Dopo Kursk
di Enrico Tomaselli - 30/08/2024
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Fonte: Giubbe rosse
Capita, a volte, che un errore operativo si trasformi in
disastro strategico. Una mossa sbagliata che, imprevedibilmente, porta
ad un susseguirsi di eventi che cambiano il quadro strategico. La
guerra, non si ripeterà mai abbastanza, è molto più imprevedibile di
quanto si pensi.
Si è già detto dell'incursione ucraina in territorio
russo, nell'oblast di Kursk. Alcune cose al riguardo rimangono oscure,
occultate nella nebbia di guerra e dalla cortina fumogena della
propaganda, ma alcuni elementi sono abbastanza evidenti, tanto da
poterli considerare certi.
Il primo elemento, davvero indiscutibile, è
che tutto è avvenuto nell'ambito della conduzione della guerra da parte
della NATO. Il livello di integrazione dell'AFU all'interno
dell'Alleanza Atlantica - in posizione assolutamente subordinata - è
assai profondo, e qualsiasi iniziativa sul fronte, che non sia meramente
tattica ed a livello di singola unità, è praticamente impossibile che
venga assunta al di fuori del controllo NATO. Altrettanto indiscutibile è
che questa operazione è stata pianificata e preparata non certo in
pochi giorni o settimane; l'individuazione del settore di penetrazione,
l'addestramento specifico delle truppe, l'organizzazione del gruppo
operativo di brigate per eseguirla, l'approntamento della logistica…
Tutto porta a ritenere che i comandi NATO vi abbiano lavorato quantomeno
un paio di mesi.
A ben vedere, quindi, la mia prima impressione -
ovvero che lo scopo politico dell'incursione fosse sabotare le aperture
ucraine ad una possibile trattativa - non soltanto va rivista, ma
addirittura rovesciata. In questo senso, la visita di Kuleba a Pechino a
fine luglio andrebbe interpretata come dissimulatrice delle vere
intenzioni.
Altro elemento significativo, una più marcata presenza
NATO anche sul terreno, sia attraverso l'impiego di tutti i sistemi
d'arma occidentali ancora disponibili, sia per la cospicua presenza di
mercenari occidentali. Questa duplice accentuazione dell'impegno NATO -
ad un livello più significativo, e soprattutto in funzione offensiva sul
territorio russo - costituisce sicuramente un importante upgrade, che
proprio in quanto tale richiedeva al contempo che venisse almeno
apparentemente smorzato. Il che spiegherebbe come mai, in assoluta
controtendenza, sia le fonti militari che i media occidentali hanno da
subito criticato l'operazione, quasi a sottolineare la propria
estraneità.
In ogni caso, i possibili obiettivi militari potrebbero
essere soltanto due: o attirare su quel settore parte delle forze russe
schierate in Donbass, fermandone la spinta offensiva in quegli oblast,
oppure - più genericamente - far convergere l'attenzione di Mosca sulla
parte settentrionale della linea di combattimento, in vista di un'altra
operazione all'estremo opposto. L'ipotesi che l'obiettivo fosse davvero
la centrale nucleare di Kursk sembra poco convincente, perché sia la
tattica adottata che l'entità delle forze impiegate lo escluderebbero.
Se,
dunque, l'ipotetico risultato che si sperava di conseguire fosse il
distogliere forze dal Donbass, l'obiettivo è clamorosamente fallito. Al
contrario, portare unità ben addestrate e ben armate in un settore
diverso da quello più a rischio, ha prodotto come risultato un rapido
peggioramento della situazione - per di più a costo di perdite
significative, e sostanzialmente ingiustificate. Resta ovviamente aperta
la seconda ipotesi, ovvero una seconda incursione in direzione della
centrale nucleare di Enerdogar, nell'oblast di Zaporizhye, dove
sembrerebbe che effettivamente si stiano concentrando alcune unità
ucraine.
Comunque sia, questa operazione appare nella migliore delle
ipotesi come mal calcolata; nella peggiore, come strategicamente
pericolosa.
Da un lato, infatti, l'aver indebolito il fronte del
Donbass, invece che rafforzarlo, sta consentendo alle forze armate russe
di avanzare ancora più rapidamente nel Donetsk, avvicinandosi
pericolosamente a Pokrovsk, la cittadina che fa da perno dell'ultima
linea di difesa vagamente strutturata delle forze ucraine. Oltre, c'è
praticamente il nulla sino al Dniepr. Con questo ritmo, l'esercito di
Mosca potrebbe prenderla nel giro di due/tre settimane. Ed a quel punto
il rischio di una penetrazione in profondità, che punti a tagliare le
linee logistiche a nord di Kherson e Odessa, potrebbe diventare una
minaccia concreta.
Ma, ragionando in termini strategici, la questione è assai più ampia.
Ogni
giorno che passa, l'esercito ucraino perde migliaia di uomini. In
termini numerici, e sul breve-medio periodo, non è ancora un problema
drammatico, perché sicuramente c'è ancora un bacino di possibili
coscritti, sia abbassando un po' l'età di leva sia arruolando le donne.
Per quanto i riflessi sull'economia, e sul funzionamento dell'apparato
pubblico, si farebbero sentire, teoricamente Kiev potrebbe anche
arrivare a mobilitare altri 4-500.000 militari. Ma la questione
veramente drammatica non è quantitativa, ma qualitativa. Innanzitutto,
dovrebbero essere addestrati ed equipaggiati, e ormai la dotazione di
carri, corazzati ed artiglieria dell'AFU, comincia a scarseggiare
significativamente. Ma ancor più rilevante è che questi nuovi arruolati
sarebbero del tutto privi di esperienza di combattimento, mentre la
scarsità di ufficiali e sottufficiali (fondamentale per garantire
l'operatività dei reparti) si farà sentire in modo crescente.
A
questa tipologia di problemi, sfortunatamente, non c'è che una
soluzione, se si vuole evitare il collasso: aumentare il coinvolgimento
sul terreno di personale militare occidentale, ed estendere la capacità
dell'AFU di colpire in profondità nel territorio russo. E questo
significa che i militari della NATO, sotto varie forme, saranno sempre
più presenti sul terreno. Ormai si discute apertamente di inviare
istruttori direttamente in Ucraina, ma di sicuro sarà necessario inviare
consiglieri, cioè quadri intermedi ben addestrati, probabilmente sotto
la copertura del mercenariato, e probabilmente creare unità miste con
uomini provenienti dalle forze speciali. Così come significa dare via
libera all'uso di armi occidentali a lunga gittata per colpire oltre
confine.
Il disegno attuale della NATO, almeno fintanto che alla Casa
Bianca ci sono i democratici, probabilmente punta ad aumentare la
capacità di resistenza delle forze armate ucraine, rimpinguandole con
personale esperto, ed al tempo stesso a spingere Mosca verso qualche
forma di trattativa. Altrettanto probabile che il calcolo, anche delle
leadership europee, sia quello di predisporre in tal senso le cose, in
modo tale che - qualora a gennaio sia Trump ad insediarsi - saranno
soprattutto i paesi europei a farsi carico di questo sostegno.
Quanto
ciò sia fattibile è, ovviamente, tutta un'altra faccenda. Ci sono
innanzitutto le variabili imprevedibili (come reagirebbe Mosca? quanto
funzionerebbe sul terreno un'iniezione di militari NATO? cosa farebbe
Trump?), ma ci sono soprattutto quelle fin troppo prevedibili. E tanto
per cominciare la difficoltà (già oggi, in effetti) di fornire in misura
adeguata gli armamenti essenziali - appunto carri, corazzati ed
artiglieria. Oltre ovviamente al munizionamento. Il rischio concreto è
di mettere in piedi qualcosa che non è né carne né pesce; creare magari
una ventina di nuove brigate, di cui solo poche veramente dotate di
buona capacità al combattimento, utilizzandole - come fatto sinora - in
modo del tutto incoerente. Insomma, procedere verso l'ennesimo consumo
di uomini e mezzi, senza conseguire risultati strategici.
In effetti,
l'unica cosa sensata che avrebbero dovuto fare le forze armate ucraine
in questi due anni e mezzo, era predisporre forti linee difensive lungo
tutto il fronte, su diverse profondità, e poi attenersi ad una tattica
in difesa (quello che hanno fatto i russi la scorsa estate). Ma a fare
le scelte strategiche è stata la NATO, è stata la NATO ad indicare gli
obiettivi operativi, e quasi sempre anche a decidere le modalità
tattiche.
Improbabile, quindi, che ora d'improvviso rinsavisca, e cominci a fare la cosa giusta.
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