Per quanto suoni orribile dirlo, alla luce delle stragi e dei massacri a cui stiamo assistendo ormai da un anno (il 7 ottobre, giorno in cui nel 2023 Hamas uccise 1.200 israeliani, quasi tutti civili, e prese 250 ostaggi è ormai prossimo), Benjamin Netanyahu detto Bibi, il primo leader israeliano a essere nato in Israele, il premier che già il 20 luglio 2019 ha battuto il record di 13 anni e 127 giorni di permanenza nella carica fino ad allora detenuto da David Ben Gurion (4876 giorni) sta vincendo la sua battaglia. L’8 ottobre, dopo le stragi dei terroristi palestinesi e il colossale fallimento dell’apparato di difesa e di intelligence del suo Governo, Netanyahu era un politico finito, aggrappato all’idea della vendetta contro Hamas come l’unico modo per conservare il potere. Le marce del sabato per chiedere un cessate il fuoco, il ritorno a casa degli ostaggi e le sue dimissioni riempivano le strade di Tel Aviv. Oggi, al contrario, può atteggiarsi a condottiero, a difensore di Israele contro tutto e contro tutti: i palestinesi, gli Houthi dello Yemen, l’Hezbollah libanese e anche (ma in un certo senso soprattutto) quella parte crescente dell’opinione pubblica mondiale che non accetta i suoi massacri indiscriminati. E che, a differenza di molte cancellerie occidentali, non ritiene che “il diritto a difendersi” equivalga per Israele, e solo per esso, al diritto a fare ciò che vuole: anche sterminare 42 mila civili palestinesi dicendo di andare a caccia di terroristi.
Di tutto questo però a Netanyahu importa poco (d’altra parte l’Onu non è che una “palude antisemita”, no?) e i fatti gli stanno dando ragione. Gli Stati Uniti sono la sua grande riserva di consenso e di bombe, e appresso a Washington vengono quasi tutti gli altri Paesi. E all’interno di Israele, il cambiamento nei suoi confronti è stato netto. I sondaggi delle ultime settimane danno il partito di Netanyahu, il Likud, in costante crescita. Un sondaggio di N12 News ha registrato un 43% di consensi sulla condotta della guerra da parte di Netanyahu, rispetto al 35% di dieci giorni prima. E, fatto ancor più importante, la compagine di Governo guidata da Netanyahu ha messo all’incasso il rientro dell’ex oppositore Gideon Saar (del partito Nuova Speranza), portando così la propria maggioranza in Parlamento alla rassicurante quota di 68 seggi sui 120 totali.
Il riorientamento dell’opinione pubblica israeliana, dalle proteste contro il Governo ai balli e brindisi per strada, è stato determinato da due fattori. Il primo è stata l’uccisione di Ismail Haniyeh, leader politico di Hamas, nel cuore di Teheran, dov’era arrivato per presenziare all’insediamento del nuovo presidente iraniano Masoud Pezeshkian. La concretissima dimostrazione di quanto Netanyahu ama ripetere: possiamo colpire dove vogliamo. Tanto più importante perché applicata all’arcinemico Iran.
Ma ancor più pesante, a favore di Netanyahu, è stata la battaglia ingaggiata contro Hezbollah e l’eliminazione dei suoi leader, fino a quello supremo, Hassan Nasrallah. La strage dei palestinesi di Gaza, accompagnata dall’esito non esaltante della campagna di occupazione militare via terra, ha comunque lasciato nella società israeliana delle sacche (magari sempre più ridotte) di opposizione. Ma l’attacco a Hezbollah, percepito come una propaggine armata dell’Iran e temuto per la sua potenza militare e finanziaria, desta ben poche perplessità. Anche perché, a differenza di quanto avvenuto nella Striscia di Gaza, è stato finora accompagnato da operazioni relativamente più mirate e accompagnate da un chiaro successo, di cui la morte di Nasrallah (dopo l’eliminazione degli altri dirigenti, i bombardamenti sulle strutture militari del movimento e l’operazione dei cercapersone esplosivi) è stata solo il momento culminante.
Naturalmente tutto questo ha un prezzo, non solo militare. Gli ostaggi israeliani ancora prigionieri a Gaza, un centinaio, sono stati di fatto abbandonati. Ammesso che siano ancora vivi, dopo tutto quello che è successo a Gaza e altrove. È questa peraltro la conclusione a cui è giunta l’associazione delle famiglie degli ostaggi e non da oggi, ma dal momento in cui il partito di Gideon Saar è andato a blindare la maggioranza di Netanyahu.
E poi bisognerà verificare se la vittoria di Netanyahu davvero equivale a una vittoria di Israele. Gli israeliani, in questo momento, sembrano esserne convinti. E a confortarli indubbiamente concorre il quadro internazionale: i palestinesi sono stati abbandonati al loro destino da quasi tutti, l’Iran è sempre più isolato in Medio Oriente ed è difficile immaginare che i colpi inferti a Hezbollah in Libano non siano stati in qualche modo coadiuvati da Paesi come Giordania e Arabia Saudita, che con i palestinesi e gli sciiti libanesi hanno vecchi conti da regolare. Ma creare il caos intorno per rafforzarsi all’interno è una strategia che può portare beneficio nel tempo? Lo vedremo. Perché una sola cosa pare certa: questa storia non finisce qui.
Fulvio Scaglione
Nessun commento:
Posta un commento