Gli 8 giorni che hanno stravolto le presidenziali: troppe domande senza risposta
Biden vivo e torna alla Casa Bianca, oggi discorso alla nazione, ma restano molti interrogativi sugli ultimi giorni. La minaccia del 25mo emendamento
Finalmente questa sera, dopo una settimana di blackout e l’annuncio del suo ritiro via social, tramite una lettera firmata elettronicamente, rivedremo il presidente Joe Biden, che dovrebbe tenere un discorso alla nazione dallo Studio Ovale – ci aspettiamo per spiegare le ragioni del suo passo indietro.
La rapida successione degli eventi, dal fallito tentativo di assassinio di Donald Trump, sabato 13 luglio, all’annuncio del ritiro di Biden, domenica 21 luglio, è impressionante e rende difficile resistere alla tentazione di vedervi un preciso disegno piuttosto che i capricci del caso.
Tutto in 8 giorni
Sabato 13 luglio: Trump quasi assassinato, si salva per un paio di centimetri da un proiettile sparato da un cecchino durante un comizio a Butler, Pennsylvania. Molti i punti ancora oscuri, certe le falle nella sicurezza. Al punto che dopo una disastrosa audizione al Congresso, si è dimessa Kimberly Cheatle, direttrice del Secret Service. Dopo una settimana, nessuna conferenza stampa, nessun rapporto o significativo aggiornamento sulle indagini, nessuna foto dell’arma, nessuna intervista dei media, mistero sui contatti dell’attentatore.
Martedì 16: Trump annuncia il suo candidato vice: il senatore dell’Ohio J.D. Vance.
Mercoledì 17: emergenza medica per Biden, positivo al Covid. Di nuovo. Il presidente viene visto scendere dall’aereo in Delaware e salire in auto, molto faticosamente. Da quel giorno non è più riapparso.
Venerdì 19: Trump parla alla convention repubblicana e accetta la nomination.
Nel frattempo, salto di qualità delle pressioni per far ritirare Biden: chiedono il passo indietro la potente ex Speaker Nancy Pelosi e i leader al Congresso Chuck Schumer e Hakeem Jeffries. Si espone anche Barack Obama, che fa filtrare tramite il Washington Post di non essere contento delle chance di rielezione di Biden.
Domenica 21: la lettera di ritiro dalla campagna di Biden, con firma digitale e nessuna intestazione ufficiale, e il post di endorsement a Kamala Harris. Subito arriva l'”epitaffio” di Obama e partono gli endorsement a Harris: Clinton, Soros jr., Newsom etc. In poche ore 80 milioni di finanziamenti. Il fratello di Joe, Frank Biden, e Valerie, la sorella, ammettono che “la salute è stata un fattore”.
Martedì 23: Harris raggiunge il numero di delegati necessari per ottenere la nomination.
E in tutto questo, Biden ancora non si è fatto vedere in pubblico per spiegare agli americani la sua decisione di ritirarsi. Sembra che lo farà stasera.
La minaccia del 25esimo emendamento
Successione per defenestrazione, l’ha definita alcuni giorni fa il giurista Jonathan Turley. Ieri il New York Post e altri media hanno riportato che c’è voluta la minaccia di attivare il 25esimo emendamento per “convincere” il presidente Joe Biden a ritirarsi dalla corsa. L’emendamento consente al vicepresidente e ai membri del governo di dichiarare il presidente inidoneo a servire e costringerlo a dimettersi.
Ora, vediamo perché chiarire questo passaggio è importante e non è questione di lana caprina. Fate attenzione a come è cambiata la narrazione. Fino al dibattito tv del 27 giugno l’età di Biden non era un problema, anzi. Ora che è fuori dalla corsa, lo spin è che è un problema per Trump. Ipocrisia all’ennesima potenza.
Ma il problema non è mai stato l’età in sé, bensì le condizioni di salute, il declino cognitivo che tutti abbiamo visto. Già nella campagna del 2020, se ricordate, Biden ha tenuto pochissimi comizi, quasi tutti nei giorni finali, tanto che i suoi avversari ironizzavano parlando di una campagna condotta dal “basement”, dal seminterrato. Gli episodi di assenza si sono fatti via via più frequenti e meno controllabili dallo staff.
Motivo di salute o altro?
La minaccia di attivazione del 25esimo emendamento sarebbe la conferma che le condizioni di salute (o meglio, il fatto che il declino mentale sia ormai pubblicamente evidente) sono il vero motivo del ritiro. D’altronde, se così non fosse, la minaccia non avrebbe potuto funzionare. Ma se è così, di tutta evidenza Biden non è in condizioni nemmeno di portare a termine il mandato (restano ancora circa sei mesi). Cosa accadrebbe se durante un’emergenza, o un evento pubblico internazionale, avesse un vuoto, si spegnesse improvvisamente (il che potrebbe essere già accaduto)?
Ma se così non fosse, se come ci è stato ripetuto fino al 27 giugno il presidente è “sharp as a tack”, sarebbe ancora più grave per il Partito Democratico. Ciò significherebbe che 4 o massimo 5 leader del partito hanno rimosso il candidato scelto da 14 milioni di elettori alle primarie semplicemente perché stava andando troppo male nei sondaggi, sostituendolo con una candidata da loro scelta. Non vogliamo chiamarlo “coup”? Ma certo non sarebbe proprio il massimo per un partito chiamato “democratico”.
Le modalità e le tempistiche del ritiro di Biden non sono certo tra le più trasparenti e lineari, a cominciare da quel dibattito tv che qualcuno ha voluto fosse organizzato per la prima volta nella storia prima delle convention dei due partiti – evidentemente, prevedendo la débacle, in modo che ci fosse il tempo per il cambio in corsa del candidato.
Fino a poche ore prima dell’annuncio il presidente aveva ribadito la sua volontà di restare in corsa e vincere. Poi la positività al Covid e il ritorno in Delaware, molto affaticato, mercoledì sera. Da quel momento fino a ieri sera, quando lo abbiamo visto salire su un aereo per tornare a Washington, nemmeno una foto.
L’annuncio
Domenica sera l’annuncio del ritiro, con lo staff tenuto all’oscuro. Una lettera in formato digitale, su carta intestata privata anziché su carta intestata della Casa Bianca, firmata elettronicamente e postata sul suo profilo X, non sul profilo POTUS, e un successivo post di endorsement a Kamala Harris.
Lunedì sera cancellato all’ultimo momento l’incontro fissato per martedì, e confermato solo il giorno prima, con il premier israeliano Netanyahu (mentre era già in volo per Washington), nonostante sempre lunedì il medico presidenziale Kevin O’Connor aveva certificato che il presidente stava bene, “i suoi sintomi sono quasi completamente scomparsi” e “continua a svolgere tutti i suoi doveri presidenziali”.
Dall’annuncio del ritiro fino a ieri abbiamo risentito la sua voce in un audio che sembrava registrato al primo incontro tra la vicepresidente Harris e il suo staff nel quartier generale della campagna a Wilmington.
Volendo scartare le teorie più estreme (alcuni rappresentanti repubblicani al Congresso hanno chiesto “prove di vita” del presidente), è lecito nutrire dubbi che a Biden sia stato anche solo spiegato del suo ritiro domenica scorsa, o che comunque fosse in grado di parlarne con lucidità e consapevolezza. Questo potrebbe spiegare perché, dopo 72 ore, non ha ancora pronunciato un discorso, in diretta o registrato, alla nazione, per spiegare i motivi del suo passo indietro. Vedremo in che condizioni si presenterà e cosa dirà stasera.
“Tutti erano totalmente scioccati”, ha riferito una fonte interna al New York Post. Anche gli addetti ai lavori del Partito Democratico sanno da almeno due anni come Biden sia in declino, ha spiegato la fonte. “Quando l’ho visto un paio di anni fa, è stato spaventoso. Stava solo ripetendo slogan e non aveva idea di chi fossi“.
Domande lecite
Quelle che seguono sono le domande che media e giornalisti seri dovrebbero porre a Biden e ai Democratici. Un problema neurologico è il motivo del ritiro? E se sì, non dovrebbe dimettersi anche da presidente? Da quanto tempo la vicepresidente Harris e lo staff della Casa Bianca sapevano delle sue condizioni di salute? Chi è al comando alla Casa Bianca – e chi ha guidato il Paese in questi anni? E se non si è ritirato a causa di un disturbo neurologico, perché si è ritirato? Il Partito lo ha spinto a dimettersi, annullando l’esito di regolari elezioni primarie, sulla base di brutti sondaggi?
Interrogativi leciti, che però il sistema mediatico non sta minimamente sollevando, mentre chi osa farlo passa per complottista.
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