Petrodollaro, Riad non rinnova la storica intesa
La notizia che l’Arabia Saudita non ha rinnovato l’esclusiva per vendere petrolio in dollari, intesa cinquantennale in scadenza, ha fatto il giro del mondo. Stranamente, o forse no, i media mainstream occidentali non ne hanno dato la notizia, oppure l’hanno tenuta bassa, anzi taluni l’hanno bollata come fake.
Il petrodollaro
Il silenzio è d’oro, e oro nero, perché se gli Stati Uniti non vi porranno riparo, sia costringendo Riad a rinnovarlo sia siglando un nuovo e diverso accordo, la svolta è di portata epocale. Tanti gli articoli sul tema, che è inutile ribadire l’ovvio: se va così, il dollaro perde tanto del suo potere. Legando il petrolio al dollaro, infatti, si è legato il mondo alla moneta americana, diventata di fatto la benzina dell’economia e della finanza globale.
Riportiamo quando scrive sul punto Indianpunchline: “Fondamentalmente, l’accordo prevedeva che l’Arabia Saudita avrebbe valutato le sue esportazioni di petrolio esclusivamente in dollari statunitensi e avrebbe investito i proventi petroliferi in eccesso in titoli del Tesoro statunitense e, in cambio, gli Stati Uniti avrebbero fornito supporto militare e protezione al regno”. su
L’accordo “ha assicurato che gli Stati Uniti ottenessero una fonte stabile di petrolio e un mercato vincolato per il proprio debito, mentre l’Arabia Saudita garantiva la propria sicurezza economica e generale. A sua volta, la denominazione del petrolio in dollari ha elevato lo status del dollaro a ‘valuta di riserva’ mondiale”.
“Da allora, la domanda globale di dollari per l’acquisto di petrolio ha contribuito a mantenere forte la valuta, non solo ha reso le importazioni relativamente economiche per i consumatori americani ma, in termini sistemici, l’afflusso di capitali esteri nei titoli del Tesoro statunitense ha sostenuto bassi tassi di interesse e obbligazioni garantite al mercato”.
“[…] la scadenza del petrodollaro potrebbe indebolire il dollaro statunitense e, per estensione, i mercati finanziari statunitensi. Se il prezzo del petrolio dovesse essere prezzato in una valuta diversa dal dollaro, ciò potrebbe portare a un calo della domanda globale del biglietto verde, che, a sua volta, potrebbe comportare un’inflazione più elevata, tassi di interesse più elevati e un mercato obbligazionario più debole negli Stati Uniti”.
A motivare la decisione saudita, secondo l’analista indiano, l’emergere del multilateralismo e delle diverse fonti di approvvigionamento (rinnovabili, gas etc), ma soprattutto la decisione dell’amministrazione Biden di rovesciare il governo di Mohamed bin Salman in favore di un altro reggente più malleabile.
Sopravvissuto al regime-change del 2018, bin Salman si sarebbe vendicato in questo modo, perché “reali sauditi non dimenticano né perdonano mai […] E domenica scorsa, 9 giugno, hanno colpito”.
Tesi più che semplicistica, anzi improbabile, mentre più solide appaiono le cause succitate, alle quali va aggiunta anche la spinta verso il green delle élite occidentali e la parallela sfida ai combustibili fossili, di cui il regno si sente custode globale (al modo di come è custode della Mecca), anche se ormai ha autorevoli concorrenti.
L’omicidio Khashoggi
Ma se abbiamo riportato l’annotazione dell’analista indiano è per quanto scrive sul tentativo di regime-change del 2018, in merito al quale avrebbe avuto un ruolo centrale il giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi che, oltre che un dissidente di Riad, secondo sarebbe stato anche una “risorsa strategica” della Cia.
Da qui il suo assassinio da parte di Riad, avvenuto nel consolato saudita sito in Turchia, che aveva come scopo non solo quello di uccidere il povero cronista, ma anche inviare un segnale forte a Washington perché ripensasse la sua decisione sul regime-change.
Rivelazione che spiegherebbe perché l’America ha lasciato correre sull’omicidio di un suo cronista tanto importante. Certo, c’erano gli interessi Usa da tutelare, ma era una sfida talmente alta al potere imperiale che avrebbe dovuto essere affrontata con la forza, perché presupponeva l’allontanamento della colonia dalla madrepatria. Ma è possibile che a frenare sia stato appunto il fallimento del regime-change, che rendeva impossibile metterne su un altro a breve.
In una nota del tempo avevamo notato la tempistica convergente delle improvvise e non motivate dimissioni di Nikki Halley da ambasciatrice degli Stati Uniti presso l’Onu e l’assassinio di Khashoggi, come di cose che si rimandavano a vicenda (non eravamo gli unici…).
È noto che la Halley è uno dei tanti ventriloqui dei circoli neocon, come ormai è palese a tutti. Possibile che fosse parte del tentato golpe in Arabia Saudita? Possibile, date soprattutto le pulsioni di tali ambiti a eliminare gli alleati – che considerano servi – quando scantonano dalle loro direttive. E Riad aveva scantonato, eccome.
Qualcosa era successo e forse qualcosa che aveva a che fare con la storica visita di re Salman a Mosca dell’ottobre del 2017, la prima volta che un re saudita sbarcava in Russia.
Al di là di quanto non sappiamo, sappiamo solo che, alcuni mesi dopo, ad aprile del 2018, la residenza del principe saudita bin Salman fu presa d’assalto ed egli fu ferito seriamente. La notizia non ebbe alcuna risonanza mainstream, data la riservatezza del regno sulla vicenda. Ma ebbe risonanza, eccome, la sua scomparsa dal proscenio pubblico, che tanto amava e ama presenziare.
A giugno del 2018, dopo mesi di latitanza, riapparve a sorpresa in uno stadio dei mondiali di calcio organizzati in Russia, seduto accanto a Vladimir Putin, presenza che ribadiva, a mesi di distanza, il riallineamento verso Mosca del regno.
Seguendo il corso della cronologia, sappiamo che il 2 ottobre 2018 viene assassinato il povero Khashoggi (forse vittima di un gioco più grande di lui). Il 9 ottobre si dimette la Halley, senza alcun motivo apparente. Domanda: le dimissioni furono la presa di coscienza che il regime-change saudita, avviato con l’attentato a bin Salman di aprile, era fallito? Quesito che resta inevaso.
Al di là della digressione su Khashoggi e tornando al complesso tema del recesso dell’accordo Washington-Riad sul petrolio, ne scriveremo quando le cose saranno più chiare.
Ad oggi, nonostante l’accaduto, i mercati non hanno subito oscillazioni clamorose, come avrebbe dovuto essere per la portata storica dell’evento. Ciò vuol dire che c’è una trattativa in corso ad altissimo livello, non solo per gestire la notizia. All’esito, si saprà qualcosa in più.
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