Diciamo, grosso modo, dall’imperatrice Caterina II la Grande, conquistatrice della Crimea, al leader nazionalista Evgenyj Zhirinovskij (che nel 1993 pubblicò il libro “Balzo verso Sud”), al primo ministro Evgenyj Primakov (in carica nel 1988-1989, ma prima già ministro degli Esteri) e su su fino a Vladimir Putin. In tutta la sua storia moderna e contemporanea la Russia ha cercato di garantirsi un accesso sicuro ai mari caldi. Ed è probabile che ai mari caldi debba nel prossimo futuro una parte delle proprie fortune. Anche se non nel senso che zar e politici di vario genere avevano immaginato. Anzi: all’opposto.
Quello che sta succedendo è che crisi e difficoltà sui mari così a lungo agognati stanno rendendo fondamentali i mari da cui la Russia cercava di affrancarsi. In altre parole: le difficoltà causate dalla guerra con l’Ucraina sul Mar Nero e quelle che all’Occidente intero causa la crisi con gli Houthi nel Mar Rosso, unite al cambiamento climatico e alla riduzione dei ghiacci, stanno aprendo alla Russia le rotte del Mare Artico. Tanto che gli esperti dell’autorevole rivista americana Foreign Policy si sono spinti a immaginare che proprio sul tema dell’Artico possa ricominciare un minimo di dialogo tra Russia e Occidente.
Su quanto avviene nei due mari caldi sopra citati non occorre soffermarsi, è noto a tutti. Basterà aggiungere che il prezzo (anche assicurativo) del transito nel Mar Rosso è aumentato di 100 volte e che il costo di quel solo transito è oggi pari all’1% dell’intero costo di trasporto per una portacontainer. Risultato: il traffico è diminuito del 60%. Di conseguenza, è aumentato in misura esponenziale l’interesse per la Northern Sea Route (NSR), la via più breve per collegare la parte occidentale dell’Eurasia alla regione del’Asia-Pacifico: 13 mila chilometri, a confronto con i 21 mila chilometri della rotta che passa per il Canale di Suez.
Le obiezioni, com’è ovvio, non mancano. Molti fanno notare i seguenti fattori ostili allo sfruttamento della rotta nordica: le acque più navigabili sono quelle vicine alla costa, che sono basse, quindi bisognerebbe impiegare navi più piccole, con un aumento dei costi complessivi a parità di carico; bisognerebbe fronteggiare i ghiacci, anche quelli flottanti, e attrezzare le navi costa; per sei mesi l’anno la navigazione si svolgerebbe al buio; eventuali operazioni di soccorso sarebbero molto complicate, per non dire quasi impossibili.
E poi ovviamente c’è la politica. Prima della guerra in Ucraina sull’Artico affacciavano 7 Paesi della Nato (Usa, Canada, Danimarca, Islanda e Norvegia), 2 Paesi neutrali ma legati alla Nato (Svezia e Finlandia) e la Russia. Oggi siamo a 7 Paesi Nato (dopo l’ingresso nell’Alleanza di Svezia e Finlandia) e la Russia. Qualunque intesa è dunque impossibile.
Il problema è che la Russia, anche in questo caso, non si è lasciata scoraggiare. C’entra di nuovo la geografia. La NSR si estende dal Mare di Barent vicino al confine tra Russia e Norvegia fino allo Stretto di Bering tra Siberia e Alaska ed è al 70% controllata dalla Russia, che sul suo enorme tratto di costa ha piazzato, secondo il Washington Center for Strategic and International Studies, 3 basi principali, 13 aeroporti e 10 stazioni radar. E la base dei sottomarini della Flotta del Nord, a Gadzhievo, si trova a soli 200 chilometri dal confine con la Finlandia, diventata appunto da poco un Paese NATO. In poche parole: per percorrere quella rotta occorrerà, in pace come in guerra, il permesso della Russia. E non c’è solo la rotta: nel 2008 il Servizio geologico degli Usa aveva stimato che il 13% (circa 90 milioni di barili) delle risorse petrolifere non ancora esplorate del mondo si trovano nell’Artico, in maggior parte in Alaska e in Russia. Complicato sfruttarle, ma non impossibile. Infine: circa 4 milioni di persone vivono nell’Artico, delle quali 2 milioni sono russi e 500 mila appartengono alle popolazioni indigene.
Quanto alle difficoltà del percorso marittimo, la Russia punta molto, per affrontarle, su una caratteristica: essere l’unico Paese al mondo a disporre di una flottiglia di rompighiaccio a propulsione nucleare. In gennaio, nel cantiere Baltic di San Pietroburgo, Vladimir Putin ha presenziato alla posa della chiglia del “Leningrad”, un colosso di 170 metri di lunghezza, costruito da Rosatom (l’agenzia federale russa per l’energia atomica) capace di rompere il ghiaccio fino a una profondità di 3 metri. Sarà, al momento del varo previsto per l’anno prossimo, i terzo rompighiaccio del genere. E un quarto, ancora più grande e potente, salvo imprevisti dovrebbe vedere la luce, anzi le onde, nel 2027.
La Russia non è l’unico Paese non Nato a manifestare un forte interesse per la Rotta del Nord. E per fortuna della Russia quest’altro Paese è la Cina, ovviamente interessata allo sviluppo di una rotta alternativa a quelle tradizionali e tale da collegarle in modo diretto a una grande fornitrice di risorse energetiche. La Russia ha bisogno di denaro fresco per far crescere i propri progetti artici e dieci anni la Cina ha investito 90 miliardi di dollari in progetti nell’Artico, quasi tutti in Russia. Investimenti collegati con l’iniziativa della Nuova Via della Seta, tanto temuta in Occidente, e che continuano a crescere.
Un’ultima considerazione per finire: dal punto di vista militare, in epoca contemporanea gli Usa hanno sempre vantato un assoluto dominio dei mari. Anche nell’Artico, però, l’alleanza Russia-Cina sembra mettere in discussione il dogma. Difficile che alla Casa Bianca prima o poi non decidano di reagire.
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