Coreografie della decadenza
di Andrea Zhok - 29/07/2024
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Fonte: Andrea Zhok
Intorno alle scelte coreografiche della cerimonia
inaugurale delle Olimpiadi di Parigi si è già detto e scritto molto. E
tuttavia ho l’impressione che il tema non sia stato inquadrato in
maniera ben centrata.
L’argomento centrale che è stato sollevato dai
critici mette in particolare rilievo l’aspetto offensivo, lesivo dei
costumi morali e delle credenze religiose altrui. E non c’è dubbio che
qui vi siano stati elementi degni di contestazione. Questo non tanto per
la natura delle espressioni – pochi oggi si scioccano per provocazioni
grottesche come la drag queen barbuta che si affaticava in
divincolamenti vari per apparire sessualmente sfidante. Non la natura
delle manifestazioni, ma il CONTESTO in cui sono state proposte, ha un
carattere oggettivamente offensivo.
Trattandosi dell’inaugurazione di
una manifestazione sportiva mondiale, che abbraccia paesi di ogni
continente ed emisfero, di culture e sensibilità differenti, mettere in
scena qualcosa il cui unico senso possibile – nella più benevola delle
interpretazioni - era quello di una “provocazione culturale” era
intrinsecamente inappropriato. E sarebbe dovuto risultare fuori luogo a
chiunque, quali che fossero le proprie convinzioni, nel momento in cui
avesse preso sul serio la dignità di culture diverse dalla propria.
Anche ammettendo che quelle sceneggiate fossero “rappresentative della
propria cultura”, non si capisce esattamente a che titolo un paese
ospitante dell’evento olimpico debba sentirsi in diritto di impartire
“provocazioni” per “educare gli altri all’emancipazione” (ammettendo che
questa sia l’idea che abbia attraversato l’open space in cui risiede
comodamente il cervello degli organizzatori.)
Peraltro, – continuando
nella sforzo di un’interpretazione benevola - se l’idea fosse stata
quella di “indurre ripensamenti nei paesi meno emancipati attraverso
delle provocazioni”, francamente mi chiedo se qualcuno si sia posto il
problema della “ricezione del messaggio”. Se, per dire, si voleva
“stimolare un ripensamento” in qualcuno come la rappresentanza del Sudan
(dove mi risulta esistere una legislazione intollerante nei confronti
dell’omosessualità), esattamente chi è quel genio della comunicazione
che ha pensato che promuovere in mondovisione provocazioni postribolari,
tipo la simpatica drag queen barbuta, avrebbe fatto guadagnare punti
presso il pubblico sudanese ad un atteggiamento di normalizzazione delle
“disposizioni non ortodosse”? Non so, ma a me pare che l’unico
risultato ottenibile attraverso quella provocazioni, può essere stato
soltanto quello di consolidare nei paesi meno tolleranti le ragioni
degli intolleranti; sbaglierò, ma temo che il sudanese medio, dopo aver
visto le sceneggiate parigine sarà semmai un po’ più propenso di prima a
rigettare tutto ciò che odora di libertarismo occidentale.
Quindi,
sì, ci sono state buone ragioni per ritenere che quelle scelte
coreografiche siano state offensive: non solo offensive nei confronti di
credenze religiose altrui, ma più in generale offensive per
l’atteggiamento di mancanza di rispetto che trasuda in chi vuole farti
lezioncine morali a colpi di “provocazioni”.
E tuttavia non mi pare che sia questo il cuore problematico di ciò che abbiamo visto l’altro giorno a Parigi.
Nell’odierna
atmosfera “politicamente corretta” le regole del gioco tendono in
effetti ad incentivare l’atteggiamento di “offesa risentita”. È tutta
una gara a chi si sente più offeso, più ferito nella propria
sensibilità, e praticamente l’unico modo per legittimare un discorso
pubblico è oramai quello di presentarsi come vittima vulnerabile di un
attacco altrui.
È per questo motivo che si è spinto molto, sin dal
primo momento, il tasto dell’offensività ai credenti rappresentata dalla
“parodia dell’Ultima Cena”. Perché così si poteva giocare a carte
invertite il gioco del politicamente corretto: “Ecco, questa volta è la
mia sensibilità di credente ad essere toccata!”
Ma si tratta di una
difesa oramai molto fragile nel mondo occidentale. Dopo tutto chi crede
che la Chiesa odierna possa percepirsi davvero offesa da alcunché sul
piano rappresentativo? E in effetti il Vaticano ha borbottato una
protesta a mezza bocca, perché dopo tutto sa benissimo di avere oggi,
come “detentrice di un credo forte”, una credibilità bassina. Credenze
annacquate in una cornice di costumi annacquati e con una tradizione
sempre più incerta non possono recitare facilmente il ruolo della
Dignità Spirituale Offesa.
Dunque, in generale, io non batterei il
tasto sulla questione dell’Offesa alle Credenze Altrui, che pure visto
il contesto ci sono state. E non credo che sia il caso di giocare a
parti invertite lo stesso gioco del politicamente corretto, chiedendo
sanzioni, censure, e simili. A me va benissimo che un creativo di regime
sia libero di fare l’ennesima stanca parodia dell’Ultima Cena, purché
gli si possa con altrettanta libertà dire che è, tecnicamente, un
mentecatto.
A mio modesto e trascurabile avviso, ad essere
particolarmente preoccupante è un’altra cosa. Non il tema di chi ha più o
meno diritto a sentirsi offeso – per quanto la mancanza di rispetto
culturale sia stata evidente. Ciò che io trovo tragico è che una tale
grottesca rappresentazione sia stata escogitata, e poi anche difesa,
come una legittima autorappresentazione culturale dell’Occidente. Non
solo è parso ad un gruppo di persone, si presume colte,
dell’establishment culturale francese pensare che una tale pila di
spazzatura potesse essere un’operazione culturalmente commendevole, ma
moltissimi altri rappresentanti della cultura francese ed europea hanno
ritenuto che una cosa del genere fosse “una originale provocazione”, uno
“stimolo a pensare”, una “espressione di libertà”, una “sfida al
conservatorismo”, ecc. ecc.
Senza tante parole, basta mettere una
accanto all’altra la cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Pechino
2008 con la cerimonia di Parigi 2024 per vedere plasticamente il
contrasto tra una cultura in fase ascendente ed una in fase decadente.
Nella
prima spettacolarità, grazia, cura, coralità, precisione, originalità,
potenza si fondevano nell’autorappresentazione di una nazione che
percepisce di avere un futuro ricco di possibilità davanti a sé. Nella
seconda troviamo grottesche provocazioncelle da liceali e imprestiti
dalla cultura pop più commerciale, che segnalano una cultura enervata,
esaurita, che cerca di sollecitare artificialmente i propri nervi
stanchi e ammanta la propria impotenza creativa di “libertà dai
condizionamenti”.
Nelle ore in cui si svolgeva la cerimonia
d’apertura a Parigi mi trovavo ad Orvieto, a visitarne il meraviglioso
Duomo, costruito nell’arco di 3 secoli (1290-1591). Un progetto secolare
non è né nel mondo antico, né nel Medioevo un caso isolato. Molto del
nostro patrimonio architettonico storico è frutto di un lavoro secolare,
che coinvolgeva in un’unità d’intenti generazioni di artisti, politici,
mecenati. E chi ne esplora l’incredibile ricchezza, la straordinaria
cura, l’attenzione al messaggio, la quasi soprannaturale capacità di
esprimere e mantenere il gusto estetico, chi nota tutto questo vede i
segni di una civiltà che era in grado di creare per i secoli, di
preparare case e radici per le generazioni a venire, sentendosi intanto
erede di un passato profondo.
Noi, abitanti dell’Occidente
contemporaneo, abbiamo invece la patetica presunzione di guardare a quel
passato dall’alto verso il basso, pensando che vivere in un mondo in
cui c’è la penicillina ci renda automaticamente un’umanità migliore.
L’atteggiamento culturale che si manifesta in eventi come la cerimonia
di Parigi, è l’analogo dell’atteggiamento di un medio adolescente
disagiato, che pensa che libertà sia qualcosa come “dire le parolacce” e
ridacchiare di tutto ciò che non si capisce (cioè, più o meno, di tutto
senza resti). Questa cultura e civiltà, che lo sappia o meno, è in
caduta libera e destinata a sparire, per essere rimpiazzata da forme di
vita più strutturate, probabilmente non autoctone. Ciò che ci resta –
per chi ne è ancora capace – è forse solo fare come i monaci
benedettini: dedicandosi a preservare il meglio di una civiltà – che
pure ha prodotto cose importanti – per generazioni future capace di
riesumarle e rivitalizzarle.
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