Verso la grande guerra globale?
di Enrico Tomaselli - 02/08/2024
https://www.ariannaeditrice.it/articoli/verso-la-grande-guerra-globale
Fonte: Giubbe rosse
In modo forse inevitabile, e forse non del tutto previsto,
sembra che le cose stiano precipitando, assumendo un moto sempre più
accelerato; tutto sembra indicare che la Grande Guerra Globale in atto, e
che oppone l’occidente collettivo ad un asse di paesi che ne mettono in
discussione l’egemonia, stia sempre più scivolando dall’attuale fase
ibrida verso una fase calda, di guerre guerreggiate che si estenderanno a
macchia di leopardo, sino a rischiare di riunirsi in un unico scontro
totale.
A determinare questo mutamento del quadro stanno intervenendo svariati fattori, alcuni dei quali assai significativi.
Quello
forse meno evidente, eppure più inquietante, è la situazione interna
agli Stati Uniti. Tra il tentativo fallito di assassinare il più quotato
candidato presidenziale (con il palese placet dei servizi segreti), ed
il vero e proprio golpe bianco che ha costretto Biden a rinunciare alla
corsa per la rielezione – e, di fatto, alla Presidenza in corso – è
chiaro che gli USA si presentano agli occhi del mondo come una potenza
che, al culmine di una crisi di portata epocale, invece di reagire
serrando i ranghi si divide in maniera drammatica. Il risultato è che i
prossimi sei-sette mesi saranno ancora teatro di uno scontro di potere
senza esclusione di colpi, con le diverse anime dell’establishment e del
deep state ormai giunte ad una resa dei conti. Ciò per un verso crea un
enorme vuoto di potere, sia interno (chi comanda davvero, oggi, a
Washington?) che internazionale, e per un altro rende gli Stati Uniti
un’anatra zoppa, incapace di offrire una sponda, o anche solo una
interlocuzione affidabile, ad amici e nemici. E, per dirla con Gramsci,
“in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.
Di
questa crisi del potere egemonico statunitense, i cui esiti sono
imprevedibili, e comunque non strettamente riassumibili nell’esito delle
presidenziali, si possono vedere numerosi segnali: dal crescere dei
movimenti secessionisti in vari stati dell’Unione, al disorientamento
(se non al vero e proprio panico) degli alleati europei, sino
all’evidente apertura di Zelensky (sino a ieri un burattino nelle mani
della Casa Bianca) ad una trattativa con la Russia, nonché alla ricerca
di una sponda a Pechino.
La straordinaria crescita del prestigio
cinese fa appunto da contraltare al caotico impasse statunitense. Prima
lo storico accordo tra Iran ed Arabia Saudita, che ha fatto da ouverture
ad una serie di clamorosi cambiamenti nello scacchiere mediorientale,
ponendo fine alla guerra tra sauditi e yemeniti, aprendo la strada
all’ingresso di Ryad nei BRICS+, nonché all’avvio di un processo di
dedollarizzazione del mercato petrolifero. Poi il rientro della Siria
nella Lega Araba, la normalizzazione dei rapporti tra Damasco e Ankara,
l’appeasement tra le varie organizzazioni palestinesi (sostanzialmente
tra Fatah e Hamas)…
Il viaggio di Kuleba a Pechino (e, nel suo
piccolo, quello della Meloni) indicano se non una vera e propria
inversione di tendenza, certamente una fase di disorientamento nel campo
occidentale, dove alcuni cominciano a guardare alla Cina come alla
potenza emergente quale è, ed a farci i conti.
Cina che, peraltro, si
muove a 360°. Non solo, appunto, con una straordinaria capacità
diplomatica – il cui appeal sul resto del mondo non è affatto
indifferente – né con la sua consueta diplomazia dello yuan (ovunque
arrivino, i cinesi portano finanziamenti senza chiedere condizioni
politiche capestro). Da tempo, Pechino ha capito come sia necessario
dotarsi di uno strumento militare adeguato non soltanto al suo ruolo di
grande potenza, ma anche alla crescente minaccia americana.
La marina
cinese, i cui ritmi di crescita sono ineguagliabili dall’occidente,
grazie ad una straordinaria cantieristica, non solo è già la più
numerosa del mondo, e complessivamente dotata del naviglio più moderno,
ma opera congiuntamente sempre più spesso con la marina russa e quella
iraniana, estendendo la portata del proprio raggio d’azione. Persino nel
settore aeronautico, tradizionalmente considerato di sicura supremazia
NATO, le cose stanno cambiando velocemente. Secondo David Axe, che ne
scrive sul Telegraph [1], i caccia di quinta generazione vedono già
Russia e Cina avanti agli USA, il cui unico velivolo di questa classe,
l’F-35, è notoriamente pieno di problemi, soprattutto nell’elettronica
di bordo e nei software. Secondo Axe, anche se i progetti di caccia di
sesta generazione (NGAD o Tempest) dovessero avere successo, la NATO non
sarebbe in grado di stare a livello di Mosca e Pechino, per almeno un
decennio.
La straordinaria capacità della Russia di resistere
all’attacco occidentale, ed anzi di ritorcerlo contro, è un altro dei
fattori che stanno scuotendo gli equilibri nel campo della NATO. Non si
tratta soltanto della pressione sul terreno, nel conflitto ucraino, che
può persino apparire limitata; è piuttosto una questione più generale.
Innanzitutto,
i due obiettivi politici occidentali – isolamento internazionale di
Mosca, collasso della sua leadership politica – sono clamorosamente
venuti meno. Da quando è iniziata l’Operazione Speciale Militare, al
contrario, la Russia ha visto costantemente crescere i suoi rapporti col
resto del mondo, dalle sue tradizionali aree d’influenza all’Asia,
all’Africa, all’America Latina. Per non parlare del fatto che, mentre i
leader occidentali cadono uno dopo l’altro come birilli, Putin e la sua
squadra sono saldamente al potere, e ne esce anzi rafforzato.
Non
solo l’economia russa ha retto perfettamente alle sanzioni, ad alla
sostanziale perdita dell’interscambio con l’Europa, ma ha saputo
riorientarsi con successo non solo verso i mercati asiatici, ma anche
verso una straordinaria produzione bellica. Gli indicatori economici
dicono che, mentre i paesi europei si stanno lentamente avvitando in una
crisi di lunghissimo periodo, in Russia crescono significativamente i
consumi e cala la disoccupazione – tutti elementi che solidificano ancor
più il consenso verso l’attuale leadership.
Questa triplice capacità
russa – ottime relazioni internazionali, resilienza economica,
crescente potenziale bellico – non solo pone questioni strategiche di
primo piano all’egemone statunitense, ma rappresenta una sfida assai
complessa per i paesi europei della NATO, che oltretutto vedono
profilarsi un disimpegno del tradizionale alleato atlantico. Di là dalla
annunciata intenzione di schierare nuovi missili in Europa dal 2026
(rispetto alla quale non c’è ovviamente alcuna certezza), è evidente che
gli USA si apprestano a chiudere il proprio ombrello protettivo: d’ora
in avanti, gli europei dovranno imparare a fare sostanzialmente da soli.
I
singoli paesi, e l’Unione Europea nel suo complesso, saranno sottoposti
ad uno stress test significativo, con elevata probabilità che ciò si
traduca in un progressivo sgretolamento dell’intero impianto. Difficile
dire se e quanto questo possa tradursi in una inversione di rotta, nella
ripresa cioè di una necessaria autonomia politica europea. Quanto meno
nel breve-medio termine, appare improbabile che possa realizzarsi quanto
auspicato dal professor Sachs (“Il cambiamento non avverrà dagli Stati
Uniti. Il cambiamento deve avvenire dall’Europa”) [2].
Ma
naturalmente il fattore più accelerante viene dal Medio Oriente, dove
Israele sembra essere irrimediabilmente prigioniero di se stesso, della
sua storia e della sua storica postura, ma ad un tempo totalmente
sconnesso dalla realtà.
Il governo dello stato ebraico, infatti,
continua esasperatamente ad applicare una strategia (apparentemente)
folle – nel senso di non razionale – ma che invece non è soltanto
manifestazione di follia criminale, quanto – appunto – di perdita del
senso della realtà. Quella che Daniel Nammour e Sharmine Narwani
definiscono “strategia MAD” [3], e che gli israeliani hanno applicato
sin dall’inizio dell’attuazione del progetto sionista in Palestina,
consiste infatti – essenzialmente – in una forma esasperata di
deterrenza: convincere chiunque (amico o nemico che sia) che Israele
sopperisce alle sue debolezze oggettive (demografiche, economiche,
militari) mettendo in campo una capacità di reazione spropositata,
feroce, annichilente. Cioè che in pratica si comporterà come un folle,
superando qualsiasi prevedibile linea rossa (anzi, senza proprio porsene
alcuna). Il problema è che questo approccio funziona sinché
l’avversario si fa intimidire, ovvero fino a quando agisce la
deterrenza.
Ottant’anni di feroce oppressione e selvaggia
colonizzazione, però, hanno reso alla fine evidente che lo stato
ebraico, per quanto possa agire come un pazzo, ha comunque una
dipendenza assoluta dal supporto statunitense. La strategia della
follia, senza le bombe americane, non dura una settimana. Ma non solo,
questi ottanta anni non sono riusciti a spezzare la resistenza del
popolo palestinese, che infatti il 7 ottobre ha rialzato la testa, ha
mostrato di non temere più la follia ebraica, ed ha semplicemente
mandato in frantumi la deterrenza israeliana (su cui si fondava
praticamente tutto). In un certo senso, adesso Israele è nudo, e la
strategia della follia che doveva annichilire i nemici rischia di
risolversi nell’impazzimento della società israeliana.
Dalla sua,
Israele può oggi vantare ancora due atout. Il primo, risultato indiretto
dell’azione diplomatica cinese che ha rivoluzionato il panorama
geopolitico mediorientale, è che è rimasto l’unico alleato strategico
degli USA nella regione. Tradizionalmente, Washington ha sempre contato
su due alleati, proprio per un reciproco bilanciamento. A fianco di
israele c’era dapprima la Persia dello Shah, ma dopo la rivoluzione
khomeinista il suo posto fu preso dall’Arabia Saudita. Ora che il
principe Mohammed Bin Salman ha portato Ryad alquanto fuori dalla
stretta orbita americana, Tel Aviv è l’ultimo presidio strategico
rimasto. E questo ovviamente rafforza la posizione israeliana, rispetto
all’alleato d’oltreoceano. Inoltre, il summenzionato vuoto di potere a
Washington ne aumenta gli spazi di manovra.
Il secondo, è la
famigerata direttiva Sansone. Apoteosi della strategia MAD, prevede il
ricorso massiccio ed indiscriminato alle armi nucleari, da lanciare
contro tutti i paesi vicini, indistintamente. Si tratterebbe di una
sorta di deterrenza suprema, la minaccia di distruggere tutti, a partire
da sé stessi, pur di non darla vinta al nemico.
Ovviamente, è assai
difficile stabilire quanto questa ipotesi possa diventare
(astrattamente, e nello specifico della fase attuale) praticabile e
praticata. La sua credibilità si fonda sulla capacità di convincere il
nemico che la leadership israeliana sia davvero così pazza da
autoannientarsi, pur di trascinare con sé anche i filistei. Siamo quindi
nel campo della pura speculazione.
Di sicuro, Israele ha di fronte
un nemico che per un verso si sta dimostrando altamente capace di
calibrare le sue mosse, spingendo sempre più all’angolo lo stato
ebraico, ma dall’altro considera la possibilità del martirio come una
nobile prospettiva.
La situazione mediorientale, quindi, sembra
quella più pericolosamente prossima ad avvitarsi in una spirale
potenzialmente distruttiva; per una infinità di ragioni, infatti, lo
scacchiere mediorientale presenta caratteristiche espansive superiori
persino a quelle ucraine.
Sotto questo profilo, estremamente
significativo appare quanto scritto da Medvedev sul social X: “Il nodo
si sta stringendo in Medio Oriente. Mi dispiace per le vite innocenti
perdute. Sono solo ostaggi di uno stato disgustoso: gli USA. Nel
frattempo è chiaro a tutti che una guerra su vasta scala in Medio
Oriente è l’unica via per una fragile pace nella regione” (grassetto
mio) [4].
Per quanto l’uomo sia facile ad un linguaggio estremo, non
può non sfuggire il fatto che sia parte importante dell’establishment
russo, e che di sicuro non si spingerebbe così oltre nella sostanza, se
non fosse comunque all’interno dei confini della strategia russa. Ci
sono, nella frase finale del post, ben tre concetti chiave: vasta scala,
unica via e fragile pace. Ciò significa che probabilmente a Mosca
ritengono che una regionalizzazione del conflitto sia inevitabile, e che
porterà comunque ad un mutamento degli equilibri ma non alla pace.
Resta
da capire se l’unica via condurrà davvero ad una fragile pace
regionale, o se invece sarà la scintilla che farà divampare ovunque il
fuoco della guerra.
1 – “The free world has bet its survival on just one fighter jet”, Davi Axe, The Telegraph
2 – Cfr. intervista del Prof. Jeffrey Sachs a l’AntiDiplomatico
3 – “Israel isn’t crazy, it’s just MAD”, Daniel Nammour e Sharmine Narwani, The Cradle
4 – Cfr. @MedvedevRussiaE, X
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