Juliane Assange, il giornalismo e la libertà d’espressione
di LEONARDO FACCO
Del discorso di Juliane Assange, tenuto a Bruxelles due giorni fa, tra le moltissime verità esposte, mi ha colpito una frase su tutto, questa sotto.
Con la sua infinita arroganza, la parte malata del giornalismo (maggioranza assoluta) crede che, se la gente li odia, è perché qualcuno – come il sottoscritto ad esempio – li insulta (e ne prende le distanze professionalmente). Di conseguenza, riducono la loro analisi politica al piagnisteo per il pubblico in continuo calo o al fatto che se le masse di “utili idioti” non fanno quel che loro propagandano, allora la democrazia è in pericolo. Analizzano gli ascolti e meditano su come il “quarto potere” si stia sgretolando a tutta velocità, senza accorgersi che la loro mancanza di credibilità è alla base del loro crollo.
Per anni, durante le tribolate vicissitudini dell’Assange perseguitato, e la prigionia in Inghilterra, i sondaggisti ci dicevano che la categoria degli scribacchini era tra le più odiate dalla gente. Ma dall’alto della loro presunzione – per via delle prebende pubbliche incassate e dei finanziamenti dei loro padroni – i giornalisti han fatto finta di nulla, continuando a credere di essere l’élite unica del pensiero e della parola. Vergogna? Nessuna! Autocritica? Manco a parlarne!
Per parafrasare un loro mentore, Antonio Gramsci, “il giornalistucolo che sa un po’ di latino e di storia, che è riuscito a strappare uno straccetto di laurea al diplomificio italiano crederà di essere diverso e superiore anche al miglior operaio”.
Se la gente odia i lacchè della penna, non è perché Assange incarna il perseguitato lasciato nel dimenticatoio, ai margini delle cronache, dai suoi boriosi colleghi; piuttosto, è il contrario: chi conosce il valore della libertà d’espressione per davvero li disprezza perché conosce a menadito le ragioni per cui chi ha ancora una mente critica non li sopporta.
Tra le cause del diffuso astio c’è la consapevolezza del tradimento della libertà di opinare, criticare, pensarla in modo differente. È vero che la libertà di stampa è fondamentale per la libertà tout court, ma non è meno vero che quando la libertà di stampa viene venduta al potere politico e affaristico (il capitalismo degli stakeholder, ovvero il mercantilismo), fa precipitare la società nella disinformazione, nella manipolazione e nella sfiducia. Dando un prezzo alla loro libertà, i giornalisti hanno minato le fondamenta stesse della loro professione.
Il crimine di una parte molto importante del giornalismo mondiale è consistito nel rinnegare e violentare la propria innata indipendenza, nel vendersi al miglior offerente e, così facendo, nel tradire il buon senso e la loro missione. Non è possibile mercificare sé stessi e la propria dignità a un Mattarella, ad un partito, ad Israele, alla CIA, alla Russia, all’OMS, all’élite globale che ha messo in piedi la tragica farsa pandemica e rinnegare i principi basilari di ciò che è la libertà. Quale moralità può avere un individuo del genere? Quali lezioni può impartire?
Nel suo discorso Assange (le cui parole sono sicuramente sincere, in buona fede e persino ragionevoli, ma s’è forse dimenticato che il Digital Service Act lo hanno partorito quelli dell’Unione Euopea?) ha detto che il suo è stato un processo al giornalismo, nello specifico a quello d’inchiesta.
Pare che Mark Twain abbia affermato che “il giornalista è colui che sa distinguere il vero dal falso, ma pubblico il falso”. Il fondatore di Wikileaks – che si definisce “colpevole di giornalismo”, dovrebbe farne tesoro. Va bene difendere un lavoro nato nobile, ma vanno messi “i puntini sulle i” a proposito della categoria che oggi professa quell’attività.
Se i giornalisti sono una camarilla detestata è per quello che hanno detto e fatto per moltissimi anni, nella più assoluta impunità. Ergo, “chi è causa del suo mal pianga sé stesso”, recita un antico proverbio.
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