Per la prima volta nella storia, venerdì 19 luglio, la Corte internazionale più prestigiosa ha espresso il suo parere sulla legalità del controllo da parte di Israele dei territori occupati, infliggendo un duro colpo agli argomenti dei filo-israeliani più massimalisti. L’occupazione israeliana della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, è illegale, ha detto la Corte Internazionale di Giustizia, e deve cessare “il più rapidamente possibile”. Non solo: Israele è obbligata a fermare i nuovi insediamenti, ritirare tutti i coloni dai territori occupati e pagare riparazioni ai palestinesi per i danni causati dal 1967 a oggi. Quel che è peggio: le politiche di Israele nei territori occupati si possono definire come apartheid. La parola, considerata tabù persino in alcuni quotidiani di centrosinistra italiani, qui è scritta nero su bianco.
La sentenza — che sarebbe meglio chiamare parere consultivo — deriva da una richiesta del 2022 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, vale a dire che precede la guerra di Gaza attuale, ed è non vincolante. Tra i pochi Paesi occidentali che hanno accolto pubblicamente con favore il pronunciamento si registrano Spagna, Belgio, Irlanda, Islanda, Australia, Nuova Zelanda e, per l’Unione Europea, la voce dell’Alto Commissario per la politica estera, Josep Borrell, sulla via del pensionamento. Gli Stati Uniti hanno fatto capire di non gradire la decisione, mentre l’Italia non si è espressa e la notizia è rimasta qualche ora nei bassifondi delle homepage dei quotidiani, prima di essere sommersa dal gossip.
Se l’evento è storico, molti osservatori si chiedono come esso influenzerà il comportamento degli attori in gioco in Medio Oriente. Gli scettici diranno che oggi la mattanza di Gaza è uguale a ieri, e che domani sarà lo stesso. Che il tanto blaterato «diritto internazionale» continuerà a essere reso carta straccia nei rapporti tra potenze, specie se alla Casa Bianca tornerà Donald Trump, il quale ha promesso a Netanyahu tutta Gerusalemme e, una sua mecenate particolarmente razzista, la proprietà dell’intera Cisgiordania. Una eventualità che alcune comunità ebraiche conservatrici auspicano esplicitamente, piccate per le critiche a Israele dei progressisti.
Ma questa non è la cosa più importante da tenere a mente quando si guarda al quadro generale. Bisogna ricordare invece che usare i tribunali e le leggi è solo uno strumento, non l’unico o definitivo. L’occupazione dei territori palestinesi finirà quando la destra etnonazionalista israeliana pagherà un prezzo salato per le sue scelte. E questo prezzo sarà probabilmente pagato non per la dissidenza israeliana di sinistra, ma solo grazie a pressioni esterne: perché altre alleanze internazionali a un certo punto diranno “basta”.
Il punto fondamentale però è questo: la Corte ha stabilito che adesso “basta” si può dire veramente, anche in punta di diritto. Ha stabilito chiaramente che c’è un occupante e un occupato, un aggressore e un aggredito. È “solo” un parere consultivo, certo, ma molto più ampio e vasto di qualsiasi altra sentenza precedente di questo tipo. La corte smantella l’idea che i negoziati di pace, come gli Accordi di Oslo, siano l’unica via da seguire per far riavere ai palestinesi la loro terra.
E se i governi alleati con Israele probabilmente continueranno ancora a dire che la liberazione dei territori passerà attraverso i negoziati – anche perché i circa 700 mila coloni in Cisgiordania non è che li puoi trasferire in un batter d’occhio, e i loro complessi insediamenti illegali non li puoi abbattere senza proteste enormi – la Corte dice che questa normalizzazione è stata e continua a essere sbagliata, e che gli insediamenti e i coloni devono andarsene.
Inutile dire che in questo modo è stato smontato il castello di scuse utilizzato da paesi come Germania o Gran Bretagna per boicottare i tribunali internazionali che stanno indagando su Israele. Inutile dire che è stato smontato anche il costrutto retorico dei filo-israeliani più ideologici in Italia, di scuola pannelliana o del centro liberale, che in Italia hanno una presa fortissima su molte redazioni e reagiscono con violenza alla perdita di controllo della narrazione. Se, prima di venerdì 19 luglio, la sequela di accuse esplicitate dalla Corte era una prerogativa per lo più degli esperti sul campo, della sinistra radicale e degli attivisti – mentre il mainstream la perimetrava in una nube di reticenza, depistaggi e distrazioni – essa ora ha il timbro di un’istituzione sovranazionale.
Che questo si tradurrà immediatamente in un cambiamento della policy della Casa Bianca o dell’UE, nella produzione di memorandum che verranno affissi nelle cancellerie di mezzo Occidente, è difficile da credere. Ma cambierà il modo in cui partiti, intellettuali e persone comuni si relazioneranno all’occupazione. Sebbene gli europei abbiano già compiuto alcuni passi significativi per distinguersi dagli Stati Uniti sulla condanna degli insediamenti, secondo Hugh Lovatt, analista dell’European Council on Foreign Relations, la Corte ora incoraggia passi in avanti più coraggiosi, come ad esempio un divieto sui prodotti e servizi degli insediamenti, un controllo più rigoroso delle vendite di armi e tecnologie a Israele.
I Paesi europei devono fare propria l’affermazione della Corte secondo la quale il diritto palestinese all’autodeterminazione non è condizionato dall’approvazione israeliana. Un passo pratico in questo senso, già intrapreso da diversi membri dell’UE, tra cui recentemente Irlanda, Norvegia e Spagna, è riconoscere lo Stato di Palestina a Gaza, ma altri membri dell’Ue devono seguire l’esempio. Secondo la giurista canadese Diana Butto, il parere della Corte Internazionale rendono ancora più legittime le richieste di ripensare gli accordi di libero scambio con Israele oppure le sanzioni sui coloni che in Cisgiordania si rendono complici dei pogrom di palestinesi ma viaggiano indisturbati per il mondo.
Scrivere nero su bianco certe frasi, certe nozioni e certe parole come apartheid ha già allargato la famosa finestra di Overton della politica, ossia il campo del dicibile nel dibattito pubblico. Sì, certe idee adesso si possono sviluppare, si possono proporre, si possono infilare in editoriali, reportage e persino programmi politici. E questa è già da sola una piccola rivoluzione, anche se avviene mentre fiumi di sangue ancora scorrono.
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