in Messico, ormai consolidata da almeno quindici anni, è dovuta principalmente a ragioni geografiche. Il Paese è infatti fisicamente collocato tra i principali produttori di droga dell’America Latina, come Colombia e Perù, e uno dei più grandi mercati di consumo, gli Stati Uniti. Questa posizione strategica, con un lungo confine condiviso con gli USA, ha reso il Messico un punto di transito ideale per gli stupefacenti.

I motivi dell’espansione e rilevanza dei cartelli sono però molteplici e interconnessi. C’entrano, per esempio, la frammentazione stessa dei grandi gruppi criminali in cellule più piccole, l’impoverimento generale della popolazione, che spinge molte persone a entrare nel narcotraffico per trovare sostentamento, e la corruzione diffusa nel governo e nelle istituzioni. Quest’ultimo aspetto, in particolare, è fondamentale per capire il processo che ha portato il Messico a spingersi fino a questo punto. 

Se in principio era la Colombia, principale fabbricante di droga fino agli anni Ottanta, a produrre, lavorare e confezionare le sostanze, mentre i gruppi messicani si occupavano dell’immissione di queste ultime nel mercato statunitense, con l’arrivo di Miguel Ángel Félix Gallardo il Messico assunse nel traffico un ruolo sempre più centrale. Con Gallardo, ex poliziotto che nel 1980 decise di dedicarsi al narcotraffico, i principali narcos messicani, allora deboli e divisi, si unirono infatti in grandi organizzazioni. Gallardo riuscì rapidamente a dominare le attività illecite legate agli stupefacenti sfruttando la sua precedente posizione, che gli permise di avere la protezione dei più alti livelli della politica e degli apparati di sicurezza nazionali. Al punto da riuscire indisturbato a fondare in Messico il primo grande cartello, quello di Guadalajara, che riunì sotto un unico tetto tutti i principali narcotrafficanti del Paese. Per merito della nuova organizzazione, il Paese ottenne la piena fiducia dei grandi cartelli colombiani, arricchendosi e acquistando prestigio. Gallardo riuscì persino a convincere Pablo Escobar, noto criminale colombiano e uno dei più grandi trafficanti di cocaina e marijuana della storia, a utilizzare il Messico come rotta per vendere droga agli Stati Uniti, perché più sicura e meno soggetta a controlli rispetto a quella caraibica. 

Nel contribuire alle fortune di Gallardo meritano una menzione speciale gli Stati Uniti. Il narcotrafficante godeva infatti di ampie protezioni all’interno della CIA per il fatto di essere un grande finanziatore dei Contras, i sanguinosi paramilitari appoggiati dagli USA in Nicaragua per sabotare nel sangue l’inviso governo socialista dei Sandinisti. Secondo quanto documentato, numerose agenzie federali statunitensi, tra cui la CIA e la DEA (l’agenzia federale antidroga), erano a conoscenza delle attività di Gallardo, ma a questi fu inizialmente data protezione per il contributo dato ai Contras.

Da Gallardo a El Chapo

El Chapo sotto arresto nel 2018

Il legame instaurato da Félix Gallardo tra lo Stato e il narcotraffico continuò a prosperare, fiorendo soprattutto durante il governo del Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI), uno dei più importanti gruppi politici messicani. Il partito permise ai cartelli di stringere legami con una vasta rete di funzionari corrotti fino agli anni 2000, quando, dopo 70 anni al potere, l’elezione del presidente Vicente Fox del Partito Azione Nazionale (PAN) cambiò le carte in tavola. Da quel momento, i narcos non poterono più contare sui legami con gli ex politici in carica, intensificando quindi la violenza e gli attacchi contro gli apparati dello Stato. 

Il piano fu però complicato da un accadimento imprevisto: l’arresto nel 1989, con l’accusa di omicidio e altri reati, di Félix Gallardo, che si diceva avesse organizzato nel 1985 il rapimento e l’uccisione di un agente della DEA (le forze speciali antidroga che conducono operazioni in Messico) per dare al Governo un segnale forte e chiaro. Se inizialmente l’ex poliziotto riuscì a continuare a gestire i traffici illeciti anche dal carcere, con il trasferimento negli anni ’90 in una prigione di massima sicurezza, il flusso si interruppe. La sua assenza fece perdere al Cartello di Guadalajara la sua iniziale compattezza e organicità e questo finì per dissolversi in tanti piccoli gruppi in lotta tra di loro: una rivalità che trasformò il Messico in una nazione martoriata, oltre che dal traffico di droga, anche dalla lotta tra bande armate. 

L’eredità di Gallardo non andò persa. Joaquín Archivaldo Guzmán Loera, meglio conosciuto come El Chapo, cercò di riorganizzare in qualche modo i gruppi più influenti sotto un nuovo unico cartello. L’uomo fu presentato a Gallardo poco prima che finisse in carcere, dimostrandosi fin da subito molto abile nel traffico di droga verso gli USA. Tanto da divenire, in poco tempo, il braccio destro dell’ex poliziotto, fino a prenderne il posto dopo l’arresto. Fra i cartelli ancora oggi maggiormente riconosciuti c’è proprio quello di El Chapo, il Sinaloa.

I cartelli messicani principali 

Nonostante la frammentazione dei cartelli e l’incarcerazione di migliaia di membri (circa 6mila all’anno), le dimensioni delle organizzazioni criminali sono in media più grandi rispetto a 10 anni fa. Nel 2022, i cartelli messicani contavano 60 mila membri in più rispetto al 20124 – sebbene in quest’arco di tempo sia morto il 17% delle reclute e il 20% sia stato imprigionato. Ma quali sono i cartelli con il maggior numero di persone arruolate?

  • Cartello di Sinaloa

Prende il suo nome da uno degli Stati del Messico occidentale in cui opera maggiormente ed è ritenuta una delle organizzazioni dominanti nel traffico di droga nazionale – i dati dicono che ne faccia parte un trafficante su dieci. È stata fondata da El Chapo Guzman e guidata dallo stesso almeno fino al suo ultimo arresto, avvenuto nel 2014 (era finito in carcere anche nel 1993, ma era riuscito a fuggire, con la complicità di alcuni agenti). Oggi deve contendersi la piazza soprattutto con il cartello Los Zetas. Come dimostrato dal suo fondatore, l’arma più utilizzata dai suoi membri non è la violenza ma la corruzione. 

  • Cartello Jalisco New Generation (CJNG)

Nato nel 2010 come cellula del cartello di Sinaloa, è uno dei più potenti e in più rapida crescita sia in Messico che negli USA – ne fanno parte quasi due reclute su dieci. Tanto che la DEA l’ha valutata come «una delle cinque organizzazioni criminali transnazionali più pericolose e violente al mondo». Fondata da El Mencho, ex agente di polizia dello Stato di Jalisco, è particolarmente nota per il numero di massacri, omicidi e scontri violenti. Un modo di agire con cui ha aperto rotte al traffico di droga che nessuno prima era riuscito a sfondare.

  • Cartello di Los Zetas

Composto inizialmente dai disertori delle forze speciali dell’esercito messicano, il cartello Los Zetas, nato nel 1999, deve il suo nome al suo primo capo: Arturo Guzmán Decena, noto alle forze dell’ordine come Z1. Nel corso degli anni, il gruppo si è fatto notare per la brutalità delle sue azioni, tra cui massacri di civili, decapitazioni, pubblicazioni online delle uccisioni e dispersione di resti umani in luoghi pubblici come avvertimento per i gruppi rivali. 

Quali misure ha adottato il Messico per ridurre il dominio dei cartelli

Fino agli anni 2000, i governi in carica hanno sempre tenuto, nei confronti dei cartelli della droga, un atteggiamento generalmente cauto e passivo. L’esordio della “Guerra al traffico di droga”, un approccio adottato per la prima volta nel 2006 dall’allora presidente Felipe Calderón, d’ispirazione cattolica e conservatrice, fu invece improntato sull’intervento militare. In quell’anno ci fu infatti un dispiegamento dell’esercito senza precedenti – circa 45 mila soldati – sparpagliato per le strade e incaricato di combattere direttamente i cartelli sul suolo pubblico, soprattutto al nord e al confine con gli USA. Questo approccio non è mai radicalmente cambiato. Seppure negli anni l’esercito messicano (con l’intervento americano) sia riuscito a catturare o uccidere almeno venticinque fra i più importanti boss della droga, a detta di molti critici la violenza militare non ha fatto altro che frammentare i cartelli, dando vita a bande sì più piccole ma più violente.

Quando il nazionalista di sinistra Andrés Manuel López Obrador assunse l’incarico, nel 2018, promise che avrebbe posto fine alla guerra al narcotraffico optando per una strategia nuova, che avrebbe dovuto limitare gli scontri tra polizia e trafficanti e favorire lo sviluppo sociale delle aree più povere. La sua politica venne ribattezzata con lo slogan «Abrazos, no balazos» (abbracci, non proiettili). Per questo motivo, Obrador istituì una guardia nazionale costituita da circa 125 mila membri con il compito di mantenere la pace e stanziò ingenti fondi per incentivare lo sviluppo delle aree più disagiate del Paese – dove i narcos cercano e trovano le proprie reclute. L’obiettivo era quello di emancipare le classi popolari dal bisogno materiale che le spinge a divenire manodopera a basso costo per la criminalità organizzata. Ma i risultati, per ora, non sono quelli sperati. ACLED ha documentato che nel 2023 gli scontri tra polizia e gruppi criminali – che evidenziano un allontanamento di Obrador dal suo precedente approccio «abbracci, non proiettili» – sono stati almeno 872, in aumento del 24% rispetto ai 705 registrati nel 2022. Anche i combattimenti tra gruppi armati rivali sono aumentati in modo simile nel 2023, con 426 eventi rispetto ai 377 del 2022.

Nessun diritto, nessuna giustizia

Oltre a diventare vittime innocenti degli scontri diretti tra cartelli rivali, che trasformano le strade cittadine in veri e propri campi di battaglia, i civili subiscono un’ulteriore violazione del loro diritto umano alla vita. Negli anni, Human Rights Watch, un’organizzazione statunitense che si occupa della difesa dei diritti umani, ha infatti più volte denunciato l’esercito e la polizia messicani per diffuse violazioni dei diritti umani nel tentativo di combattere la criminalità organizzata, sottolineando che nessuna di queste sia stata adeguatamente indagata. Numerosi anche i casi di insabbiamento documentati, che testimoniano la profonda connivenza tra cartelli criminali e poteri dello Stato corrotti. Scrive Human Rights Watch: «I soldati o la polizia hanno più volte manipolato, nascosto o distrutto prove per far sembrare che le loro vittime fossero aggressori armati o morti di sparatorie tra cartelli rivali». 

Cosa aspettarsi per il futuro  

Militanti indigeni dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN)

A causa dell’aumento della domanda di droga sia in Europa che negli Stati Uniti, è impensabile che i cartelli arrestino i loro traffici. E con l’aumento della possibilità di generare nuovi profitti, cresce anche la lotta tra fazioni rivali per il controllo del mercato. Un esempio emblematico è il Chiapas, uno Stato del Messico meridionale fino a poco tempo fa considerato fra i più sicuri, ora teatro di scontri tra il cartello di Sinaloa, che lo ha dominato a lungo in solitaria, e quello CJNG, arrivato nel 2021. Si tratta di violenze che chiamano in causa anche il governo centrale. Secondo l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) l’organizzazione indigena che autogoverna ampie zone del Chiapas, le violenze dei narcos sui loro territori vengono di fatto tollerate e permesse dal governo messicano, che usa i cartelli a mo’ di forza paramilitare per sabotare l’autogoverno indigeno. Con le elezioni presidenziali del 2 giugno 2024, viste come un’opportunità per i cartelli di prendere il potere, gli episodi di violenza si sono ulteriormente intensificati. Dal 2019 al 19 maggio 2024, prima, durante e dopo i processi elettorali, il Messico ha registrato 1881 episodi di minacce, omicidi, attacchi armati, sparizioni e rapimenti ai danni di persone impiegate nella sfera politica o governativa o contro strutture governative o partiti. 

Per esempio, il 16 maggio scorso, proprio nel Chiapas, degli uomini armati hanno aperto il fuoco durante una manifestazione elettorale, uccidendo sei persone. Tra queste hanno perso la vita una bambina e Lucero López Maza, candidata sindaca ventottenne del Partito popolare del Chiapas. Prima di lei, altre venticinque persone candidate per lo stesso ruolo sono state ammazzate in maniera violenta dal 23 settembre del 2023, da quando cioè è iniziata la tornata elettorale. E quasi 500 candidati hanno richiesto protezione fisica personale

Per il Messico uscire da questo tunnel di violenza non sarà semplice e potrebbe non accadere mai del tutto. I tentativi dei precedenti governi hanno dimostrato che puntare all’eliminazione dei cartelli – per vie più o meno pacifiche – non è la strada più efficace. Questo approccio non fa altro che frammentarli, renderli più violenti e intensificare i conflitti territoriali, troppo spesso coinvolgendo i civili nel fuoco incrociato. Piuttosto, sarebbe più utile lavorare sull’interruzione dei diffusi legami tra funzionari statali e gruppi criminali, rimuovendo quel velo opaco che permette a polizia e narcos di agire impunemente, causando numerose vittime innocenti. Un approccio più promettente potrebbe prevedere la concentrazione di risorse nelle aree più violente del Paese, distribuendole in base a piani d’azione su misura, così da valutare ogni situazione specifica e intervenire sulle cause in ciascuna regione. Tuttavia, ogni possibile soluzione passerà ovviamente dalla volontà politica di fermare le violenze e il narcotraffico, fino a oggi sia i governi messicani che quelli statunitensi hanno dimostrato molte volte di non agire in questa direzione.

[di Gloria Ferrari]

Chi tira i fili della marionetta Joe Biden e decide per lui? Hanno commesso reati gravissimi, da ergastolo

Chi tira i fili della marionetta Joe Biden e decide per lui?

https://www.controinformazione.info/chi-tira-i-fili-della-marionetta-joe-biden-e-decide-per-lui/

di Luciano Lago

Il candidato del Partito Democratico USA, Joe Biden, ha ricevuto il “de profundis” con la sua penosa performance nel dibattito televisivo dei due candidati Trump e Biden di due giorni fa.
Dopo solo pochi minuti dall’inizio del tanto atteso dibattito di giovedì sera, tutti gli spettatori hanno potuto vedere in quali condizioni sia Joe Biden e quale sia lo stato attuale della sua capacità cognitiva.
I due giornalisti della CNN, Jake Tapper e Dana Bash,  hanno fatto da testimoni al crollo sacrificale del candidato unico del partito Democratico e del fronte liberal globalista occidentale.

Davanti agli spettatori di tutto il mondo la finzione, trascinata da molto tempo dai media dell’establishment, è stata miseramente svelata, Biden è affetto da incapacità cognitiva e non è in grado di decidere alcunché.  Le sue gaffe, le frasi sconnesse ed il suo farfugliare lo hanno rivelato in modo evidente.
Questo episodio solleva molte domande irrisolte e sospetti reali sul ruolo svolto dalla CIA e dallo Stato profondo (Deep State) nel mantenere in piedi un fantoccio di presidente incapace e indurlo anche alla nomination presidenziale.

Sembra impossibile che i tanti funzionari della Casa Bianca e del Pentagono non fossero a conoscenza delle reali condizioni di Biden e bisogna capire perché hanno taciuto e a chi faceva comodo mantenere in vita un fantoccio di presidente incapace. 
Peggio ancora indagare su quali siano le centrali di potere occulte che guidano la politica statunitense e occidentale.

 

La verità appare nuda e terribile: la finzione è stata quella di nascondere il vero potere di pressione e di ricatto che le oligarchie occulte esercitano sui gangli dello Stato, sulle cariche formali elettive che apparentemente prendono le decisioni.
Tutti i media e le principali fonti di informazione hanno lavorato in collusione con queste oligarchie per ingannare il pubblico, i normali cittadini che prestano fede alle bufale diffuse dalla grande stampa e dalle Tv.
Questo di fatto è un colpo di stato nascosto che è in atto già da molto tempo ma i creduloni non se ne erano accorti, quelli ignorano quali siano i veri gangli del potere.
Quella americana si potrebbe definire, piuttosto che una falsa democrazia, una “stratocrazia”, ovvero un sistema che nasconde i vari strati o livelli delle lobby  di potere, essenzialmente  quella del Deep State, quella del potere Finanziario (Fed e grandi Banche), quella della lobby israeliana, quella dell’apparato militare industriale.

Se qualcuno tra i giudici negli USA avrà il coraggio di mettersi contro queste lobby e indagare, allora ne scoprirai delle belle, a partire dalla corruzione della famiglia Biden, sempre coperta dai media compiacenti  e dai politici del Partito Democratico, tra cui si distinguono le dinastie degli Obama, della Clinton, dei senatori ultras guerrafondai come Lindsey Graham  e i personaggi come George Soros e gli altri del codazzo dei miliardari complici. Ci sono reati da sedia elettrica o da ergastolo, come alto tradimento, omicidio e violazione della Costituzione che potrebbero portare alla sbarra la classe politica attuale del Partito Democratico.
Difficile che questo possa accadere, chi dovesse denunciare rischia grosso ed esiste un esteso giro di complicità.

Al momento quello che rischia di essere eliminato in modo soft è Joe Biden, in quanto divenuto personaggio scomodo. Ci sono tanti modi di farlo con gli sperimentati metodi della CIA e successivamente, dopo un solenne funerale, ci sarà il sostituto che sarà inevitabilmente un “uomo di paglia”.
I responsabili della truffa Biden sono ora presumibilmente impegnati nella ricerca del sostituto; quando lo avranno trovato, presumo che si ingegneranno per eliminare Biden, facendo sembrare quella una fine naturale.
Questa potrebbe essere la fase conclusiva della “finzione Biden”.

Il pensiero di una guerra senza fine in Ucraina spaventa l’élite russa, che spera ancora che la guerra finisca, scrive Foreign Affairs

“Dobbiamo vincere questa guerra”: le élite russe hanno iniziato a prepararsi per la guerra con la NATO – Foreign Affairs

https://www.controinformazione.info/dobbiamo-vincere-questa-guerra-le-elite-russe-hanno-iniziato-a-prepararsi-per-la-guerra-con-la-nato-foreign-affairs/

 

“Dobbiamo vincere questa guerra”: le élite russe hanno iniziato a prepararsi per la guerra con la NATO, scrive Foreign Affairs.

 Sconvolti in precedenza dallo scoppio della guerra, iniziarono a sostenerla. Soprattutto perché credono che la Russia stia vincendo, scrive il giornalista M. Zygar* in un insolito articolo di propaganda.

Secondo uno degli oligarchi russi, in Russia tutto è cambiato: l’atteggiamento nei confronti di Putin, dell’Ucraina, dell’Occidente.

“Dobbiamo vincere questa guerra. Altrimenti non ci sarà permesso di vivere. È brutto essere un emarginato come vincitore, ma è ancora peggio essere un emarginato come perdente. Dobbiamo vincere questa guerra. Altrimenti non ci lasceranno vivere. E la Russia, ovviamente, potrebbe crollare”, ha detto in forma anonima un esponente dell’oligarchia russa.

Nell’ambiente burocratico ed economico si discute se la conquista di Kharkov o di Kiev sarà una vittoria. Molti a Mosca credono che una seconda offensiva dalla Bielorussia sulla capitale ucraina avrà più successo rispetto a quella del 2022, dal momento che l’esercito russo è ora più numeroso, meglio addestrato ed equipaggiato, e gli ucraini sono troppo stanchi per organizzare una difesa efficace.

Ma i successi sul campo di battaglia potrebbero non essere sufficienti a soddisfare Putin, dal momento che egli vede il fronte ucraino solo come una direzione in un conflitto su vasta scala con l’Occidente, sostiene l’articolo. Per sconfiggere i suoi veri nemici a Washington e Bruxelles, Putin potrebbe sentire il bisogno di attaccare uno dei membri della NATO.

Secondo l’élite russa, l’obiettivo più probabile sarebbero l’Estonia o la Lettonia. Per fare ciò, in primo luogo la minoranza russa nei Paesi Baltici può chiedere “aiuto” a Mosca a causa della “oppressione”.
Le truppe russe potrebbero quindi attraversare il confine e potrebbero prendere il controllo delle aree nell’est di entrambi i paesi, come la Narva estone, prevalentemente di lingua russa. Prendendo la città, Putin metterà alla prova se la NATO è davvero pronta a rischiare una terza guerra mondiale.

In passato, le élite russe non erano disposte a rischiare un conflitto nucleare. Ma ora molti di loro sono convinti che la NATO non oserà rispondere perché credono che l’Occidente sia stanco e diviso.

Si parla della possibilità di uno scenario del genere anche prima delle elezioni americane per minare le possibilità di Biden di essere rieletto.

Allo stesso tempo, molte élite russe pensano che Putin non si fermerà anche se Trump vincesse.

“Il pensiero di una guerra senza fine in Ucraina spaventa l’élite russa, che spera ancora che la guerra finisca. Sognano di tornare il prima possibile in tempo di pace al 23 febbraio 2022. Ma per ora tacciono. Non vedono una via d’uscita”, riassume l’articolo della rivista USA.

 Fonte: Rusvesna.su

Traduzione: Mirko Vlobodic

la reputazione della “democrazia” americana, diretta per finta da Rimbambiden è irrimediabilmente compromessa.

 

Il re è rinco

di Marco Travaglio - 30/06/2024

https://www.ariannaeditrice.it/articoli/il-re-e-rinco

Il re è rinco

Fonte: Il Fatto Quotidiano

A un certo punto del raccapricciante faccia a faccia dell’altra notte, si è avuta la netta sensazione che, se Trump avesse chiesto a bruciapelo a Biden “come ti chiami?”, il Capo del Mondo Libero non avrebbe saputo rispondere. Ma, per tutti i 90 minuti del derby fra il mascalzone esagitato e il mascalzone rintronato, le domande che galleggiavano sul capoccione phonato del primo e su quello incollato del secondo erano altre. Come ha potuto la Culla della Democrazia ridursi a una scelta tanto imbarazzante? Chi sta guidando davvero gli Usa e l’Occidente verso la terza guerra mondiale? Per quanto tempo ancora i dem americani e i commentatori internazionali al seguito pensavano di poter negare ciò che il mondo intero vede a occhio nudo da anni sullo stato pietoso in cui versa il “commander in chief”? Solo pochi giorni fa Repubblica spacciava una doverosa inchiesta del WSJ sulla salute mentale di Biden per un “attacco dei repubblicani”. E Domani spiegava che il presidente Usa sta una favola, ma i “trucchi” e le “fake news a basso costo” della “campagna di Trump vogliono farlo apparire confuso, lavorando su inquadrature e tagli per trasmettere un’idea falsata”. Certo, come no.
Poi l’altra sera, come nella fiaba del re nudo ma senza bisogno del bambino, tutto il pianeta ha visto Rimbambiden al naturale: saltava di palo in frasca, biascicava frasi incomprensibili (poveri interpreti), infilava il prezzo dell’insulina nella risposta sull’Ucraina e i chip coreani in quella sull’età, vantava come un trionfo l’invereconda fuga da Kabul, ripeteva che Putin vuole invadere la Polonia e poi l’intera Europa, cose così. E non di fronte a un campione di dialettica, ma a un odioso e rozzo bullaccio che ficca i migranti e i veterani dappertutto, spara (anche lui) cifre a casaccio e mente (anche lui) a ogni respiro. Al confronto, il peggior politico italiano pare Churchill. Biden s’è distrutto da solo, con scene pietose che ricordano il tramonto dell’altro impero, quello sovietico, plasticamente incarnato dal corpo mummificato e surgelato di Breznev issato sulla balconata del Cremlino per mostrarsi ancora vivo con meccanici scatti del braccio. Eppure, fino all’altroieri, chi osava dire che l’Occidente è in mano a un rinco era un nemico della democrazia e un servo di Trump, oltreché di Putin. E i nemici delle “post-verità” trumpiane accreditavano quella bideniana per “non fare il gioco” di The Donald, senza accorgersi di lavorare proprio per lui. Perché, a quattro mesi dal voto, è difficile cambiare cavallo in corsa. E perché la reputazione della “democrazia” americana, diretta per finta da Rimbambiden e per davvero da una cricca di fantasmi mai eletti che gli fan dire e fare ciò che vogliono, è irrimediabilmente compromessa.


Dopo l’ultima performance di Biden è evidente che a gestire il potere vero non sono i politici: chi ci ha imposto tutte le nefandezze degli ultimi anni?

 

Chi è il sovrano?

di Silvio Dalla Torre - 30/06/2024

https://www.ariannaeditrice.it/articoli/chi-e-il-sovrano

Chi è il sovrano?

Fonte: Silvio Dalla Torre

CHI E’ IL SOVRANO?
Le reazioni della stampa al duello televisivo tra i candidati alle prossime presidenziali americane danno la misura di quanto in crisi siano la politica e la democrazia. Si esprime preoccupazione  per il fatto che Joe Biden, il quale ha dimostrato in diritta televisiva evidenti segni di declino delle più elementari capacità intellettuali,  possa essere il rivale di Trump alle prossime elezioni. Appare, invece, normale che il medesimo Joe Biden sia  il presidente della più grande potenza mondiale. Eppure le sue condizioni di salute, che certo negli ultimi tempi si sono ulteriormente degradate, erano già compromesse nel 2020. Le difficoltà ad articolare discorsi di senso compiuto, a ricordare i nomi, a collocare eventi e persone in modo corretto sul piano geografico e su quello cronologico erano già evidentissime quattro anni fa. Non si trattava di distrazione o di stanchezza, ma di una vera e propria malattia. Nè la chirurgia estetica, né i discorsi preparati dai ghost writers, né gli auricolari o i suggerimenti dei collaboratori potevano nascondere l’evidenza: Biden non era in grado di esercitare i compiti connessi alla sua funzione. Non lo era allora come non lo è oggi e come non lo è stato negli anni trascorsi in carica.
Una stampa non degradata (la crisi della politica va di pari passo con quella dell’informazione) avrebbe dovuto porre alcune domande ineludibili. In assenza del presidente, chi ha esercitato il potere? Gli ultimi quattro anni non sono stati anni ordinari. Un miliardo di persone è stato per mesi confinato in casa con la scusa dell’epidemia, si sono imposti degli obblighi vaccinali in tutti i paesi dell’Occidente, è scoppiata una drammatica guerra in Europa, il Medio Oriente è di nuovo in fiamme. In tutti questi eventi gli Stati Uniti, come è naturale vista l’influenza del paese nelle vicende mondiali, hanno avuto un ruolo di primo piano. In una democrazia ( ma anche in qualsiasi altra forma di governo) conoscere chi ha effettivamente preso certe decisioni dovrebbe essere scontato. Ci troviamo invece di fronte ad un’opacità senza precedenti nella storia.
La verità è che la demenza senile di Biden esibisce in modo inequivocabile quello che era già evidente. Nel nostro Occidente il vero potere non si trova al livello della politica e non è soggetto al voto degli elettori. Biden , ma anche Macron, Sunak, Meloni, Draghi, che pure hanno capacità intellettuali non compromesse,  sono solo dei burattini. Se cercano di liberarsi dai loro fili rischiano di essere politicamente distrutti o, al peggio, di fare la fine del primo ministro sloveno Fico. Nell’attuale congiuntura storica nè i governi né, tanto meno,  i parlamenti esercitano la sovranità.
Comprendere dove si trovino i veri potenti ( in quali consigli di amministrazione, in quali logge, in quali club, in quali sette) è il primo passo per cercare di limitare il loro potere. 

Bolivia, Il fallito golpe è questione di litio (e di Russia) Non era un golpe da operetta ma qualcosa è andato storto.

 

Bolivia, Il fallito golpe è questione di litio (e di Russia)

Non era un golpe da operetta ma qualcosa è andato storto. Il ruolo del litio e gli accordi tra Bolivia, Russia e Cina.
 
 
Bolivia, Il fallito golpe è questione di litio (e di Russia) Tempo di lettura: 4 minuti

Fallisce il golpe in Bolivia. E rimarrà nella storia boliviana, e non solo, il faccia a faccia tra il presidente Luis Arce e il generale José Zuñiga, il front runner dei golpisti che ha preso d’assalto il palazzo del potere.  Non era affatto un golpe da operetta, come denota la rete dei golpisti pubblicata da Los Tiempos. Semplicemente qualcosa è andato storto e a Zuñiga l’hanno lasciato solo, come si dice in gergo.

Sempre da Los Tiempos: “Arce non ha escluso la possibilità che dietro il fallito colpo di stato in Bolivia ci siano interessi esterni, come quanto avvenuto nel novembre 2019, aggiungendo che la chiave è la questione del litio”.

Arce desmiente a Zúñiga y asegura que Inteligencia ocultó información

Il golpe del 2019 e il litio boliviano

Ci permettiamo un flashback per capire l’istruttiva allusione. Durante lo spoglio delle schede elettorali del 2019, voto che doveva rinnovare il Parlamento e dare un nuovo presidente al Paese, l’Organizzazione degli Stati americani (OAS), che monitorava lo scrutinio, denunciò brogli a favore dell’ex presidente Evo Morales, con successivi disordini e pressioni da parte dei militari su di lui perché si dimettesse per evitare un bagno di sangue. Cosa che questi fu costretto a fare.

Secondo il Los Angeles Times, fu Carlos Trujillo, ambasciatore statunitense presso l’OAS, a sollecitare “il team dell’organizzazione che monitorava le elezioni a denunciare frodi diffuse e spinto l’amministrazione Trump a sostenere la cacciata di Morales”, più che inviso agli Usa per le sue posizioni socialiste.

Does Trump support democracy in Latin America? Critics say it depends who’s in power

L’America negò ogni coinvolgimento, ma il non riconoscimento della validità delle elezioni da parte di Washington e le pubbliche dichiarazioni di giubilo di tanta della sua leadership per l’estromissione di Morales dal potere restano inequivocabili.

Peraltro, a parlare di golpe fu lo stesso New York Times dopo qualche mese, pubblicando, a corredo della sua denuncia, uno studio di alcuni ricercatori Usa che dimostrarono come le accuse di frode contro il partito di Morales fossero infondate.

Elezioni in Bolivia: gli Stati Uniti negano il riconoscimento; Sostenitori di Morales e opposizione si scontrano mentre le parti attendono l'audit dell'OAS

Il golpe fu poi portato a compimento attraverso l’autoproclamazione a presidente di Jeanine Áñez, a nome e per conto degli oppositori di Morales, un po’ come tentò di fare Juan Guaidò in Venezuela (stessa regia).

La Áñez dichiarò che avrebbe portato il Paese a nuove elezioni entro 90 giorni, cosa che non fece, instaurando invece un regime di repressione che terminò con le elezioni del 2020, nelle quali vinse Luis Arce, candidato del Mas (movimento per il socialismo) in alternativa a Morales, al quale fu impedito di candidarsi.

Quanto al litio, anche allora si disse che la causa del golpe fosse proprio tale minerale, di cui la Bolivia è ricchissima tanto da avere il primato dei depositi globali, dai quali c’è ancora tanto da attingere perché sfruttati relativamente. Peraltro, per lo sfruttamento delle saline di litio il governo ha recentemente fatto accordi con russi e cinesi.

A peggiorare i rapporti tra La Paz e Washington anche la visita di Stato di Arce in Russia del 6 giugno scorso, durante la quale ha incontrato Putin al quale ha chiesto di investire nel suo Paese per favorirne lo sviluppo (CNN).

El presidente de Bolivia, Luis Arce, anuncia proyecto para producir baterías de litio con Rusia en reunión con Putin

Il finto golpe che invece è vero

Quanto alle accuse che il golpe fosse gestito dallo stesso Arce, che si stanno diffondendo sui media (anche per le accuse in tal senso di Zuñiga), si tratta di un meccanismo alquanto stantio di certi apparati. Per fare un esempio recente, tale tecnica fu usata anche dopo il fallimento del golpe in Turchia del 2016, che i media ascrissero allo stesso Erdogan. Invece, il golpe era vero, eccome.

Tale tecnica serve a offuscare l’immagine del potente di turno scampato al golpe, nella speranza di fiaccarlo, e per seminare destabilizzazione, ma anche per distogliere l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica dai veri artefici.

Nel caso boliviano si è anche tentato di mettere l’uno contro l’altro Arce e Morales, dilatando al parossismo la dialettica che si è instaurata tra i due, che pure militano nello stesso partito.

Addirittura c’è chi ha affermato che il golpe sia stato orchestrato contro Morales, mentre altri, per ribaltamento, hanno dichiarato che dietro i militari ci fosse Morales. A chiudere questa stramba diatriba ci ha pensato lo stesso Arce, il quale ha rivelato di aver telefonato a Morales per avvertirlo del golpe e per dirgli di prendere le dovute precauzioni perché dopo aver abbattuto il presidente si sarebbero accaniti anche contro il suo predecessore (La Razon).

Arce: Llamé a Evo y le comuniqué que había un golpe, para prevenirle y que tome recaudos

Al di là del particolare, a quanto pare siamo di fonte all’ennesimo golpe fallito da parte degli apparati statunitensi, che da un po’ di tempo a questa parte appaiono alquanto arrugginiti sul tema. Non sono più i bei tempi di una volta, quelli delle Repubbliche delle banane e dei dittatori africani messi su a comando (su quest’ultimo punto vedasi The Intercept: “Dopo aver addestrato i leader che hanno realizzato colpi di Stato in Africa, il Pentagono accusa la Russia di aver orchestrato i colpi di Stato africani”).

Piccolo particolare simbolico, che ha la sua importanza se si tiene conto di quanto certi ambiti considerino importante la simbologia: il 26 giugno, giorno del golpe, era l’anniversario della nascita di Salvador Allende, la cui destituzione-uccisione tramite colpo di Stato, avvenuta l’11 settembre del 1973, inaugurò la stagione del Terrore delle dittature sudamericane.

Macron “promette 100 euro a ciascun francese che vota il suo partito ma suscita repulsione

 

Macron compra i voti … e li ruba

Due giorni fa, la notizia che Macron “promette 100 euro a ciascun francese che vota il suo partito

Page d'accueil du site

Adesso un fatto, segnalato da media mainstream, da codice penale:

Ignoti

“vengono a casa degli anziani” o nelle case di riposo (segnalano molte infermiere) per farsi compilare le deleghe, grazie alle quali “qualcuno” voterà al posto loro

(vedi: https://france3-regions.francetvinfo.fr/occitanie/herault/montpellier/legislatives-2024-attention-aux-fraudes-les-procurations-en-question-des-entreprises-denoncent-de-possibles-abus -della-debolezza-degli-anziani-2992568.html)

A ciò si aggiunge questa strana ONG gestita da macronisti che fa deleghe a tutto spiano (vedi: https://liberation.fr/checknews/le-site-plan-procu-a-t-il-ete-fonde-par -close-to -macronie-20240613_OEO35MBGNBC63JSQ7QRLMWUSJY/)

Le vote par procuration a explosé pour ces élections - archives.

Queste deleghe sono ormai “totalmente dematerializzate” contro di esse c’è stato ricorso davanti al Consiglio Costituzionale! Ben oltre 2 milioni di deleghe, un record: questo farà la differenza.

Il punto è che, nell’indire elezioni all’Assemblea, Le Kul era convinto che comunque, il suo partito avrebbe preso il 20 per cento, e avrebbe fatto da arbitro fra RN e Frronte Popolare. dai sondaggi pare che sia sotto l’8. Macron ha sottovalutato completamente la revulsione generale che ha suscitato il suo governo e più ancora, la sua persona.

“E’ “l’ordine basata su regole” che viene scoperto a violare le regole; è la “democrazia” che distingue l’Occidente dalle “autocrazie” come la Russia. Il ricordo a questi sistemi (Macron non conosceva il metodo Achille Lauro, l’armatore napoletano che regalava un paio di scarpe, una prima ed una dopo il voto: sarebbe stato più efficace) è segno di un profondo disfacimento del Sistema, analogo a quello che vediamo negli USA, dove il Deep State voleva eliminare Biden, ma il decrepito o invece non rinuncia, vuole continuare la campagna… e i milioni per la corsa elettorale ( costosissima in USA) li ha raccolti lui, non li cede certo

Quanto ai metodi “democratici” usati dai caporioni UE per auto-confermarsi anche questi un segno di crisi: non fingono più di dare lezioni di morale, arraffano il potere perché non sonno più certi che durerà.

Qui una scoperta dell’ottimo blogger:

ps://twitter.com/ChanceGardiner/status/1806716507478434028

Azovprodukt. Le forze ucraine hanno distrutto un'azienda di proprietà italiana in Russia

 

Azovprodukt. Le forze ucraine hanno distrutto un'azienda di proprietà italiana in Russia

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-azovprodukt_le_forze_ucraine_hanno_distrutto_unazienda_di_propriet_italiana_in_russia/39602_55488/

di Maurizio Vezzosi*

 

Lo scorso 18 giugno un attacco ucraino condotto con i droni in territorio russo ha in buona parte distrutto gli impianti di “Azovprodukt” : l'azienda è attiva dal 2010 sulle sponde del Don - presso la località di Azov, regione di Rostov - si occupa di stoccaggio e trasporto intermodale di carburante e prodotti chimici: “Azovprodukt” è parte del gruppo italiano Decal, con sede a Soresina (Cremona).

Almeno due serbatoi da 5000 metri cubi sono stati distrutti: l'attacco non ha prodotto vittime.

Dal 24 febbraio 2022 i depositi di carburante e prodotti chimici sono diventati uno dei principali obiettivi sia per le forze ucraine che per quelle russe.

Secondo il governatore della regione di Rostov sul Don Vasilij Golubev nelle operazioni di spegnimento sono stati coinvolti circa 200 vigili del fuoco ed è stato fatto arrivare sul posto anche un treno speciale antincendio. La vicenda, riportata dall'agenzia russa Interfax, è stata informalmente confermata a chi scrive da una dipendente del gruppo alla condizione di restare anonima: alla richiesta di rilasciare dichiarazioni sull'accaduto sia gli uffici russi di “Azovprodukt” che gli uffici italiani del gruppo non hanno risposto. 

Considerando le attività di ricognizione e di raccolta preliminare di informazioni necessarie per condurre un attacco di questo genere è altamente improbabile che le forze ucraine non fossero al corrente della proprietà dell'azienda che sarebbe stata attaccata. Ciò porta ad avvalorare l'ipotesi di un attacco pienamente consapevole. Se questa ipotesi trovasse conferma, si tratterebbe di un precedente molto significativo, trattandosi di un attacco deliberato contro una delle migliaia di aziende straniere rimaste attive nella Federazione russa dopo il 24 febbraio 2022: le implicazioni di questo precedente rischiano, soprattutto in mancanza di provvedimenti adeguati, di mettere a repentaglio gli interessi economici e la sicurezza dei cittadini italiani e degli altri paesi dell'Unione Europea.

 

*Post Telegram del 29 giugno https://t.me/mauriziovezzosi

IL MINISTRO DELLA DIFESA RUSSO ORDINA ALL’ESERCITO DI PREPARARE LA RISPOSTA AI VOLI DEI DRONI STATUNITENSI SUL MAR NERO

IL MINISTRO DELLA DIFESA RUSSO ORDINA ALL’ESERCITO DI PREPARARE LA RISPOSTA AI VOLI DEI DRONI STATUNITENSI SUL MAR NERO

https://www.controinformazione.info/il-ministro-della-difesa-russo-ordina-allesercito-di-preparare-la-risposta-ai-voli-dei-droni-statunitensi-sul-mar-nero/

 

Il Ministro della Difesa russo Andrey Belousov ha ordinato al comando militare di presentare piani su come “reagire alle provocazioni” riguardanti il ​​crescente coinvolgimento della NATO nel conflitto in Ucraina, ha detto il Ministero della Difesa il 28 giugno.

 Il ministero ha notato in una dichiarazione una recente “maggiore intensità di presenza” di droni statunitensi sul Mar Nero, affermando che “questi conducono intelligence e mirano alle armi di precisione fornite all’esercito ucraino dai paesi occidentali per attacchi contro strutture russe”.

Questi voli aumentano la probabilità che possano verificarsi incidenti nello spazio aereo che coinvolgano aerei militari russi e il rischio di uno scontro diretto dell’alleanza con la Federazione Russa”, ha avvertito il ministero.

I membri della NATO saranno ritenuti responsabili in caso di incidenti del genere, ha aggiunto il ministero, senza tuttavia specificare come potrebbe reagire l’esercito russo.

La scorsa settimana, la Russia ha accusato gli Stati Uniti di condividere la responsabilità con Kiev per un attacco mortale su una spiaggia nella città portuale di Sebastopoli, in Crimea.

Attacchi in Crimea coadiuvati dai droni USA che sorvolano il Mar Nero

L’attacco, effettuato utilizzando missili balistici tattici MGM-140 ATACMS forniti dagli americani, è costato la vita a quattro civili, tra cui due bambini, e ha lasciato più di 150 feriti.

 La colpa era degli Stati Uniti, che avevano aiutato le forze di Kiev a dispiegare le armi, affermò all’epoca il Ministero della Difesa russo, sostenendo che gli specialisti militari americani erano direttamente coinvolti nella programmazione dei missili prima che venissero lanciati sulla penisola di Crimea.

Tuttavia, Washington ha preso le distanze dall’attacco, sostenendo che le forze di Kiev avevano deciso unilateralmente cosa fare con le armi fornite dall’Occidente.

La risposta degli Stati Uniti non ha soddisfatto la Russia. Il 27 giugno, il viceministro degli Esteri Sergej Ryabkov ha dichiarato che Mosca stava adottando misure di ritorsione in relazione al coinvolgimento di Washington nell’attacco missilistico mortale su Sebastopoli.

“La tragedia avvenuta a Sebastopoli certamente non rimarrà e non sarà priva della nostra risposta. La natura di questa risposta è una questione sulla quale non sono affatto autorizzato a discutere.

Penso che l’idea di certi scenari inammissibili sia anche nella mente di molti in Occidente. Dovrebbero sentire i rischi estremi associati a tali azioni”, ha detto il diplomatico durante una trasmissione televisiva Rossiya-1, secondo l’agenzia di stampa TASS.

Commentando la probabilità che la parte russa utilizzi armi nucleari tattiche in risposta all’attacco, Ryabkov ha sottolineato che “il presidente russo, in quanto comandante supremo in capo, prende decisioni così fatali”.

“Gli scenari in cui ciò è ammissibile sono descritti in dettaglio e con precisione nei documenti di base. Tutto è correlato alla situazione attuale”, ha sottolineato l’alto diplomatico russo.

Tutto sommato, l’attacco ucraino a Sebastopoli, autorizzato dagli Stati Uniti, non sarà apparentemente privo di una seria risposta russa.

A quanto pare, la Russia sta cercando una risposta che non solo scoraggerebbe Kiev e i suoi sostenitori, ma impedirebbe anche la ripetizione della tragedia. Un modo per farlo sarebbe quello di abbattere i droni della NATO che spiano la Crimea sul Mar Nero.

Nota: I droni USA che sorvolano la Crimea solitamente partono dalla base statunitense di Sigonella (Catania). Questo coinvolge anche l’Italia nel pericoloso gioco di provocazioni e di attacco alla popolazione civile russa che gli statunitensi stanno conducendo.

Fonte: South Front Press

Traduzione: Luciano Lago

Produci, Consuma e Crepa… Il sistema è un tritacarne, dove non solo si può morire fisicamente, ma soprattutto spiritualmente e psicologicamente…

 


Produci, Consuma e Crepa…

di DB (Weltanschauungitalia)

Il sistema è un tritacarne, dove non solo si può morire fisicamente, ma soprattutto spiritualmente e psicologicamente…

Per essere competitivi nella giungla del “libero” mercato bisogna sfruttare, spremere e poi buttare persone, per poi sostituirle con altre.

Sopra al “caporale” che schiavizza c’è tutto un sistema che ha come vetrina gli scaffali luccicanti dei supermercati, dove i prodotti, agricoli e non, vengono proposti a prezzi quasi decuplicati rispetto a quello riconosciuto ai produttori.

È il Capitalismo, quello che si poggia sull’illusione che ogni individuo possa diventare ricco, sul benessere di una stretta cerchia di ricconi e abbienti fatta di banchieri, finanzieri, speculatori, imprenditori e via via fino ad arrivare alle masse di impiegati, operai e agricoltori che si ritrovano a sopravvivere a stento in un sistema che è un tritacarne, dove non solo si può morire fisicamente, ma soprattutto spiritualmente e psicologicamente, inducendo tutti a rincorrere la sopravvivenza tra bollette, spesa e tasse varie senza nemmeno realizzarsi.

Il tutto con la collaborazione di amministratori che nemmeno più si possono definire politici che non solo mantengono lo status quo, ma fanno peggiorare sempre di più le cose.

Produci, consuma e crepa…

Articolo di DB

Fonte: https://t.me/weltanschauungitaliaofficial

Sostituire ora Biden è molto complicato, disastro anche di media e fact-checker che hanno negato fino all’ultimo

 

Ecco perché sostituire ora Biden è molto complicato. E arriva il soccorso di Obama

Obama: “brutte serate capitano”. L’ora del risveglio tra i Dem, disastro anche di media e fact-checker che hanno negato fino all’ultimo. Ma chi comanda alla Casa Bianca? C’è tempo per cambiare cavallo?

https://www.nicolaporro.it/atlanticoquotidiano/quotidiano/aq-esteri/ecco-perche-sostituire-ora-biden-e-molto-complicato-e-arriva-il-soccorso-di-obama/

 

Non è stato il disastro solo di Joe Biden. Come ha scritto il nostro Luca Bocci nella sua analisi a caldo del primo dibattito tv tra i due sfidanti nella corsa alla Casa Bianca, “i veri perdenti sono quei media che avevano per mesi provato a far passare la bufala di un Biden in perfetta salute, ancora lucido e perfettamente in forma”. I 90 minuti del duello trasmesso dalla CNN “hanno messo l’intero pianeta di fronte a quello che veniva negato con rabbia dai media mainstream“.

A chi si azzardava a sollevare dubbi o ironizzare sullo stato cognitivo del presidente, o a ritwittare e commentare i video delle sue amnesie, i nostri fact-checker e debunker di professione rispondevano con sarcasmo (tipo “hai forse una laurea in medicina?”), o con le immancabili accuse di disinformazione (video manipolati) e teorie ancora più bislacche (qualcuno ha parlato anche di balbuzie).

Le abbiamo sentite letteralmente di tutti i colori in questi anni e ancora fino a qualche ora fa. L’avanzato stato di declino cognitivo di Biden è ora innegabile. D’altra parte, qualche mese fa era stato persino certificato dal procuratore speciale Robert Hur, nominato dall’Attorney General Merrick Garland, che spiegando nel suo rapporto come mai avesse deciso di non incriminare il presidente per i documenti classificati custoditi illegalmente nelle sue abitazioni e uffici aveva parlato di “uomo anziano con scarsa memoria“.

Nemmeno l’uso del privilegio esecutivo per bloccare la pubblicazione dell’audio dell’interrogatorio di Biden era bastato a indurre Democratici e media progressisti a riconoscere la realtà.

L’ora del risveglio

Ma dopo il dibattito dell’altra notte è l’ora del (tardivo) risveglio. Ieri la pagina dei commenti del New York Times era unanime nel chiedere un passo indietro di Biden. Così come uno dei commentatori di punta progressisti, Nicholas Kristof: “Vorrei che Biden riflettesse sulla performance di questo dibattito e annunciasse la sua decisione di ritirarsi dalla corsa, lanciando alla convention la scelta del candidato democratico”. E come il sondaggista Dave Wasserman: “Questo dibattito rende abbondantemente chiara l’insistenza di Biden nel candidarsi per un altro mandato… ha gravemente messo a repentaglio le prospettive dei Democratici di sconfiggere Trump”.

La pensa così anche un altro guru dei numeri elettorali, il noto Nate Silver, che sul suo Bullettin ha pubblicato un commento dal titolo “Joe Biden dovrebbe ritirarsi”, in cui osserva che negare il suo declino ha messo i Democratici in una “posizione terribile”.

“Biden è l’ombra di se stesso. Questa è la cosa più ovvia al mondo – ed era ovvia prima di stasera“, scrive Silver, ricordando che la prima volta che aveva scritto delle sue preoccupazioni, ammettendo di non essere certo stato tra i primi, è stato lo scorso settembre. Era già chiaro allora che “la stragrande maggioranza degli elettori pensava che Biden fosse troppo vecchio per essere presidente. E avevano dannatamente ragione. Un presidente di 86 anni è una proposta ridicola e insostenibile. Pochi leader mondiali si avvicinano a quell’età, tranne che nei Paesi autoritari – e nessuno di loro è il presidente americano, il lavoro più difficile del mondo”.

Nate Silver se la prende con tutti quelli che hanno negato – nello staff, nel partito, nei media – facendo muro sui problemi di Biden fino a ieri. “Se sei un Democratico, dovresti essere arrabbiato con queste persone per averti messo in questa situazione”. E, aggiungiamo noi, non solo per aver compromesso la vittoria elettorale, ma anche per aver minato la credibilità della Casa Bianca e indebolito l’America nel mondo.

Chi comanda alla Casa Bianca?

E qui arriviamo a questioni ben più importanti di chi si sia aggiudicato il primo duello tv. Se Biden è quello dell’altra sera, chi ha governato l’America in questi anni? Chi comanda alla Casa Bianca? Chi prende le decisioni più importanti? Chi prepara i vertici internazionali? A proposito di “pericolo per la democrazia“, non può essere certo liquidato come complottismo il sospetto che altri abbiano manovrato dietro le quinte senza alcuna legittimità e accountability. Una questione che avrebbe dovuto essere in cima alle preoccupazioni dei media e degli osservatori.

La leva d’emergenza

Resta un altro interrogativo a cui provare a dare una risposta, posto ieri anche da Luigi Curini su X: perché organizzare un dibattito presidenziale così presto, così tanti mesi prima delle elezioni? Un altro record: mai infatti si era tenuto un duello tv con così tanto anticipo, ha osservato Luca Bocci, addirittura prima delle convention di investitura. Forse, azzardiamo un’ipotesi, un estremo tentativo di aprire gli occhi del mondo Dem – partito e media – e indurre il presidente ad un passo indietro in tempo utile per incoronare un altro candidato.

Lo scrive anche Nate Silver nel suo articolo: “l’unica salvezza nel tenere il dibattito così presto era che avrebbe dato ai Democratici la possibilità di tirare la leva di emergenza e sollecitare Biden a dimettersi prima della convention se fosse andata davvero male. Bene, le leve di emergenza esistono per un motivo. È andata peggio di quanto avessi mai immaginato e mi aspettavo che andasse male. È tempo che Biden consideri cosa è meglio per il suo partito, per il Paese e per la sua eredità – e non è cercare la presidenza fino agli 86 anni”. Silver quindi annuncia che non vivendo in uno stato in bilico, voterà per un terzo partito se Biden resterà in corsa, “come protesta contro l’irresponsabilità di Biden nel cercare un secondo mandato e l’irresponsabilità del Partito Democratico nel nominarlo senza una seria competizione primaria”.

C’è ancora tempo per sostituirlo?

Ma realisticamente, c’è ancora tempo per cambiare candidato? I problemi sono almeno due. Primo: a meno di non ricorrere a nomi noti, ma divisivi all’interno del partito e nel Paese, come Hillary Clinton, o la vicepresidente Kamala Harris, impopolare più o meno quanto Biden, o a Michelle Obama, che però al momento non pare disponibile, non c’è tempo sufficiente per “costruire” un nuovo candidato e farlo conoscere.

Secondo: molto difficile rimuovere Biden come candidato e tenerlo come presidente. La non ricandidatura del presidente uscente non sarebbe dovuta alla conclusione di un secondo mandato o ad una scelta personale, ma a motivi di età e di salute, al suo declino cognitivo. Non sarebbe, insomma, come Lyndon Johnson nel 1968. Ammettere che Biden non è in grado di correre per la rielezione significa ammettere che non è in grado nemmeno di concludere il suo mandato – e restano ben sei mesi.

Significherebbe azzoppare la presidenza, dare all’esterno l’immagine di un vuoto di potere di cui potrebbero approfittare i nemici dell’America. A meno che Biden non si limitasse a ritirarsi dalla corsa, ma si dimettesse anche dalla presidenza, lanciando però la sua vice Kamala Harris, che almeno mezzo partito non vuole.

Le ipotesi Newsom/Harris

Il nome che molti evocano è quello di Gavin Newsom, il fotogenico e mascellare governatore della progressista California.

Le voci secondo cui avrebbe potuto sostituire il presidente in caso di peggioramento delle sue condizioni e di ritiro si rincorrono da almeno un anno. Interrogato sul dibattito, ha risposto stizzito: “Non volti le spalle a causa di una performance. Che razza di partito sarebbe?” Parlando con i giornalisti nella “spin room” post-dibattito, Newsom ha sostenuto che il suo partito “non potrebbe essere più unito dietro Biden” e che il presidente non dovrebbe farsi da parte.

Ma la narrazione era già cambiata. Il mondo Dem, partito e media, è entrato in modalità panico e ormai come abbiamo visto discute apertamente la sostituzione di Biden. In queste ore vengono ripassate le regole del partito, che pare non lo permettano senza il consenso del candidato. Ma come dicevamo, cambiare cavallo in corsa a quattro mesi dal voto (anche meno perché in alcuni stati si inizia a votare settimane prima) è molto complicato. Non esiste un percorso spianato per la sostituzione, anche se il partito fosse unito su un nome alternativo. E difficilmente potrebbe esserlo.

Come detto, Kamala Harris è impopolare almeno quanto Biden. E mettere da parte una vicepresidente donna, afroamericana e asiatica, per un uomo bianco, privilegiato e dello stesso stato come Newsom non è una passeggiata in un partito ormai intriso di ideologia woke. Né trascurabile la rivalità tra i due che rischierebbe di trasformare la convention in un tutti contro tutti. Insomma, i Democratici dovrebbero trovare un modo per sbarazzarsi di Biden come candidato, ma tenerlo come presidente e impedire che a sostituirlo sia la vicepresidente Harris. Piuttosto complicato.

Il soccorso di Obama

Torniamo quindi a Michelle Obama, che però finora si è negata snobbando la politica di partito. E ieri sera in soccorso della candidatura di Biden è arrivato il post dell’ex presidente Barack Obama: “Brutte serate di dibattito capitano. Ma queste elezioni rappresentano ancora una scelta tra qualcuno che ha combattuto per la gente comune per tutta la vita e qualcuno che si preoccupa solo di se stesso. Tra qualcuno che dice la verità (…) e qualcuno che mente apertamente a proprio vantaggio. La notte scorsa non ha cambiato la situazione, ed è per questo che la posta in gioco è così alta a novembre”.

Ma è certo che il dibattito di ieri rappresenta un game changer e a questo punto nulla si può escludere. Nemmeno il gesto di un “pazzo”.