Messico: lo Stato “in pace” dove muoiono più civili che in ogni conflitto
30 Giugno 2024
Più di cinquemila episodi di violenza mirata contro i civili solo nel 2023: se questi numeri riguardassero un Paese dichiaratamente in guerra, probabilmente non ci sorprenderebbero. Tuttavia, il fatto che si riferiscano al Messico, uno Stato formalmente democratico e senza alcun conflitto ufficiale in corso, è sconcertante. Secondo l’ACLED, un’organizzazione non governativa specializzata nella raccolta di dati, analisi e mappatura dei conflitti nel mondo, il Messico è considerato il Paese più pericoloso al mondo per i civili. Se si tengono conto di tutti e quattro gli indicatori valutati dall’indice (mortalità, pericolo per i civili, diffusione geografica e frammentazione dei gruppi armati), il Messico è su scala globale al terzo posto, preceduto solo da Birmania, ripiombata in una guerra civile dopo il golpe del febbraio 2021, e Siria, dilaniata da un conflitto interno da più di tredici anni.
Ma cosa rende il Messico un Paese così pericoloso e inospitale per le persone? Se dal 2006 al 2017 nel Paese si sono verificati quasi 235 mila omicidi, tra il 2018 e il 2021 si sono contate altre 33 mila uccisioni e in generale negli ultimi vent’anni hanno perso la vita circa 500 mila persone fra civili, militari e trafficanti (senza contare rapimenti e sparizioni), la colpa è principalmente della feroce competizione tra cartelli per il controllo del mercato illegale della droga. Tant’è che, per molte comunità messicane, le minacce sono più elevate di quelle presenti anche nei contesti di conflitto più violenti. La presenza di gruppi criminali è così radicata che essi controllano vaste aree del territorio, instaurando legami profondi con le istituzioni locali e nazionali. L’infiltrazione del crimine organizzato negli apparati dello Stato e nelle forze di polizia ha seriamente minato la credibilità del Paese, alimentando una violenza crescente che è anche il risultato della diffusa povertà e del dissenso sociale.
Come riportato da uno studio pubblicato su Science, basato sull’analisi di circa dieci anni di dati su omicidi, persone scomparse e incarcerazioni, nonché informazioni sulle interazioni tra fazioni rivali, in Messico la criminalità organizzata è il quinto datore di lavoro, con un numero di persone impiegate compreso tra 160mila e 185mila e un reclutamento – molto spesso forzato – di 350-370 nuove persone ogni settimana.
Cosa sono i cartelli della droga e come sono nati
I cartelli messicani sono organizzazioni criminali che gestiscono il traffico e la distribuzione di cocaina, eroina, metanfetamine e altri stupefacenti, dai Paesi produttori dell’America Latina al resto del mondo. Oltre al traffico di droga, questi gruppi – si arriva a contarne fino a 200 di dimensioni più o meno grandi – sono coinvolti anche in altre attività criminali come estorsioni, sequestri di persona, rapine e traffico di migranti. La loro radicata presenza in Messico, ormai consolidata da almeno quindici anni, è dovuta principalmente a ragioni geografiche. Il Paese è infatti fisicamente collocato tra i principali produttori di droga dell’America Latina, come Colombia e Perù, e uno dei più grandi mercati di consumo, gli Stati Uniti. Questa posizione strategica, con un lungo confine condiviso con gli USA, ha reso il Messico un punto di transito ideale per gli stupefacenti.
I motivi dell’espansione e rilevanza dei cartelli sono però molteplici e interconnessi. C’entrano, per esempio, la frammentazione stessa dei grandi gruppi criminali in cellule più piccole, l’impoverimento generale della popolazione, che spinge molte persone a entrare nel narcotraffico per trovare sostentamento, e la corruzione diffusa nel governo e nelle istituzioni. Quest’ultimo aspetto, in particolare, è fondamentale per capire il processo che ha portato il Messico a spingersi fino a questo punto.
Se in principio era la Colombia, principale fabbricante di droga fino agli anni Ottanta, a produrre, lavorare e confezionare le sostanze, mentre i gruppi messicani si occupavano dell’immissione di queste ultime nel mercato statunitense, con l’arrivo di Miguel Ángel Félix Gallardo il Messico assunse nel traffico un ruolo sempre più centrale. Con Gallardo, ex poliziotto che nel 1980 decise di dedicarsi al narcotraffico, i principali narcos messicani, allora deboli e divisi, si unirono infatti in grandi organizzazioni. Gallardo riuscì rapidamente a dominare le attività illecite legate agli stupefacenti sfruttando la sua precedente posizione, che gli permise di avere la protezione dei più alti livelli della politica e degli apparati di sicurezza nazionali. Al punto da riuscire indisturbato a fondare in Messico il primo grande cartello, quello di Guadalajara, che riunì sotto un unico tetto tutti i principali narcotrafficanti del Paese. Per merito della nuova organizzazione, il Paese ottenne la piena fiducia dei grandi cartelli colombiani, arricchendosi e acquistando prestigio. Gallardo riuscì persino a convincere Pablo Escobar, noto criminale colombiano e uno dei più grandi trafficanti di cocaina e marijuana della storia, a utilizzare il Messico come rotta per vendere droga agli Stati Uniti, perché più sicura e meno soggetta a controlli rispetto a quella caraibica.
Nel contribuire alle fortune di Gallardo meritano una menzione speciale gli Stati Uniti. Il narcotrafficante godeva infatti di ampie protezioni all’interno della CIA per il fatto di essere un grande finanziatore dei Contras, i sanguinosi paramilitari appoggiati dagli USA in Nicaragua per sabotare nel sangue l’inviso governo socialista dei Sandinisti. Secondo quanto documentato, numerose agenzie federali statunitensi, tra cui la CIA e la DEA (l’agenzia federale antidroga), erano a conoscenza delle attività di Gallardo, ma a questi fu inizialmente data protezione per il contributo dato ai Contras.
Da Gallardo a El Chapo
Il legame instaurato da Félix Gallardo tra lo Stato e il narcotraffico continuò a prosperare, fiorendo soprattutto durante il governo del Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI), uno dei più importanti gruppi politici messicani. Il partito permise ai cartelli di stringere legami con una vasta rete di funzionari corrotti fino agli anni 2000, quando, dopo 70 anni al potere, l’elezione del presidente Vicente Fox del Partito Azione Nazionale (PAN) cambiò le carte in tavola. Da quel momento, i narcos non poterono più contare sui legami con gli ex politici in carica, intensificando quindi la violenza e gli attacchi contro gli apparati dello Stato.
Il piano fu però complicato da un accadimento imprevisto: l’arresto nel 1989, con l’accusa di omicidio e altri reati, di Félix Gallardo, che si diceva avesse organizzato nel 1985 il rapimento e l’uccisione di un agente della DEA (le forze speciali antidroga che conducono operazioni in Messico) per dare al Governo un segnale forte e chiaro. Se inizialmente l’ex poliziotto riuscì a continuare a gestire i traffici illeciti anche dal carcere, con il trasferimento negli anni ’90 in una prigione di massima sicurezza, il flusso si interruppe. La sua assenza fece perdere al Cartello di Guadalajara la sua iniziale compattezza e organicità e questo finì per dissolversi in tanti piccoli gruppi in lotta tra di loro: una rivalità che trasformò il Messico in una nazione martoriata, oltre che dal traffico di droga, anche dalla lotta tra bande armate.
L’eredità di Gallardo non andò persa. Joaquín Archivaldo Guzmán Loera, meglio conosciuto come El Chapo, cercò di riorganizzare in qualche modo i gruppi più influenti sotto un nuovo unico cartello. L’uomo fu presentato a Gallardo poco prima che finisse in carcere, dimostrandosi fin da subito molto abile nel traffico di droga verso gli USA. Tanto da divenire, in poco tempo, il braccio destro dell’ex poliziotto, fino a prenderne il posto dopo l’arresto. Fra i cartelli ancora oggi maggiormente riconosciuti c’è proprio quello di El Chapo, il Sinaloa.
I cartelli messicani principali
Nonostante la frammentazione dei cartelli e l’incarcerazione di migliaia di membri (circa 6mila all’anno), le dimensioni delle organizzazioni criminali sono in media più grandi rispetto a 10 anni fa. Nel 2022, i cartelli messicani contavano 60 mila membri in più rispetto al 20124 – sebbene in quest’arco di tempo sia morto il 17% delle reclute e il 20% sia stato imprigionato. Ma quali sono i cartelli con il maggior numero di persone arruolate?
- Cartello di Sinaloa
Prende il suo nome da uno degli Stati del Messico occidentale in cui opera maggiormente ed è ritenuta una delle organizzazioni dominanti nel traffico di droga nazionale – i dati dicono che ne faccia parte un trafficante su dieci. È stata fondata da El Chapo Guzman e guidata dallo stesso almeno fino al suo ultimo arresto, avvenuto nel 2014 (era finito in carcere anche nel 1993, ma era riuscito a fuggire, con la complicità di alcuni agenti). Oggi deve contendersi la piazza soprattutto con il cartello Los Zetas. Come dimostrato dal suo fondatore, l’arma più utilizzata dai suoi membri non è la violenza ma la corruzione.
- Cartello Jalisco New Generation (CJNG)
Nato nel 2010 come cellula del cartello di Sinaloa, è uno dei più potenti e in più rapida crescita sia in Messico che negli USA – ne fanno parte quasi due reclute su dieci. Tanto che la DEA l’ha valutata come «una delle cinque organizzazioni criminali transnazionali più pericolose e violente al mondo». Fondata da El Mencho, ex agente di polizia dello Stato di Jalisco, è particolarmente nota per il numero di massacri, omicidi e scontri violenti. Un modo di agire con cui ha aperto rotte al traffico di droga che nessuno prima era riuscito a sfondare.
- Cartello di Los Zetas
Composto inizialmente dai disertori delle forze speciali dell’esercito messicano, il cartello Los Zetas, nato nel 1999, deve il suo nome al suo primo capo: Arturo Guzmán Decena, noto alle forze dell’ordine come Z1. Nel corso degli anni, il gruppo si è fatto notare per la brutalità delle sue azioni, tra cui massacri di civili, decapitazioni, pubblicazioni online delle uccisioni e dispersione di resti umani in luoghi pubblici come avvertimento per i gruppi rivali.
Quali misure ha adottato il Messico per ridurre il dominio dei cartelli
Fino agli anni 2000, i governi in carica hanno sempre tenuto, nei confronti dei cartelli della droga, un atteggiamento generalmente cauto e passivo. L’esordio della “Guerra al traffico di droga”, un approccio adottato per la prima volta nel 2006 dall’allora presidente Felipe Calderón, d’ispirazione cattolica e conservatrice, fu invece improntato sull’intervento militare. In quell’anno ci fu infatti un dispiegamento dell’esercito senza precedenti – circa 45 mila soldati – sparpagliato per le strade e incaricato di combattere direttamente i cartelli sul suolo pubblico, soprattutto al nord e al confine con gli USA. Questo approccio non è mai radicalmente cambiato. Seppure negli anni l’esercito messicano (con l’intervento americano) sia riuscito a catturare o uccidere almeno venticinque fra i più importanti boss della droga, a detta di molti critici la violenza militare non ha fatto altro che frammentare i cartelli, dando vita a bande sì più piccole ma più violente.
Quando il nazionalista di sinistra Andrés Manuel López Obrador assunse l’incarico, nel 2018, promise che avrebbe posto fine alla guerra al narcotraffico optando per una strategia nuova, che avrebbe dovuto limitare gli scontri tra polizia e trafficanti e favorire lo sviluppo sociale delle aree più povere. La sua politica venne ribattezzata con lo slogan «Abrazos, no balazos» (abbracci, non proiettili). Per questo motivo, Obrador istituì una guardia nazionale costituita da circa 125 mila membri con il compito di mantenere la pace e stanziò ingenti fondi per incentivare lo sviluppo delle aree più disagiate del Paese – dove i narcos cercano e trovano le proprie reclute. L’obiettivo era quello di emancipare le classi popolari dal bisogno materiale che le spinge a divenire manodopera a basso costo per la criminalità organizzata. Ma i risultati, per ora, non sono quelli sperati. ACLED ha documentato che nel 2023 gli scontri tra polizia e gruppi criminali – che evidenziano un allontanamento di Obrador dal suo precedente approccio «abbracci, non proiettili» – sono stati almeno 872, in aumento del 24% rispetto ai 705 registrati nel 2022. Anche i combattimenti tra gruppi armati rivali sono aumentati in modo simile nel 2023, con 426 eventi rispetto ai 377 del 2022.
Nessun diritto, nessuna giustizia
Oltre a diventare vittime innocenti degli scontri diretti tra cartelli rivali, che trasformano le strade cittadine in veri e propri campi di battaglia, i civili subiscono un’ulteriore violazione del loro diritto umano alla vita. Negli anni, Human Rights Watch, un’organizzazione statunitense che si occupa della difesa dei diritti umani, ha infatti più volte denunciato l’esercito e la polizia messicani per diffuse violazioni dei diritti umani nel tentativo di combattere la criminalità organizzata, sottolineando che nessuna di queste sia stata adeguatamente indagata. Numerosi anche i casi di insabbiamento documentati, che testimoniano la profonda connivenza tra cartelli criminali e poteri dello Stato corrotti. Scrive Human Rights Watch: «I soldati o la polizia hanno più volte manipolato, nascosto o distrutto prove per far sembrare che le loro vittime fossero aggressori armati o morti di sparatorie tra cartelli rivali».
Cosa aspettarsi per il futuro
A causa dell’aumento della domanda di droga sia in Europa che negli Stati Uniti, è impensabile che i cartelli arrestino i loro traffici. E con l’aumento della possibilità di generare nuovi profitti, cresce anche la lotta tra fazioni rivali per il controllo del mercato. Un esempio emblematico è il Chiapas, uno Stato del Messico meridionale fino a poco tempo fa considerato fra i più sicuri, ora teatro di scontri tra il cartello di Sinaloa, che lo ha dominato a lungo in solitaria, e quello CJNG, arrivato nel 2021. Si tratta di violenze che chiamano in causa anche il governo centrale. Secondo l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) l’organizzazione indigena che autogoverna ampie zone del Chiapas, le violenze dei narcos sui loro territori vengono di fatto tollerate e permesse dal governo messicano, che usa i cartelli a mo’ di forza paramilitare per sabotare l’autogoverno indigeno. Con le elezioni presidenziali del 2 giugno 2024, viste come un’opportunità per i cartelli di prendere il potere, gli episodi di violenza si sono ulteriormente intensificati. Dal 2019 al 19 maggio 2024, prima, durante e dopo i processi elettorali, il Messico ha registrato 1881 episodi di minacce, omicidi, attacchi armati, sparizioni e rapimenti ai danni di persone impiegate nella sfera politica o governativa o contro strutture governative o partiti.
Per esempio, il 16 maggio scorso, proprio nel Chiapas, degli uomini armati hanno aperto il fuoco durante una manifestazione elettorale, uccidendo sei persone. Tra queste hanno perso la vita una bambina e Lucero López Maza, candidata sindaca ventottenne del Partito popolare del Chiapas. Prima di lei, altre venticinque persone candidate per lo stesso ruolo sono state ammazzate in maniera violenta dal 23 settembre del 2023, da quando cioè è iniziata la tornata elettorale. E quasi 500 candidati hanno richiesto protezione fisica personale.
Per il Messico uscire da questo tunnel di violenza non sarà semplice e potrebbe non accadere mai del tutto. I tentativi dei precedenti governi hanno dimostrato che puntare all’eliminazione dei cartelli – per vie più o meno pacifiche – non è la strada più efficace. Questo approccio non fa altro che frammentarli, renderli più violenti e intensificare i conflitti territoriali, troppo spesso coinvolgendo i civili nel fuoco incrociato. Piuttosto, sarebbe più utile lavorare sull’interruzione dei diffusi legami tra funzionari statali e gruppi criminali, rimuovendo quel velo opaco che permette a polizia e narcos di agire impunemente, causando numerose vittime innocenti. Un approccio più promettente potrebbe prevedere la concentrazione di risorse nelle aree più violente del Paese, distribuendole in base a piani d’azione su misura, così da valutare ogni situazione specifica e intervenire sulle cause in ciascuna regione. Tuttavia, ogni possibile soluzione passerà ovviamente dalla volontà politica di fermare le violenze e il narcotraffico, fino a oggi sia i governi messicani che quelli statunitensi hanno dimostrato molte volte di non agire in questa direzione.
[di Gloria Ferrari]
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