La crisi energetica e produttiva che ha colpito l’Unione Europea, per via della decisione di rinunziare alle forniture di gas russo, non ha investito uniformemente tutto il vecchio continente. Esiste una nazione, che della UE non ha mai fatto parte, che sta maturando importanti profitti da circa due anni, fornendo all’Unione circa il 30 per cento del suo fabbisogno di oro blu.
Stiamo parlando della Norvegia, Paese che ha significativamente aumentato le licenze di esplorazione concesse a decine di società energetiche nazionali e non, che riguardano il Mare del Nord, quello di Barents e di Norvegia, ma che soprattutto ha notevolmente rafforzato le proprie posizioni sui mercati internazionali, registrando aumenti di produzione di gas e petrolio, previsti in ulteriore crescita nel 2024.
Giusto per fornire qualche cifra, nel corso del 2022, l’anno dello scoppio del conflitto in Ucraina, la Norvegia ha registrato i primi e importanti aumenti nelle entrate collegate a petrolio e gas. Si stima che gli introiti dall’inizio della guerra, riferiti al comparto degli idrocarburi, ammonterebbero a circa 100 miliardi di dollari, vale a dire quattro volte gli incassi del periodo precedente. Non a caso il Paese si mostrò da subito scettico sulla prospettiva del tetto al prezzo del gas, chi rinunzierebbe a simili prospettive di guadagno?
Non è solo in questi ultimi anni che gli idrocarburi hanno acquistato tanta importanza per la nazione scandinava. A partire dalla fine degli anni Sessanta, il comparto rappresenta la maggiore fonte di entrate per l’economia norvegese, oltre che la voce più importante dell’export, affidato alla gestione della società Equinor, una partecipata posseduta per due terzi dallo Stato. Inoltre, la Norvegia dispone di un’importante rete di gasdotti, lunga quasi novemila chilometri, che la collegano direttamente al suo partner più importante: la Germania. L’esplosione del North Stream, la struttura che collegava direttamente quest’ultima nazione alla Russia, avvenuta a settembre del 2022, ha favorito il legame con la Norvegia. L’incidente, circa il quale stanno emergendo verità molto diverse da quelle narrate dal cosiddetto mainstream nei primi tempi, getta una luce fosca sull’accaduto; e non dimentichiamo che in alcune versioni l’apporto della Norvegia non viene escluso.
Nessuno può discutere che grazie all’esplosione del North Stream, la Norvegia sia divenuta, assieme a Qatar e Stati Uniti, il principale fornitore del Vecchio Continente. E come tutti sanno è proprio dagli USA che arriva il ben più inquinante e costoso gas liquefatto. Per parte sua, la Norvegia si è garantita un ruolo di primo piano nelle forniture destinate alla (quasi ex) locomotiva d’Europa, e un accordo siglato a dicembre scorso tra le compagnie energetiche dei due Paesi non solo prevede forniture a lungo termine, ma contempla anche un’opzione sull’idrogeno fino al 2060.
Se da un lato si parla tanto di riduzione del ricorso ai combustibili fossili, contenimento delle emissioni nocive e incentivazioni a green e fonti rinnovabili, per lo meno nell’immediato il Vecchio Continente in generale, e la Norvegia in particolare, sembrano prendere un’altra direzione. Il Paese scandinavo non soltanto, come dicevamo, sta aumentando i volumi di produzione, ma ha varato diverse misure per favorire gli investimenti nel settore degli idrocarburi, ricorrendo a una serie di incentivi per gli attori operanti nel settore, anche concernenti i cosiddetti giacimenti off-shore. Allo stesso tempo, si punta sulle terre rare, delle quali esisterebbero promettenti giacimenti al largo delle isole Svalbard.
La Norvegia non ha affatto abbandonato la transizione energetica. Il Paese ha già conseguito un importante primato a livello continentale, quello del numero delle auto elettriche, che hanno superato quelle tradizionali: basterà ricordare che già nel 2022 l’80% dei veicoli venduti nel Paese aveva un motore elettrico. Ma i proventi di petrolio e gas naturale, specie con le prospettive aperte dal conflitto, sono troppo importanti per le finanze norvegesi per essere tralasciati.
Inoltre, i prezzi dell’oro blu hanno registrato agli inizi dell’estate scorsa dei nuovi picchi, salendo di circa il 13 per cento rispetto alla fine del 2023. Alle origini degli incrementi la temporanea (e imprevista) interruzione dell’impianto di Nyhamna, in Norvegia, che copre buona parte dei fabbisogni energetici del Regno Unito. Un evento che non solo ha messo in evidenza l’importanza delle forniture di Oslo e i possibili danni derivanti dall’interruzione dei flussi, ma soprattutto dimostra come il minimo incidente possa avere delle ripercussioni immediate. Più o meno lo stesso era avvenuto in conseguenza di un altro guasto, quello che aveva interessato un tratto del gasdotto nei pressi del giacimento Sleipner, nel mare del Nord, situato tra la Norvegia e il Regno Unito.
Come riporta il Financial Times, per il prossimo inverno l’obiettivo della Commissione europeo sarebbe quello di riempire al 90% i siti di stoccaggio del gas entro il mese di novembre, il tutto però a condizione che non si interrompano del tutto le forniture russe, che continuano a garantire – a dispetto delle volontà politiche espresse a Bruxelles – una fetta importante del fabbisogno energetico della UE (specie di Austria e Ungheria), pure grazie al ruolo di hub assolto dalla Turchia di Erdogan. Problematiche cui ora si potrebbe aggiungere l’eventuale interruzione del transito del GNL russo sul territorio ucraino.
In definitiva, qualunque cosa si pensi delle sanzioni contro Mosca e della decisione politica di affrancare il vecchio continente dalle forniture russe, ci sono alcuni punti fermi che è difficile ignorare. In primis, il costo molto inferiore del gas russo, che oltretutto continua ad affluire nel vecchio continente grazie anche a fenomeni di triangolazione; la sostituzione con altri fornitori ha semplicemente determinato una nuova dipendenza dell’Europa da altri Stati, oltretutto assestando un colpo mortale alla competitività del sistema economico continentale, oltre che ai bilanci delle famiglie, alle prese con bollette sempre più care e con una spirale inflattiva che pare inarrestabile.
Se a tutto questo aggiungiamo che, come evidenziano alcuni degli esempi prima riportati, è sufficiente un piccolo incidente per sospendere le forniture e/o far schizzare verso l’alto i costi dell’energia, le criticità non possono essere ignorate.
Quanto alla maggiore affidabilità politica dei nuovi fornitori rispetto a quello russo, a parte il fatto che non ci risulta che Mosca abbia mai violato gli accordi in essere, si potrebbe replicare che il carattere presuntamente più “politicamente corretto” del fornitore prescelto (e sul Qatar ci sarebbe molto da dire…) non necessariamente si sposa con la tenuta economica e produttiva della vecchia Europa: la crisi dell’industria automobilistica tedesca rappresenta una spia importante di tutto quel che non sta funzionando.
Si dice che nei prossimi anni l’apporto norvegese si ridurrà, in favore di Stati Uniti e Qatar, ma questo non sembra incidere più di tanto sulle criticità evidenziate, senza voler dire che non sarebbero le prime previsioni a non rivelarsi, nel lungo periodo, del tutto corrette (e stiamo usando un eufemismo).
La stessa transizione green, che fino a pochi mesi fa sembrava la soluzione per tutti i mali, sembra andare incontro a una fase di stasi. Norvegia a parte, ovunque si assiste al crollo delle vendite dei veicoli elettrici, persino in Germania, probabilmente perché con la fine degli incentivi ben pochi se le possono permettere.
In ultima analisi, se la Norvegia per ora ci guadagna,
il vero malato è il resto dell’Europa. Non possiamo che auspicare che
arrivi presto una cura, e magari una revisione della terapia, prima che
la patologia divenga irreversibile.
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