La seconda metà di settembre è stata caratterizzata dall’avvio dell’all-in militare e strategico di Israele, che su iniziativa del primo ministro Benjamin Netanyahu ha alzato la posta dello scontro con i rivali regionali. Israele ha in queste settimane concentrato le sue iniziative militari sul Libano infliggendo duri colpi a Hezbollah in un’offensiva che ha raggiunto l’apice con l’eliminazione del segretario generale Hassan Nasrallah; a Gaza, intanto, proseguono con forza i raid e sembra essersi esaurita la prospettiva negoziale della mediazione Israele-Hamas; nel frattempo, negli ultimi giorni, sono stati attuati raid contro la Siria, dove è stata colpita l’abitazione di Maher al-Assad, fratello del presidente Bashar, e lo Yemen, con il raid contro i terminal portuali di Hodeida usati dagli Houthi come piattaforma di lancio delle loro operazioni nel Mar Rosso.
“Possiamo colpire ovunque”, ha dichiarato Netanyahu, che dopo il discorso incendiario alle Nazioni Unite si è rivolto principalmente al rivale strategico numero uno, l’Iran. “Nessun luogo è troppo lontano”, gli fa eco Yoav Gallant, ministro della Difesa. Il Likud, il partito del premier, sale nei sondaggi e torna primo; in coalizione nell’esecutivo di estrema destra è entrato Gideon Sa’ar, capo del partito Nuova Speranza. I cui quattro deputati, nota il Times of Israel, “portano l’attuale coalizione di Netanyahu da 64 a 68 nella Knesset. Stabilizzano il blocco al potere, rendendolo meno vulnerabile alle minacce del teppista ministeriale di estrema destra Itamar Ben Gvir” e allontanando la prospettiva di nuove elezioni.
Netanyahu con la mossa sui fronti vicini a tutto campo ha ottenuto una vittoria personale, rilanciando l’idea della fortezza assediata. Quella fortezza che proprio la negligenza degli estremisti di destra israeliani aveva reso porosa agli attacchi di Hamas il 7 ottobre scorso e oggi è presentata come la roccaforte da cui muoversi per regolare vecchi conti e colpire i propri nemici. Netanyahu è pressato dall’ultradestra che non vuole concessioni e ha preso la palla al balzo, anche prima dell’arruolamento di Sa’ar, come ricorda il Times of Israel: parlando domenica sera Bibi ha ricordato che ” i nemici e gli amici di Israele stavano vedendo il prezzo che Israele esige da coloro che lo danneggiano e stanno di nuovo riconoscendo la forza di Israele”. Ma è davvero così? Ci sono dubbi a riguardo.
La realtà è che la condotta offensiva di Israele riflette pulsioni e priorità in un senso più tattico che strategico. Lo Stato Ebraico esercita pressioni su più fronti mostrando una indubbia capacità operativa con la superiorità in due aree: innanzitutto, l’aviazione e la sua dottrina d’impiego, con gli F-15 e gli F-35 di Tel Aviv che hanno compiuto più missioni di successo colpendo dallo Yemen al Libano; in secondo luogo, col riscatto dell’intelligence nella costruzione di scenari attendibili per isolare e colpire i nemici.
Ma al contempo questo lascia intravedere almeno due vulnerabilità. Innanzitutto, la vulnerabilità di un esercito di terra storicamente fiore all’occhiello del Paese e oggi in parte bloccato nella sua capacità di proiezione a Gaza. Il fatto che Israele tenga in questa fase il freno tirato all’esercito mostra come Tsahal abbia ancora diverse carenze operative, che del resto un anno di guerra non risolutiva nella Striscia ha già palesato. Al contempo, c’è da definire l’assenza di una strategia politica sottendente l’operatività di Israele. Il cui fine non si riesce a capire se siano la sicurezza dei suoi interessi o la conflittualità finalizzata a un principio di divide et impera tra i suoi rivali, da martellare per fiaccarne la solidità e la coesione. In entrambi i casi manca il presupposto secondo cui una guerra si potrebbe fare solo avendo in mente il concetto – migliorativo – di ordine post-pace che si ha in mente per l’indomani.
In quest’ottica, Netanyahu ordina alle forze armate di colpire i propri nemici, ma si opera un sostanziale processo di sovrapposizione tra l’interesse privato di Bibi, che vuole restare al potere per evitare processi e possibile incarcerazione, e quello securitario di Israele. Con il rischio contraddittorio insito in questo processo, ove alla luce dei colpi inflitti ai rivali Israele proprio ora avrebbe l’interesse di trattare in condizioni di forza, aprire alla definizione di linee rosse chiare, assestare la deterrenza e evitare danni d’immagine ulteriori dopo il disastro a Gaza per l’ecatombe di civili. Mentre oggigiorno Netanyahu spinge per più conflittualità, per una guerra senza limiti temporali e geografici contro una serie di nemici e per una confrontazione muscolare con un rivale, l’Iran, con cui la sproporzione militare e geopolitica è palese e la cui minaccia è stata ridimensionata anche dalle agenzie d’intelligence Usa. Non si intravede possibilità di costruire una strategia coerente. E su questo Israele può andare in cortocircuito mano a mano che la tensione salirà.