Un maxi accordo tra Usa e Arabia Saudita per far tornare in carreggiata la prospettiva di una normalizzazione tra Riad e Israele? Questo è quello che si pensa da più parti nei pensatoi strategici americani. Ora che il Dipartimento di Stato lavora alacremente a un accordo quadro su sicurezza e convergenza geopolitica e diplomatica con i sauditi, l’idea di inserire nel percorso di rafforzamento dell’alleanza settantennale tra gli Stati Uniti e il regno wahabita una clausola di rilancio della distensione di quest’ultimo con Tel Aviv stuzzica molti addetti ai lavori.
Joe Biden ricalca Donald Trump e nella fase finale del suo mandato cerca i “suoi” Accordi di Abramo? Non siamo molto lontani dalla realtà. Numerosi esponenti dell’intellighenzia democratica americana stanno già pensando all’idea che un accordo omnicomprensivo Usa-Arabia Saudita possa risolvere il problema mediorientale. Aprendo a una risoluzione della discordia tra sauditi e israeliani emersa dopo lo scoppio della guerra a Gaza, contenendo l’esuberanza iraniana e, perché no, aprendo alla soluzione della questione palestinese. Vaste programme, verrebbe da dire. Ma non è l’ottimismo che manca. “Per l’Arabia Saudita, un accordo bilaterale con gli Stati Uniti rappresenterebbe una vittoria importante, segnando la fine dell’era in cui Biden cercava di indebolire Mohammed bin Salman”, principe ereditario e tessitore delle strategie del regno, promettendo di trasformare il suo Paese in un “paria” dopo l’omicidio dell’editorialista del Washington Post Jamal Khashoggi per mani dei funzionari dell’intelligence saudita in Turchia”, hanno scritto in un servizio i giornalisti della Cnn Becky Anderson, Mostafa Salem e Jennifer Hansler.
Dopo che il Segretario di Stato Antony Blinken è volato a Riad il 29 aprile per incontrarsi con il Ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, il principe Faisal bin Farhan bin Abdullah, ai margini del vertice tra Usa e Gulf Cooperation Council anche la storica firma del New York Times, esperto di Medio Oriente e tre volte Premio Pulitzer Thomas Friedman ha speso parole al miele per la ritrovata sintonia Washington-Riad. La quale potrebbe diventare presto una formale alleanza che, nota Friedman, “potrebbe isolare l’Iran, frenare l’influenza della Cina in Medio Oriente e ispirare pacificamente un cambiamento più positivo in questa regione rispetto alle invasioni statunitensi di Iraq e Afghanistan”. Friedman nota poi come gli avanzamenti di Mbs sul fronte del riavvicinamento agli Usa possano e debbano essere presi al balzo dal governo israeliano di estrema destra. Aggiungendo che sarebbe solo l’ideologia radicale del governo Netanyahu a evitare che si saldino l’alleanza con gli Usa e la necessaria convergenza coi Paesi arabi in chiave anti-iraniana: “Israele oggi non può convocare le coalizioni di cui ha bisogno per prosperare come nazione, perché ciò porterebbe alla disgregazione della coalizione di governo di cui Netanyahu ha bisogno per sopravvivere come politico”.
Friedman nota poi che l’accordo aprirebbe alla triangolazione Washington-Riad-Tel Aviv se Israele seguisse le logiche dell’alleanza e le condizioni saudite: “Lasciare Gaza, congelare la costruzione di insediamenti in Cisgiordania e intraprendere un “percorso” da tre a cinque anni per stabilire uno stato palestinese nei territori occupati”. En passant, però, con buona pace dei suoi inviti alla modernizzazione Bin Salman sta lanciando messaggi chiari a Israele sulla sua reale considerazione della questione palestinese: come riporta Bloomberg, da settimane in Arabia Saudita vengono arrestati coloro che sui social criticano pubblicamente Israele e le sue azioni a Gaza.
Insomma, parliamo di una strategia a tutto campo con cui Biden e Blinken
potrebbero cercare di chiudere l’attuale mandato. E provare a salvare
capra e cavoli tenendo assieme tutto: la necessità disperata di segnare un punto sul piano diplomatico, la tutela della relazione coi maggiori alleati regionali, la volontà di puntellare l’Iran nella regione, la necessità di cercare vie d’uscita dalla catastrofe di Gaza e prospettive per non appiattirsi su Netanyahu senza abbandonare Tel Aviv, la spinta a ampliare il novero di alleanze militari.
Un all-in difficilissimo e rischioso. Che sembra però poco al passo coi
tempi, ricalcando l’insoddisfacente strategia volta a saldare l’asse
israelo-saudita perseguita da Donald Trump contro Iran, Siria e
Hezbollah durante la sua presidenza. L’unica differenza è che prima
della guerra a Gaza Netanyahu era il primo attore e oggi uno dei primi ostacoli a tale strategia.
Ma la filosofia appare convergente con quella degli Accordi di Abramo:
plasmare un Medio Oriente capace di saldare Israele e blocco sunnita
contro l’Iran da un lato e cercare una soluzione esogena alla questione
palestinese dall’altra. Né l’una né l’altra strategia si sono dimostrate
capaci di funzionare sistemicamente negli anni scorsi. Cambiano i
presidenti, ma sul Medio Oriente la miopia resta. E le posizioni Usa nella regione continuano a scricchiolare
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