Qualche giorno fa Gideon Levy aveva intravisto un’unica via d’uscita per la “salvezza” di Israele, ovvero accogliere la sentenza della Corte internazionale di giustizia, e agire di conseguenza. Tuttavia, Levy aveva anche anticipato che così non sarebbe stato. E, difatti, dopo la strage di civili al campo profughi di Tel al-Sutan, Israele non “costeggia più i bordi dell’abisso”, come scriveva Levy, vi è sprofondata dentro, almeno per l’opinione pubblica.
Prima dell’ennesima mattanza – dove stavolta hanno perso la vita oltre 40 persone, tra cui donne e bambini, bruciati vivi tra le fiamme – il giornalista scriveva su Haaretz: “Se Israele obbedisse alla Corte sarebbe uno Stato governato da leggi che dovranno essere rispettate. Dicendo sì, non solo avrebbe salvato il Paese da ulteriori inutili spargimenti di sangue a Rafah, ma avrebbe anche fermato la valanga internazionale che si sta precipitando su di esso”. Troppo tardi perché, se non fossero bastati i sette mesi di guerra, oggi tutto il mondo ha visto, o può vedere, le brutali immagini dei corpi spezzati e senza vita di bambini innocenti. Ma il lucidissimo Gideon Levy, suo malgrado, lo aveva già preannunciato: “Israele ha solo una via d’uscita; non la sceglierà”. Così è stato. E poco valgono le giustificazioni che il governo Netanyahu ha dato sulla strage alla tendopoli, e cioè che “le conseguenze dell’attacco aereo sono state un drammatico ‘incidente’ al momento in fase di esame”.
Israele “invulnerabile e protetta dagli amici USA”
La salda amicizia che lega Stati Uniti e Israele consente a quest’ultimo di agire impunemente, senza ricevere neppure mezza sanzione (ora, finalmente, sembrerebbe che i ministri degli Esteri europei stiano valutando la possibilità di emanare sanzioni contro Tel Aviv; vedremo).
Levy continua la sua disamina affermando che “come sempre, Israele sta cercando un modo per ignorare l’ordine e reclutare Washington per indebolire il diritto internazionale. Dobbiamo sperare, ovviamente, per l’America e per Israele, che questa volta gli Stati Uniti traccino un limite alla loro volontà di sfidare il mondo intero, per il bene del loro ribelle stato protetto”.
Neppure quanto è avvenuto domenica sera a Rafah è bastato a tracciare il limite di cui scrive Levy. E, infatti, dall’amministrazione Biden non è stata rilasciata alcuna dichiarazione, se non un silenzio assordante interrotto ieri da un paio di dichiarazioni (più che discutibili). La prima “Gli USA stanno raccogliendo maggiori informazioni sulla ‘vicenda’”, e la seconda, che riporta Antiwar, “un portavoce della Sicurezza Nazionale ha definito ‘straziante’ quanto avvenuto. Tuttavia Israele aveva il ‘diritto’ di attaccare Hamas [nel bombardamento al campo profughi sono stati uccisi anche due capi di Hamas]”.
La linea rossa di Biden (ancora non pervenuta)
Levy, con una sintesi lapidaria, ripercorre quanto fatto da Israele negli ultimi sessant’anni. “Dopo il precipitoso ritiro dal Sinai nel 1956, Israele non ha mai aderito alla volontà della comunità internazionale, come se il mondo e le sue decisioni non avessero nulla a che fare con esso. Invulnerabile e protetto dall’America, dalla Bibbia e da un certo centro di ricerca nucleare di Dimona, si è comportato sempre come se avesse la licenza di prendersi gioco del mondo intero. Tutto ciò è finito il giorno in cui ha invaso Gaza in modo così brutale e incontrollato”.
L’unica cosa che potrebbe fermare Netanyahu, dato che neppure il più alto tribunale delle Nazioni Unite c’è riuscito, sarebbe un diktat americano. Ipotesi che appare quantomai improbabile, stando a quanto riporta il Washington Post: “Martedì la Casa Bianca ha dichiarato che Israele non ha violato gli avvertimenti del presidente Biden sulla condotta della sua campagna militare a Rafah”. Questo suggerisce che, ancora una volta, gli Stati Uniti “non prenderanno alcun provvedimento nei confronti della guerra israeliana”.
Tutto in linea con l’atteggiamento poco coerente del governo Biden. Nei tempi bui, la memoria è un esercizio raro, tuttavia, se conservata non mente mai. Il presidente americano, i primi di maggio, aveva criticato Israele e scongiurato le operazioni a Rafah, pena lo stop alla consegna delle armi americane a Tel Aviv. Ora, dopo che decine di civili sono bruciati nelle fiamme, si attendeva con ansia qualcosa in più di un rimprovero a voce alta che, a quanto pare, non arriverà.
L’ex capo del Mossad e le minacce alla procuratrice dell’Aia
E, per rimanere in tema di impunità, un’inchiesta del Guardian ha fatto luce su un fatto eloquente. L’ex direttore del Mossad [l’intelligence israeliana] Yossi Cohen “avrebbe minacciato la procuratrice capo della Corte penale internazionale, Fatou Bensouda, in una serie di incontri segreti nei quali avrebbe cercato di spingerla ad abbandonare un’indagine su crimini di guerra” contro Israele.
I fatti riportati dal quotidiano britannico risalgono al 2019, ovvero prima che la procura della CPI aprisse un’indagine formale su presunti crimini di guerra e contro l’umanità nei territori palestinesi occupati [quella culminata la scorsa settimana con la richiesta di un mandato di cattura contro Netanyahu da parte di Karim Khan, il successore della Bensouda].
Le intimidazioni di Cohen, riferisce il media britannico “erano autorizzate ad alto livello”, agiva, cioè, come “un inviato non ufficiale” di Netanyahu. “L’obiettivo del Mossad – prosegue il Guardian – era quello di compromettere il pubblico ministero [Bensouda] o arruolarla perché collaborasse con Israele”.
Secondo resoconti condivisi con funzionari della CPI, Cohen le avrebbe detto: “Dovresti aiutarci e lasciare che ci prendiamo cura di te. Non vorrai immischiarti in cose che potrebbero compromettere la tua sicurezza o quella della tua famiglia”. Minacce, peraltro, non isolate, ma reiterate.
I tentativi di intimidazione di Cohen contro la Bensouda sarebbero falliti, come dimostrano i recenti provvedimenti. Nessun commento da parte degli interessati. L’unica dichiarazione è arrivata da un portavoce di Netanyahu che, come da copione, ha negato tutto.
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