Cavaliere di Monferrato. Blog di Claudio Martinotti Doria
Benvenuti nel Blog di Claudio Martinotti Doria, blogger dal 1996
"Non nobis Domine, non nobis, sed nomini Tuo da gloriam", motto dell'Ordine dei Cavalieri Templari, Pauperes commilitones Christi templique Salomonis
"Ciò che insegui ti sfugge, ciò cui sfuggi ti insegue" (aneddotica orientale, paragonabile alla nostra "chi ha pane non ha denti e chi ha denti non ha pane")
"Quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell'Occidente è che perdono la salute per fare soldi. E poi perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente in tale maniera che non riescono a vivere nè il presente nè il futuro. Sono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto." (Dalai Lama)
"A l'è mei mangè pan e siuli, putòst che vendsi a quaicadun" (Primo Doria, detto "il Principe")
"Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci." Mahatma Gandhi
L'Italia non è una nazione ma un continente in miniatura con una straordinaria biodiversità e pluralità antropologica (Claudio Martinotti Doria)
Il proprio punto di vista, spesso è una visuale parziale e sfocata di un pertugio che da su un vicolo dove girano una fiction ... Molti credono sia la realtà ed i più motivati si mettono pure ad insegnare qualche tecnica per meglio osservare dal pertugio (Claudio Martinotti Doria)
Lo scopo primario della vita è semplicemente di sperimentare l'amore in tutte le sue molteplici modalità di manifestazione e di evolverci spiritualmente come individui e collettivamente (È “l'Amor che move il sole e le altre stelle”, scriveva Dante Alighieri, "un'unica Forza unisce infiniti mondi e li rende vivi", scriveva Giordano Bruno. )
La leadership politica occidentale è talmente poco dotata intellettualmente, culturalmente e spiritualmente, priva di qualsiasi perspicacia e lungimiranza, che finirà per portarci alla rovina, ponendo fine alla nostra civiltà. Claudio Martinotti Doria
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Cliccando sullo stemma del Monferrato potrete seguire su Casale News la rubrica di Storia Locale "Patriă Montisferrati", curata da Claudio Martinotti Doria in collaborazione con Manfredi Lanza, discendente aleramico del marchesi del Vasto - Busca - Lancia, principi di Trabia
Come valorizzare il Monferrato Storico
…La Storia, così come il territorio e le sue genti che l’hanno vissuta e ne sono spesso ignoti ed anonimi protagonisti, meritano il massimo rispetto, occorre pertanto accostarsi ad essa con umiltà e desiderio di apprendere e servire. In questo caso si tratta di servire il Monferrato, come priorità rispetto a qualsiasi altra istanza (personale o di campanile), riconoscendo il valore di chi ci ha preceduti e di coloro che hanno contribuito a valorizzarlo, coinvolgendo senza preclusioni tutte le comunità insediate sul territorio del Monferrato Storico, affinché ognuna faccia la sua parte con una visione d’insieme ed un’unica coesa identità storico-culturale condivisa. Se ci si limita a piccole porzioni del Monferrato, per quanto significative, si è perdenti e dispersivi in partenza.
Sarà un percorso lungo e lento ma è l’unico percorribile se si vuole agire veramente per favorire il Monferrato Storico e proporlo con successo come un’unica entità territoriale turistico culturale ed economica …
“All’interno del comitato centrale di Mosca si stanno delineando
chiaramente due posizioni che se non sono antitetiche comunque sono
divergenti. Putin e i suoi sostengono ancora che si debba allungare più
possibile la guerra in modo da fare esplodere le contraddizioni in
America (linea che dal punto di vista politico sembra molto appropriata,
con Biden che si sta liquefacendo sorto gli occhi degli elettori
americani). Dall’altro lato i militari sono convinti che lasciare ancora
8 o 9 mesi alle potenze occidentali sia un grosso errore e serva
solamente a far sì che si attrezzino meglio per un conflitto diretto.
Quindi se vogliamo sono arrivati a una sorta di compromesso. Se dal
punto di vista del conflitto di terra la superiorità russa – che che se
ne dica – è schiacciante, il punto forte della NATO si è sempre detto
che è la strabordante superiorità dal punto di vista tecnologico della
sua aviazione.
Ecco che diventa particolarmente sorprendente la richiesta da parte
dei vertici dell’aviazione (che ancora non è una decisione solo dal
punto di vista formale) di andare a vedere quello che loro ritengono il
bluff occidentale. Cioè andare a sfidare direttamente nei cieli le
potenze occidentali e la loro aviazione.
In apparenza si tratta solo della proposta di abbattere i droni
occidentali che si avvicineranno alla Crimea volando in acqua
internazionale sul Mar Nero (e che sono quelli che “dirigono il tiro”).
Ovviamente, date le caratteristiche, è come fare tiro al piccione e
quindi la risposta obbligata della NATO è quella di scortarli. Cioè
farli accompagnare da jet da combattimento.
E altrettanto ovviamente, trattandosi di una missione di scorta
“vecchio stile”, rendendoli vulnerabili, visibili ed esposti sia alla
contraerea che alla caccia russa.
E poi quello che stanno cercando i russi per poter dare via ai duelli
aerei e vedere alla fine chi ce l’ha più duro. Quindi la strategia di
provocazione basata sul lancio di missili a lunga gittata sul territorio
della Crimea alla fine sta scalciando indietro in maniera inaspettata.
La provocazione ha funzionato, ma potrebbe dare il via ad una
provocazione più grossa, che porta dritto dritto ad una trappola. Kiryll
Budanov, capo della intelligence ucraina, avrebbe detto ai suoi alleati
che i russi hanno già Questo spiegherebbe l’improvvisa voglia di Lloyd
Austin – ieri l’altro – di parlare col nuovo ministro della difesa
russo, dopo mesi di assoluta mancanza di contatti. In gergo pokeristico
si chiama “all in”, e gli americani vorrebbero evitarlo.
Che questo sia vero,appare dal comunicato del ministro delal Difesa russo:
Il Ministro della Difesa Andrey Belousov, in relazione alla
maggiore intensità dei voli di droni strategici degli Stati Uniti sul
Mar Nero, ha incaricato lo Stato Maggiore di avanzare proposte per
adottare misure di risposta tempestiva alle provocazioni.
Il messaggio diffuso dal Ministero della Difesa russo può essere
interpretato come un avvertimento pubblico ai Paesi della NATO sulla
disponibilità di Mosca a iniziare a contrastare i droni che formalmente
operano nello spazio neutrale sul Mar Nero, ma che che effettuano
ricognizione e designazione di bersagli da trasmettere ai dispostivi
missilistici ad alta precisione, forniti alle forze armate ucraine dagli
stati occidentali, per colpire obiettivi sul territorio della
Federazione Russa.
Il Ministero della Difesa ha aggiunto che queste attività
indicano il crescente coinvolgimento degli Stati Uniti e dei Paesi della
NATO nel conflitto in Ucraina a fianco del regime di Kiev.
Il politologo Marat Bashirov spiega che i funzionari russi non
daranno mai apertamente un comando per attaccare i droni della NATO, ma è
proprio così che si può interpretare il messaggio di Belousov.
Escalation dopo escalation NATO e superamento di linee rosse USA e UE, ora vela fa la Russia.
Più di cinquemila episodi di violenza mirata contro i civili solo nel 2023:
se questi numeri riguardassero un Paese dichiaratamente in guerra,
probabilmente non ci sorprenderebbero. Tuttavia, il fatto che si
riferiscano al Messico, uno Stato formalmente democratico e senza alcun
conflitto ufficiale in corso, è sconcertante. Secondo l’ACLED, un’organizzazione non governativa specializzata nella raccolta di dati, analisi e mappatura dei conflitti nel mondo, il Messico è considerato il Paese più pericoloso al mondo per i civili.
Se si tengono conto di tutti e quattro gli indicatori valutati
dall’indice (mortalità, pericolo per i civili, diffusione geografica e
frammentazione dei gruppi armati), il Messico è su scala globale al
terzo posto, preceduto solo da Birmania, ripiombata in una guerra civile
dopo il golpe del febbraio 2021, e Siria, dilaniata da un conflitto
interno da più di tredici anni.
Ma cosa rende il Messico un Paese così pericoloso e inospitale per le persone?
Se dal 2006 al 2017 nel Paese si sono verificati quasi 235 mila
omicidi, tra il 2018 e il 2021 si sono contate altre 33 mila uccisioni e
in generale negli ultimi vent’anni hanno perso la vita circa 500 mila
persone fra civili, militari e trafficanti (senza contare rapimenti e
sparizioni), la colpa è principalmente della feroce competizione tra cartelli per il controllo del mercato illegale della droga.
Tant’è che, per molte comunità messicane, le minacce sono più elevate
di quelle presenti anche nei contesti di conflitto più violenti. La
presenza di gruppi criminali è così radicata che essi controllano vaste
aree del territorio, instaurando legami profondi con le istituzioni
locali e nazionali. L’infiltrazione del crimine organizzato negli
apparati dello Stato e nelle forze di polizia ha seriamente minato la
credibilità del Paese, alimentando una violenza crescente che è anche il
risultato della diffusa povertà e del dissenso sociale.
Come riportato da uno studio pubblicato su Science,
basato sull’analisi di circa dieci anni di dati su omicidi, persone
scomparse e incarcerazioni, nonché informazioni sulle interazioni tra
fazioni rivali, in Messico la criminalità organizzata è il quinto datore di lavoro, con un numero di persone impiegate compreso tra 160mila e 185mila e un reclutamento – molto spesso forzato – di 350-370 nuove persone ogni settimana.
Cosa sono i cartelli della droga e come sono nati
I cartelli messicani sono
organizzazioni criminali che gestiscono il traffico e la distribuzione
di cocaina, eroina, metanfetamine e altri stupefacenti, dai Paesi
produttori dell’America Latina al resto del mondo. Oltre al traffico di
droga, questi gruppi – si arriva a contarne fino a 200 di dimensioni più
o meno grandi – sono coinvolti anche in altre attività criminali come
estorsioni, sequestri di persona, rapine e traffico di migranti. La loro
radicata presenza in Messico, ormai consolidata da almeno quindici
anni, è dovuta principalmente a ragioni geografiche. Il Paese è infatti fisicamente collocato tra i principali produttori di droga dell’America Latina,
come Colombia e Perù, e uno dei più grandi mercati di consumo, gli
Stati Uniti. Questa posizione strategica, con un lungo confine condiviso
con gli USA, ha reso il Messico un punto di transito ideale per gli
stupefacenti.
I motivi dell’espansione e rilevanza
dei cartelli sono però molteplici e interconnessi. C’entrano, per
esempio, la frammentazione stessa dei grandi gruppi criminali in cellule
più piccole, l’impoverimento generale della popolazione, che spinge
molte persone a entrare nel narcotraffico per trovare sostentamento, e
la corruzione diffusa nel governo e nelle istituzioni.
Quest’ultimo aspetto, in particolare, è fondamentale per capire il
processo che ha portato il Messico a spingersi fino a questo punto.
Se in principio era la Colombia,
principale fabbricante di droga fino agli anni Ottanta, a produrre,
lavorare e confezionare le sostanze, mentre i gruppi messicani si
occupavano dell’immissione di queste ultime nel mercato statunitense,
con l’arrivo di Miguel Ángel Félix Gallardo il Messico assunse nel traffico un ruolo sempre più centrale. Con Gallardo, ex poliziotto che nel 1980 decise di dedicarsi al narcotraffico,
i principali narcos messicani, allora deboli e divisi, si unirono
infatti in grandi organizzazioni. Gallardo riuscì rapidamente a dominare
le attività illecite legate agli stupefacenti sfruttando la sua
precedente posizione, che gli permise di avere la protezione dei più
alti livelli della politica e degli apparati di sicurezza nazionali. Al
punto da riuscire indisturbato a fondare in Messico il primo grande
cartello, quello di Guadalajara, che riunì sotto un unico tetto tutti i principali narcotrafficanti del Paese. Per merito della nuova organizzazione, il Paese ottenne la piena fiducia dei grandi cartelli colombiani,
arricchendosi e acquistando prestigio. Gallardo riuscì persino a
convincere Pablo Escobar, noto criminale colombiano e uno dei più grandi
trafficanti di cocaina e marijuana della storia, a utilizzare il
Messico come rotta per vendere droga agli Stati Uniti, perché più sicura
e meno soggetta a controlli rispetto a quella caraibica.
Nel contribuire alle fortune di Gallardo meritano una menzione speciale gli Stati Uniti. Il narcotrafficante godeva infatti di ampie protezioni all’interno della CIA
per il fatto di essere un grande finanziatore dei Contras, i sanguinosi
paramilitari appoggiati dagli USA in Nicaragua per sabotare nel sangue
l’inviso governo socialista dei Sandinisti. Secondo quanto documentato,
numerose agenzie federali statunitensi, tra cui la CIA e la DEA (l’agenzia
federale antidroga), erano a conoscenza delle attività di Gallardo, ma a
questi fu inizialmente data protezione per il contributo dato ai
Contras.
Da Gallardo a El Chapo
Il legame instaurato da Félix
Gallardo tra lo Stato e il narcotraffico continuò a prosperare, fiorendo
soprattutto durante il governo del Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI),
uno dei più importanti gruppi politici messicani. Il partito permise ai
cartelli di stringere legami con una vasta rete di funzionari corrotti
fino agli anni 2000, quando, dopo 70 anni al potere, l’elezione del presidente Vicente Fox del Partito Azione Nazionale (PAN) cambiò le carte in tavola.
Da quel momento, i narcos non poterono più contare sui legami con gli
ex politici in carica, intensificando quindi la violenza e gli attacchi
contro gli apparati dello Stato.
Il piano fu però complicato da un
accadimento imprevisto: l’arresto nel 1989, con l’accusa di omicidio e
altri reati, di Félix Gallardo, che si diceva avesse organizzato nel
1985 il rapimento e l’uccisione di un agente della DEA
(le forze speciali antidroga che conducono operazioni in Messico) per
dare al Governo un segnale forte e chiaro. Se inizialmente l’ex
poliziotto riuscì a continuare a gestire i traffici illeciti anche dal
carcere, con il trasferimento negli anni ’90 in una prigione di massima
sicurezza, il flusso si interruppe. La sua assenza fece perdere al
Cartello di Guadalajara la sua iniziale compattezza e organicità e
questo finì per dissolversi in tanti piccoli gruppi in lotta tra di
loro: una rivalità che trasformò il Messico in una nazione martoriata,
oltre che dal traffico di droga, anche dalla lotta tra bande armate.
L’eredità di Gallardo non andò persa. Joaquín Archivaldo Guzmán Loera, meglio conosciuto come El Chapo,
cercò di riorganizzare in qualche modo i gruppi più influenti sotto un
nuovo unico cartello. L’uomo fu presentato a Gallardo poco prima che
finisse in carcere, dimostrandosi fin da subito molto abile nel traffico
di droga verso gli USA. Tanto da divenire, in poco tempo, il braccio
destro dell’ex poliziotto, fino a prenderne il posto dopo l’arresto. Fra i cartelli ancora oggi maggiormente riconosciuti c’è proprio quello di El Chapo, il Sinaloa.
I cartelli messicani principali
Nonostante la frammentazione dei
cartelli e l’incarcerazione di migliaia di membri (circa 6mila
all’anno), le dimensioni delle organizzazioni criminali sono in media
più grandi rispetto a 10 anni fa. Nel 2022, i cartelli messicani
contavano 60 mila membri in più rispetto al 20124 – sebbene in
quest’arco di tempo sia morto il 17% delle reclute e il 20% sia stato
imprigionato. Ma quali sono i cartelli con il maggior numero di persone
arruolate?
Cartello di Sinaloa
Prende il suo nome da uno degli Stati del Messico occidentale
in cui opera maggiormente ed è ritenuta una delle organizzazioni
dominanti nel traffico di droga nazionale – i dati dicono che ne faccia
parte un trafficante su dieci. È stata fondata da El Chapo Guzman e guidata dallo stesso almeno fino al suo ultimo arresto, avvenuto nel 2014 (era finito in carcere anche nel 1993, ma era riuscito a fuggire, con la complicità di alcuni agenti). Oggi deve contendersi la piazza soprattutto con il cartello Los Zetas. Come dimostrato dal suo fondatore, l’arma più utilizzata dai suoi membri non è la violenza ma la corruzione.
Cartello Jalisco New Generation (CJNG)
Nato nel 2010 come cellula del cartello di Sinaloa,
è uno dei più potenti e in più rapida crescita sia in Messico che negli
USA – ne fanno parte quasi due reclute su dieci. Tanto che la DEA l’ha
valutata come «una delle cinque organizzazioni criminali transnazionali più pericolose e violente al mondo».
Fondata da El Mencho, ex agente di polizia dello Stato di Jalisco, è
particolarmente nota per il numero di massacri, omicidi e scontri
violenti. Un modo di agire con cui ha aperto rotte al traffico di droga
che nessuno prima era riuscito a sfondare.
Cartello di Los Zetas
Composto inizialmente dai disertori delle forze speciali dell’esercito messicano, il cartello Los Zetas, nato nel 1999, deve il suo nome al suo primo capo: Arturo Guzmán Decena, noto alle forze dell’ordine come Z1.
Nel corso degli anni, il gruppo si è fatto notare per la brutalità
delle sue azioni, tra cui massacri di civili, decapitazioni,
pubblicazioni online delle uccisioni e dispersione di resti umani in
luoghi pubblici come avvertimento per i gruppi rivali.
Quali misure ha adottato il Messico per ridurre il dominio dei cartelli
Fino
agli anni 2000, i governi in carica hanno sempre tenuto, nei confronti
dei cartelli della droga, un atteggiamento generalmente cauto e passivo.
L’esordio della “Guerra al traffico di droga”, un approccio adottato per la prima volta nel 2006
dall’allora presidente Felipe Calderón, d’ispirazione cattolica e
conservatrice, fu invece improntato sull’intervento militare. In
quell’anno ci fu infatti un dispiegamento dell’esercito senza precedenti
– circa 45 mila soldati –
sparpagliato per le strade e incaricato di combattere direttamente i
cartelli sul suolo pubblico, soprattutto al nord e al confine con gli
USA. Questo approccio non è mai radicalmente cambiato.
Seppure negli anni l’esercito messicano (con l’intervento americano)
sia riuscito a catturare o uccidere almeno venticinque fra i più
importanti boss della droga, a detta di molti critici la violenza militare non ha fatto altro che frammentare i cartelli, dando vita a bande sì più piccole ma più violente.
Quando il nazionalista di sinistra Andrés Manuel López Obrador assunse
l’incarico, nel 2018, promise che avrebbe posto fine alla guerra al
narcotraffico optando per una strategia nuova, che avrebbe dovuto
limitare gli scontri tra polizia e trafficanti e favorire lo sviluppo
sociale delle aree più povere. La sua politica venne ribattezzata con lo
slogan «Abrazos, no balazos» (abbracci, non proiettili). Per questo motivo, Obrador istituì una guardia nazionale costituita
da circa 125 mila membri con il compito di mantenere la pace e stanziò
ingenti fondi per incentivare lo sviluppo delle aree più disagiate del
Paese – dove i narcos cercano e trovano le proprie reclute. L’obiettivo
era quello di emancipare le classi popolari dal bisogno materiale
che le spinge a divenire manodopera a basso costo per la criminalità
organizzata. Ma i risultati, per ora, non sono quelli sperati. ACLED ha
documentato che nel 2023 gli scontri tra polizia e gruppi criminali –
che evidenziano un allontanamento di Obrador dal suo precedente
approccio «abbracci, non proiettili» – sono stati almeno 872, in aumento
del 24% rispetto ai 705 registrati nel 2022. Anche i combattimenti tra
gruppi armati rivali sono aumentati in modo simile nel 2023, con 426
eventi rispetto ai 377 del 2022.
Nessun diritto, nessuna giustizia
Oltre a diventare vittime innocenti
degli scontri diretti tra cartelli rivali, che trasformano le strade
cittadine in veri e propri campi di battaglia, i civili subiscono un’ulteriore violazione del loro diritto umano alla vita.
Negli anni, Human Rights Watch, un’organizzazione statunitense che si
occupa della difesa dei diritti umani, ha infatti più volte denunciato
l’esercito e la polizia messicani per diffuse violazioni dei diritti
umani nel tentativo di combattere la criminalità organizzata,
sottolineando che nessuna di queste sia stata adeguatamente indagata. Numerosi anche i casi di insabbiamento documentati, che testimoniano la profonda connivenza tra cartelli criminali e poteri dello Stato corrotti. Scrive Human Rights Watch: «I soldati o la polizia hanno più volte manipolato, nascosto o distrutto prove per far sembrare che le loro vittime fossero aggressori armati o morti di sparatorie tra cartelli rivali».
Cosa aspettarsi per il futuro
A causa dell’aumento della domanda di
droga sia in Europa che negli Stati Uniti, è impensabile che i cartelli
arrestino i loro traffici. E con l’aumento della possibilità
di generare nuovi profitti, cresce anche la lotta tra fazioni rivali per
il controllo del mercato. Un
esempio emblematico è il Chiapas, uno Stato del Messico meridionale fino
a poco tempo fa considerato fra i più sicuri, ora teatro di scontri tra
il cartello di Sinaloa, che lo ha dominato a lungo in solitaria, e
quello CJNG, arrivato nel 2021. Si tratta di violenze che chiamano in
causa anche il governo centrale. Secondo l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN)
l’organizzazione indigena che autogoverna ampie zone del Chiapas, le
violenze dei narcos sui loro territori vengono di fatto tollerate e
permesse dal governo messicano, che usa i cartelli a mo’ di forza
paramilitare per sabotare l’autogoverno indigeno. Con le elezioni
presidenziali del 2 giugno 2024, viste come un’opportunità per i
cartelli di prendere il potere, gli episodi di violenza si sono
ulteriormente intensificati. Dal 2019 al 19 maggio 2024, prima, durante e
dopo i processi elettorali, il Messico ha registrato 1881 episodi di
minacce, omicidi, attacchi armati, sparizioni e rapimenti ai danni di
persone impiegate nella sfera politica o governativa o contro strutture
governative o partiti.
Per esempio, il 16 maggio
scorso, proprio nel Chiapas, degli uomini armati hanno aperto il fuoco
durante una manifestazione elettorale, uccidendo sei persone.
Tra queste hanno perso la vita una bambina e Lucero López Maza,
candidata sindaca ventottenne del Partito popolare del Chiapas. Prima di
lei, altre venticinque persone candidate per lo stesso ruolo sono state
ammazzate in maniera violenta dal 23 settembre del 2023, da quando cioè
è iniziata la tornata elettorale. E quasi 500 candidati hanno richiesto protezione fisica personale.
Per il Messico uscire da questo
tunnel di violenza non sarà semplice e potrebbe non accadere mai del
tutto. I tentativi dei precedenti governi hanno dimostrato che puntare
all’eliminazione dei cartelli – per vie più o meno pacifiche – non è la
strada più efficace. Questo approccio non fa altro che frammentarli,
renderli più violenti e intensificare i conflitti territoriali, troppo
spesso coinvolgendo i civili nel fuoco incrociato. Piuttosto, sarebbe più utile lavorare sull’interruzione dei diffusi legami tra funzionari statali e gruppi criminali,
rimuovendo quel velo opaco che permette a polizia e narcos di agire
impunemente, causando numerose vittime innocenti. Un approccio più
promettente potrebbe prevedere la concentrazione di risorse nelle aree più violente del Paese,
distribuendole in base a piani d’azione su misura, così da valutare
ogni situazione specifica e intervenire sulle cause in ciascuna regione.
Tuttavia, ogni possibile soluzione passerà ovviamente dalla volontà
politica di fermare le violenze e il narcotraffico, fino a oggi sia i governi messicani che quelli statunitensi hanno dimostrato molte volte di non agire in questa direzione.
Il
candidato del Partito Democratico USA, Joe Biden, ha ricevuto il “de
profundis” con la sua penosa performance nel dibattito televisivo dei
due candidati Trump e Biden di due giorni fa. Dopo
solo pochi minuti dall’inizio del tanto atteso dibattito di giovedì
sera, tutti gli spettatori hanno potuto vedere in quali condizioni sia
Joe Biden e quale sia lo stato attuale della sua capacità cognitiva. I due giornalisti della CNN, Jake Tapper e Dana Bash, hanno fatto da testimoni al crollo sacrificale del candidato unico del partito Democratico e del fronte liberal globalista occidentale.
Davanti
agli spettatori di tutto il mondo la finzione, trascinata da molto
tempo dai media dell’establishment, è stata miseramente svelata, Biden è
affetto da incapacità cognitiva e non è in grado di decidere alcunché.
Le sue gaffe, le frasi sconnesse ed il suo farfugliare lo hanno
rivelato in modo evidente. Questo episodio solleva molte
domande irrisolte e sospetti reali sul ruolo svolto dalla CIA e dallo
Stato profondo (Deep State) nel mantenere in piedi un fantoccio di
presidente incapace e indurlo anche alla nomination presidenziale.
Sembra
impossibile che i tanti funzionari della Casa Bianca e del Pentagono
non fossero a conoscenza delle reali condizioni di Biden e bisogna
capire perché hanno taciuto e a chi faceva comodo mantenere in vita un fantoccio di presidente incapace. Peggio ancora indagare su quali siano le centrali di potere occulte che guidano la politica statunitense e occidentale.
La
verità appare nuda e terribile: la finzione è stata quella di
nascondere il vero potere di pressione e di ricatto che le oligarchie
occulte esercitano sui gangli dello Stato, sulle cariche formali
elettive che apparentemente prendono le decisioni. Tutti i
media e le principali fonti di informazione hanno lavorato in collusione
con queste oligarchie per ingannare il pubblico, i normali cittadini
che prestano fede alle bufale diffuse dalla grande stampa e dalle Tv. Questo di fatto è un colpo di stato nascosto che è in atto già da molto tempo ma i creduloni non se ne erano accorti, quelli ignorano quali siano i veri gangli del potere. Quella americana si potrebbe definire, piuttosto che una falsa democrazia,
una “stratocrazia”, ovvero un sistema che nasconde i vari strati o
livelli delle lobby di potere, essenzialmente quella del Deep State,
quella del potere Finanziario (Fed e grandi Banche), quella della lobby
israeliana, quella dell’apparato militare industriale.
Se
qualcuno tra i giudici negli USA avrà il coraggio di mettersi contro
queste lobby e indagare, allora ne scoprirai delle belle, a partire
dalla corruzione della famiglia Biden, sempre coperta dai media
compiacenti e dai politici del Partito Democratico, tra cui si
distinguono le dinastie degli Obama, della Clinton, dei senatori ultras
guerrafondai come Lindsey Graham e i personaggi come George Soros e gli
altri del codazzo dei miliardari complici. Ci sono reati da sedia
elettrica o da ergastolo, come alto tradimento, omicidio e violazione
della Costituzione che potrebbero portare alla sbarra la classe politica
attuale del Partito Democratico. Difficile che questo possa accadere, chi dovesse denunciare rischia grosso ed esiste un esteso giro di complicità.
Al momento quello che rischia di essere eliminato in modo soft è Joe Biden, in
quanto divenuto personaggio scomodo. Ci sono tanti modi di farlo con
gli sperimentati metodi della CIA e successivamente, dopo un solenne
funerale, ci sarà il sostituto che sarà inevitabilmente un “uomo di
paglia”. I responsabili della truffa Biden sono ora
presumibilmente impegnati nella ricerca del sostituto; quando lo avranno
trovato, presumo che si ingegneranno per eliminare Biden, facendo
sembrare quella una fine naturale. Questa potrebbe essere la fase conclusiva della “finzione Biden”.
“Dobbiamo vincere questa guerra”: le élite russe hanno iniziato a prepararsi per la guerra con la NATO, scrive Foreign Affairs.
Sconvolti
in precedenza dallo scoppio della guerra, iniziarono a sostenerla.
Soprattutto perché credono che la Russia stia vincendo, scrive il
giornalista M. Zygar* in un insolito articolo di propaganda.
Secondo
uno degli oligarchi russi, in Russia tutto è cambiato: l’atteggiamento
nei confronti di Putin, dell’Ucraina, dell’Occidente.
“Dobbiamo vincere questa guerra. Altrimenti non ci sarà permesso di vivere.
È brutto essere un emarginato come vincitore, ma è ancora peggio essere
un emarginato come perdente. Dobbiamo vincere questa guerra. Altrimenti
non ci lasceranno vivere. E la Russia, ovviamente, potrebbe crollare”,
ha detto in forma anonima un esponente dell’oligarchia russa.
Nell’ambiente
burocratico ed economico si discute se la conquista di Kharkov o di
Kiev sarà una vittoria. Molti a Mosca credono che una seconda offensiva
dalla Bielorussia sulla capitale ucraina avrà più successo rispetto a
quella del 2022, dal momento che l’esercito russo è ora più numeroso,
meglio addestrato ed equipaggiato, e gli ucraini sono troppo stanchi per
organizzare una difesa efficace.
Ma
i successi sul campo di battaglia potrebbero non essere sufficienti a
soddisfare Putin, dal momento che egli vede il fronte ucraino solo come
una direzione in un conflitto su vasta scala con l’Occidente,
sostiene l’articolo. Per sconfiggere i suoi veri nemici a Washington e
Bruxelles, Putin potrebbe sentire il bisogno di attaccare uno dei membri
della NATO.
Secondo l’élite russa, l’obiettivo più probabile
sarebbero l’Estonia o la Lettonia. Per fare ciò, in primo luogo la
minoranza russa nei Paesi Baltici può chiedere “aiuto” a Mosca a causa
della “oppressione”. Le truppe russe potrebbero quindi attraversare
il confine e potrebbero prendere il controllo delle aree nell’est di
entrambi i paesi, come la Narva estone, prevalentemente di lingua russa.
Prendendo la città, Putin metterà alla prova se la NATO è davvero
pronta a rischiare una terza guerra mondiale.
In
passato, le élite russe non erano disposte a rischiare un conflitto
nucleare. Ma ora molti di loro sono convinti che la NATO non oserà
rispondere perché credono che l’Occidente sia stanco e diviso.
Si
parla della possibilità di uno scenario del genere anche prima delle
elezioni americane per minare le possibilità di Biden di essere
rieletto.
Allo stesso tempo, molte élite russe pensano che Putin non si fermerà anche se Trump vincesse.
“Il
pensiero di una guerra senza fine in Ucraina spaventa l’élite russa,
che spera ancora che la guerra finisca. Sognano di tornare il prima
possibile in tempo di pace al 23 febbraio 2022. Ma per ora tacciono. Non
vedono una via d’uscita”, riassume l’articolo della rivista USA.
A un certo punto del raccapricciante faccia a faccia
dell’altra notte, si è avuta la netta sensazione che, se Trump avesse
chiesto a bruciapelo a Biden “come ti chiami?”, il Capo del Mondo Libero
non avrebbe saputo rispondere. Ma, per tutti i 90 minuti del derby fra
il mascalzone esagitato e il mascalzone rintronato, le domande che
galleggiavano sul capoccione phonato del primo e su quello incollato del
secondo erano altre. Come ha potuto la Culla della Democrazia ridursi a
una scelta tanto imbarazzante? Chi sta guidando davvero gli Usa e
l’Occidente verso la terza guerra mondiale? Per quanto tempo ancora i
dem americani e i commentatori internazionali al seguito pensavano di
poter negare ciò che il mondo intero vede a occhio nudo da anni sullo
stato pietoso in cui versa il “commander in chief”? Solo pochi giorni fa
Repubblica spacciava una doverosa inchiesta del WSJ sulla salute
mentale di Biden per un “attacco dei repubblicani”. E Domani spiegava
che il presidente Usa sta una favola, ma i “trucchi” e le “fake news a
basso costo” della “campagna di Trump vogliono farlo apparire confuso,
lavorando su inquadrature e tagli per trasmettere un’idea falsata”.
Certo, come no. Poi l’altra sera, come nella fiaba del re nudo ma
senza bisogno del bambino, tutto il pianeta ha visto Rimbambiden al
naturale: saltava di palo in frasca, biascicava frasi incomprensibili
(poveri interpreti), infilava il prezzo dell’insulina nella risposta
sull’Ucraina e i chip coreani in quella sull’età, vantava come un
trionfo l’invereconda fuga da Kabul, ripeteva che Putin vuole invadere
la Polonia e poi l’intera Europa, cose così. E non di fronte a un
campione di dialettica, ma a un odioso e rozzo bullaccio che ficca i
migranti e i veterani dappertutto, spara (anche lui) cifre a casaccio e
mente (anche lui) a ogni respiro. Al confronto, il peggior politico
italiano pare Churchill. Biden s’è distrutto da solo, con scene pietose
che ricordano il tramonto dell’altro impero, quello sovietico,
plasticamente incarnato dal corpo mummificato e surgelato di Breznev
issato sulla balconata del Cremlino per mostrarsi ancora vivo con
meccanici scatti del braccio. Eppure, fino all’altroieri, chi osava dire
che l’Occidente è in mano a un rinco era un nemico della democrazia e
un servo di Trump, oltreché di Putin. E i nemici delle “post-verità”
trumpiane accreditavano quella bideniana per “non fare il gioco” di The
Donald, senza accorgersi di lavorare proprio per lui. Perché, a quattro
mesi dal voto, è difficile cambiare cavallo in corsa. E perché la
reputazione della “democrazia” americana, diretta per finta da
Rimbambiden e per davvero da una cricca di fantasmi mai eletti che gli
fan dire e fare ciò che vogliono, è irrimediabilmente compromessa.
Fallisce
il golpe in Bolivia. E rimarrà nella storia boliviana, e non solo, il
faccia a faccia tra il presidente Luis Arce e il generale José Zuñiga,
il front runner dei golpisti che ha preso d’assalto il palazzo del
potere. Non era affatto un golpe da operetta, come denota la rete dei
golpisti pubblicata da Los Tiempos. Semplicemente qualcosa è andato storto e a Zuñiga l’hanno lasciato solo, come si dice in gergo.
Sempre da Los Tiempos: “Arce non ha escluso la possibilità che dietro
il fallito colpo di stato in Bolivia ci siano interessi esterni, come
quanto avvenuto nel novembre 2019, aggiungendo che la chiave è la
questione del litio”.
Il golpe del 2019 e il litio boliviano
Ci permettiamo un flashback per capire l’istruttiva allusione.
Durante lo spoglio delle schede elettorali del 2019, voto che doveva
rinnovare il Parlamento e dare un nuovo presidente al Paese,
l’Organizzazione degli Stati americani (OAS), che monitorava lo
scrutinio, denunciò brogli a favore dell’ex presidente Evo Morales, con
successivi disordini e pressioni da parte dei militari su di lui perché
si dimettesse per evitare un bagno di sangue. Cosa che questi fu
costretto a fare.
Secondo il Los Angeles Times,
fu Carlos Trujillo, ambasciatore statunitense presso l’OAS, a
sollecitare “il team dell’organizzazione che monitorava le elezioni a
denunciare frodi diffuse e spinto l’amministrazione Trump a sostenere la
cacciata di Morales”, più che inviso agli Usa per le sue posizioni
socialiste.
L’America negò ogni coinvolgimento, ma il non riconoscimento
della validità delle elezioni da parte di Washington e le pubbliche
dichiarazioni di giubilo di tanta della sua leadership per
l’estromissione di Morales dal potere restano inequivocabili.
Peraltro, a parlare di golpe fu lo stesso New York Times
dopo qualche mese, pubblicando, a corredo della sua denuncia, uno
studio di alcuni ricercatori Usa che dimostrarono come le accuse di
frode contro il partito di Morales fossero infondate.
Il golpe fu poi portato a compimento attraverso l’autoproclamazione a
presidente di Jeanine Áñez, a nome e per conto degli oppositori di
Morales, un po’ come tentò di fare Juan Guaidò in Venezuela (stessa
regia).
La Áñez dichiarò che avrebbe portato il Paese a nuove elezioni entro
90 giorni, cosa che non fece, instaurando invece un regime di
repressione che terminò con le elezioni del 2020, nelle quali vinse Luis
Arce, candidato del Mas (movimento per il socialismo) in alternativa a
Morales, al quale fu impedito di candidarsi.
Quanto al litio, anche allora si disse che la causa del golpe fosse
proprio tale minerale, di cui la Bolivia è ricchissima tanto da avere il
primato dei depositi globali,
dai quali c’è ancora tanto da attingere perché sfruttati relativamente.
Peraltro, per lo sfruttamento delle saline di litio il governo ha
recentemente fatto accordi con russi e cinesi.
A peggiorare i rapporti tra La Paz e Washington anche la visita di
Stato di Arce in Russia del 6 giugno scorso, durante la quale ha
incontrato Putin al quale ha chiesto di investire nel suo Paese per
favorirne lo sviluppo (CNN).
Il finto golpe che invece è vero
Quanto alle accuse che il golpe fosse gestito dallo stesso Arce, che
si stanno diffondendo sui media (anche per le accuse in tal senso di
Zuñiga), si tratta di un meccanismo alquanto stantio di certi apparati.
Per fare un esempio recente, tale tecnica fu usata anche dopo il
fallimento del golpe in Turchia del 2016, che i media ascrissero allo stesso Erdogan. Invece, il golpe era vero, eccome.
Tale tecnica serve a offuscare l’immagine del potente di turno
scampato al golpe, nella speranza di fiaccarlo, e per seminare
destabilizzazione, ma anche per distogliere l’attenzione dei media e
dell’opinione pubblica dai veri artefici.
Nel caso boliviano si è anche tentato di mettere l’uno contro l’altro
Arce e Morales, dilatando al parossismo la dialettica che si è
instaurata tra i due, che pure militano nello stesso partito.
Addirittura c’è chi ha affermato che il golpe sia stato orchestrato
contro Morales, mentre altri, per ribaltamento, hanno dichiarato che
dietro i militari ci fosse Morales. A chiudere questa stramba diatriba
ci ha pensato lo stesso Arce, il quale ha rivelato di aver telefonato a
Morales per avvertirlo del golpe e per dirgli di prendere le dovute
precauzioni perché dopo aver abbattuto il presidente si sarebbero
accaniti anche contro il suo predecessore (La Razon).
Al di là del particolare, a quanto pare siamo di fonte all’ennesimo
golpe fallito da parte degli apparati statunitensi, che da un po’ di
tempo a questa parte appaiono alquanto arrugginiti sul tema. Non sono
più i bei tempi di una volta, quelli delle Repubbliche delle banane e
dei dittatori africani messi su a comando (su quest’ultimo punto vedasi The Intercept:
“Dopo aver addestrato i leader che hanno realizzato colpi di Stato in
Africa, il Pentagono accusa la Russia di aver orchestrato i colpi di
Stato africani”).
Piccolo particolare simbolico, che ha la sua importanza se si tiene
conto di quanto certi ambiti considerino importante la simbologia: il 26
giugno, giorno del golpe, era l’anniversario della nascita di Salvador
Allende, la cui destituzione-uccisione tramite colpo di Stato, avvenuta
l’11 settembre del 1973, inaugurò la stagione del Terrore delle dittature sudamericane.
Due giorni fa, la notizia che Macron “promette 100 euro a ciascun francese che vota il suo partito
Adesso un fatto, segnalato da media mainstream, da codice penale:
Ignoti
“vengono a casa degli anziani” o nelle case di riposo (segnalano
molte infermiere) per farsi compilare le deleghe, grazie alle quali
“qualcuno” voterà al posto loro
Queste deleghe sono ormai “totalmente dematerializzate” contro di
esse c’è stato ricorso davanti al Consiglio Costituzionale! Ben oltre 2
milioni di deleghe, un record: questo farà la differenza.
Il punto è che, nell’indire elezioni all’Assemblea, Le Kul era
convinto che comunque, il suo partito avrebbe preso il 20 per cento, e
avrebbe fatto da arbitro fra RN e Frronte Popolare. dai sondaggi pare
che sia sotto l’8. Macron ha sottovalutato completamente la revulsione
generale che ha suscitato il suo governo e più ancora, la sua persona.
“E’ “l’ordine basata su regole” che viene scoperto a violare le
regole; è la “democrazia” che distingue l’Occidente dalle “autocrazie”
come la Russia. Il ricordo a questi sistemi (Macron non conosceva il
metodo Achille Lauro, l’armatore napoletano che regalava un paio di
scarpe, una prima ed una dopo il voto: sarebbe stato più efficace) è
segno di un profondo disfacimento del Sistema, analogo a quello che
vediamo negli USA, dove il Deep State voleva eliminare Biden, ma il
decrepito o invece non rinuncia, vuole continuare la campagna… e i
milioni per la corsa elettorale ( costosissima in USA) li ha raccolti
lui, non li cede certo
Quanto ai metodi “democratici” usati dai caporioni UE per
auto-confermarsi anche questi un segno di crisi: non fingono più di dare
lezioni di morale, arraffano il potere perché non sonno più certi che
durerà.
Lo scorso 18 giugno un attacco ucraino condotto con i droni in
territorio russo ha in buona parte distrutto gli impianti di
“Azovprodukt” : l'azienda è attiva dal 2010 sulle sponde del Don -
presso la località di Azov, regione di Rostov - si occupa di stoccaggio e
trasporto intermodale di carburante e prodotti chimici: “Azovprodukt” è
parte del gruppo italiano Decal, con sede a Soresina (Cremona).
Almeno due serbatoi da 5000 metri cubi sono stati distrutti: l'attacco non ha prodotto vittime.
Dal 24 febbraio 2022 i depositi di carburante e prodotti chimici sono
diventati uno dei principali obiettivi sia per le forze ucraine che per
quelle russe.
Secondo il governatore della regione di Rostov sul Don Vasilij
Golubev nelle operazioni di spegnimento sono stati coinvolti circa 200
vigili del fuoco ed è stato fatto arrivare sul posto anche un treno
speciale antincendio. La vicenda, riportata dall'agenzia russa Interfax,
è stata informalmente confermata a chi scrive da una dipendente del
gruppo alla condizione di restare anonima: alla richiesta di rilasciare
dichiarazioni sull'accaduto sia gli uffici russi di “Azovprodukt” che
gli uffici italiani del gruppo non hanno risposto.
Considerando le attività di ricognizione e di raccolta preliminare di
informazioni necessarie per condurre un attacco di questo genere è
altamente improbabile che le forze ucraine non fossero al corrente della
proprietà dell'azienda che sarebbe stata attaccata. Ciò porta ad
avvalorare l'ipotesi di un attacco pienamente consapevole. Se questa
ipotesi trovasse conferma, si tratterebbe di un precedente molto
significativo, trattandosi di un attacco deliberato contro una delle
migliaia di aziende straniere rimaste attive nella Federazione russa
dopo il 24 febbraio 2022: le implicazioni di questo precedente
rischiano, soprattutto in mancanza di provvedimenti adeguati, di mettere
a repentaglio gli interessi economici e la sicurezza dei cittadini
italiani e degli altri paesi dell'Unione Europea.
*Post Telegram del 29 giugno https://t.me/mauriziovezzosi
Il
Ministro della Difesa russo Andrey Belousov ha ordinato al comando
militare di presentare piani su come “reagire alle provocazioni”
riguardanti il crescente coinvolgimento della NATO nel conflitto in
Ucraina, ha detto il Ministero della Difesa il 28 giugno.
Il
ministero ha notato in una dichiarazione una recente “maggiore
intensità di presenza” di droni statunitensi sul Mar Nero, affermando
che “questi conducono intelligence e mirano alle armi di precisione
fornite all’esercito ucraino dai paesi occidentali per attacchi contro
strutture russe”.
“Questi voli aumentano la
probabilità che possano verificarsi incidenti nello spazio aereo che
coinvolgano aerei militari russi e il rischio di uno scontro diretto
dell’alleanza con la Federazione Russa”, ha avvertito il ministero.
I
membri della NATO saranno ritenuti responsabili in caso di incidenti
del genere, ha aggiunto il ministero, senza tuttavia specificare come
potrebbe reagire l’esercito russo.
La
scorsa settimana, la Russia ha accusato gli Stati Uniti di condividere
la responsabilità con Kiev per un attacco mortale su una spiaggia nella
città portuale di Sebastopoli, in Crimea.
Attacchi in Crimea coadiuvati dai droni USA che sorvolano il Mar Nero
L’attacco,
effettuato utilizzando missili balistici tattici MGM-140 ATACMS forniti
dagli americani, è costato la vita a quattro civili, tra cui due
bambini, e ha lasciato più di 150 feriti.
La
colpa era degli Stati Uniti, che avevano aiutato le forze di Kiev a
dispiegare le armi, affermò all’epoca il Ministero della Difesa russo,
sostenendo che gli specialisti militari americani erano direttamente
coinvolti nella programmazione dei missili prima che venissero lanciati
sulla penisola di Crimea.
Tuttavia, Washington ha preso le
distanze dall’attacco, sostenendo che le forze di Kiev avevano deciso
unilateralmente cosa fare con le armi fornite dall’Occidente.
La
risposta degli Stati Uniti non ha soddisfatto la Russia. Il 27 giugno,
il viceministro degli Esteri Sergej Ryabkov ha dichiarato che Mosca
stava adottando misure di ritorsione in relazione al coinvolgimento di
Washington nell’attacco missilistico mortale su Sebastopoli.
“La
tragedia avvenuta a Sebastopoli certamente non rimarrà e non sarà priva
della nostra risposta. La natura di questa risposta è una questione
sulla quale non sono affatto autorizzato a discutere.
Penso
che l’idea di certi scenari inammissibili sia anche nella mente di
molti in Occidente. Dovrebbero sentire i rischi estremi associati a tali
azioni”, ha detto il diplomatico durante una trasmissione televisiva
Rossiya-1, secondo l’agenzia di stampa TASS.
Commentando
la probabilità che la parte russa utilizzi armi nucleari tattiche in
risposta all’attacco, Ryabkov ha sottolineato che “il presidente russo,
in quanto comandante supremo in capo, prende decisioni così fatali”.
“Gli
scenari in cui ciò è ammissibile sono descritti in dettaglio e con
precisione nei documenti di base. Tutto è correlato alla situazione
attuale”, ha sottolineato l’alto diplomatico russo.
Tutto
sommato, l’attacco ucraino a Sebastopoli, autorizzato dagli Stati Uniti,
non sarà apparentemente privo di una seria risposta russa.
A
quanto pare, la Russia sta cercando una risposta che non solo
scoraggerebbe Kiev e i suoi sostenitori, ma impedirebbe anche la
ripetizione della tragedia. Un modo per farlo sarebbe quello di
abbattere i droni della NATO che spiano la Crimea sul Mar Nero.
Nota:
I droni USA che sorvolano la Crimea solitamente partono dalla base
statunitense di Sigonella (Catania). Questo coinvolge anche l’Italia nel
pericoloso gioco di provocazioni e di attacco alla popolazione civile
russa che gli statunitensi stanno conducendo.
Il sistema è un tritacarne, dove non solo si può morire fisicamente, ma soprattutto spiritualmente e psicologicamente…
Per essere competitivi nella giungla del “libero” mercato bisogna
sfruttare, spremere e poi buttare persone, per poi sostituirle con
altre.
Sopra al “caporale” che schiavizza c’è tutto un sistema che
ha come vetrina gli scaffali luccicanti dei supermercati, dove i
prodotti, agricoli e non, vengono proposti a prezzi quasi decuplicati
rispetto a quello riconosciuto ai produttori.
È il Capitalismo, quello che si poggia sull’illusione che
ogni individuo possa diventare ricco, sul benessere di una stretta
cerchia di ricconi e abbienti fatta di banchieri, finanzieri, speculatori, imprenditori e via via fino ad arrivare alle masse
di impiegati, operai e agricoltori che si ritrovano a sopravvivere a
stento in un sistema che è un tritacarne, dove non solo si può morire
fisicamente, ma soprattutto spiritualmente e psicologicamente, inducendo tutti a rincorrere la sopravvivenza tra bollette, spesa e tasse varie senza nemmeno realizzarsi.
Il tutto con la collaborazione di amministratori che nemmeno più si
possono definire politici che non solo mantengono lo status quo, ma
fanno peggiorare sempre di più le cose.
Ecco perché sostituire ora Biden è molto complicato. E arriva il soccorso di Obama
Obama:
“brutte serate capitano”. L’ora del risveglio tra i Dem, disastro anche
di media e fact-checker che hanno negato fino all’ultimo. Ma chi
comanda alla Casa Bianca? C’è tempo per cambiare cavallo?
Non è stato il disastro solo di Joe Biden. Come ha scritto il nostro Luca Bocci nella sua analisi a caldo del primo dibattito tv
tra i due sfidanti nella corsa alla Casa Bianca, “i veri perdenti sono
quei media che avevano per mesi provato a far passare la bufala di un
Biden in perfetta salute, ancora lucido e perfettamente in forma”. I 90
minuti del duello trasmesso dalla CNN “hanno messo l’intero pianeta di fronte a quello che veniva negato con rabbia dai media mainstream“.
A chi si azzardava a sollevare dubbi o ironizzare sullo stato
cognitivo del presidente, o a ritwittare e commentare i video delle sue
amnesie, i nostri fact-checker e debunker di professione rispondevano con sarcasmo (tipo “hai forse una laurea in medicina?”), o con le immancabili accuse di disinformazione (video manipolati) e teorie ancora più bislacche (qualcuno ha parlato anche di balbuzie).
Le abbiamo sentite letteralmente di tutti i colori in questi anni e
ancora fino a qualche ora fa. L’avanzato stato di declino cognitivo di
Biden è ora innegabile. D’altra parte, qualche mese fa era stato persino
certificato dal procuratore speciale Robert Hur, nominato dall’Attorney General Merrick Garland,
che spiegando nel suo rapporto come mai avesse deciso di non
incriminare il presidente per i documenti classificati custoditi
illegalmente nelle sue abitazioni e uffici aveva parlato di “uomo anziano con scarsa memoria“.
Nemmeno l’uso del privilegio esecutivo per bloccare la pubblicazione dell’audio dell’interrogatorio di Biden era bastato a indurre Democratici e media progressisti a riconoscere la realtà.
L’ora del risveglio
Ma dopo il dibattito dell’altra notte è l’ora del (tardivo) risveglio. Ieri la pagina dei commenti del New York Times era unanime nel chiedere un passo indietro di Biden. Così come uno dei commentatori di punta progressisti, Nicholas Kristof:
“Vorrei che Biden riflettesse sulla performance di questo dibattito e
annunciasse la sua decisione di ritirarsi dalla corsa, lanciando alla convention la scelta del candidato democratico”. E come il sondaggista Dave Wasserman:
“Questo dibattito rende abbondantemente chiara l’insistenza di Biden
nel candidarsi per un altro mandato… ha gravemente messo a repentaglio
le prospettive dei Democratici di sconfiggere Trump”.
La pensa così anche un altro guru dei numeri elettorali, il noto Nate Silver, che sul suo Bullettin ha pubblicato un commento dal titolo “Joe Biden dovrebbe ritirarsi”, in cui osserva che negare il suo declino ha messo i Democratici in una “posizione terribile”.
“Biden è l’ombra di se stesso. Questa è la cosa più ovvia al mondo – ed era ovvia prima di stasera“,
scrive Silver, ricordando che la prima volta che aveva scritto delle
sue preoccupazioni, ammettendo di non essere certo stato tra i primi, è
stato lo scorso settembre. Era già chiaro allora che “la stragrande
maggioranza degli elettori pensava che Biden fosse troppo vecchio per
essere presidente. E avevano dannatamente ragione. Un presidente di 86
anni è una proposta ridicola e insostenibile. Pochi
leader mondiali si avvicinano a quell’età, tranne che nei Paesi
autoritari – e nessuno di loro è il presidente americano, il lavoro più
difficile del mondo”.
Nate Silver se la prende con tutti quelli che hanno negato
– nello staff, nel partito, nei media – facendo muro sui problemi di
Biden fino a ieri. “Se sei un Democratico, dovresti essere arrabbiato
con queste persone per averti messo in questa situazione”. E,
aggiungiamo noi, non solo per aver compromesso la vittoria elettorale,
ma anche per aver minato la credibilità della Casa Bianca e indebolito l’America nel mondo.
Chi comanda alla Casa Bianca?
E qui arriviamo a questioni ben più importanti di chi si sia
aggiudicato il primo duello tv. Se Biden è quello dell’altra sera, chi
ha governato l’America in questi anni? Chi comanda alla Casa Bianca? Chi
prende le decisioni più importanti? Chi prepara i vertici
internazionali? A proposito di “pericolo per la democrazia“,
non può essere certo liquidato come complottismo il sospetto che altri
abbiano manovrato dietro le quinte senza alcuna legittimità e accountability. Una questione che avrebbe dovuto essere in cima alle preoccupazioni dei media e degli osservatori.
La leva d’emergenza
Resta un altro interrogativo a cui provare a dare una risposta, posto ieri anche da Luigi Curini su X: perché organizzare un dibattito presidenziale così presto,
così tanti mesi prima delle elezioni? Un altro record: mai infatti si
era tenuto un duello tv con così tanto anticipo, ha osservato Luca
Bocci, addirittura prima delle convention di investitura.
Forse, azzardiamo un’ipotesi, un estremo tentativo di aprire gli occhi
del mondo Dem – partito e media – e indurre il presidente ad un passo
indietro in tempo utile per incoronare un altro candidato.
Lo scrive anche Nate Silver nel suo articolo: “l’unica salvezza nel tenere il dibattito così presto era che avrebbe dato ai Democratici la possibilità di tirare la leva di emergenza
e sollecitare Biden a dimettersi prima della convention se fosse andata
davvero male. Bene, le leve di emergenza esistono per un motivo. È
andata peggio di quanto avessi mai immaginato e mi aspettavo che andasse
male. È tempo che Biden consideri cosa è meglio per il suo partito, per
il Paese e per la sua eredità – e non è cercare la presidenza fino agli
86 anni”. Silver quindi annuncia che non vivendo in uno stato in
bilico, voterà per un terzo partito se Biden resterà in corsa, “come
protesta contro l’irresponsabilità di Biden nel cercare un secondo
mandato e l’irresponsabilità del Partito Democratico nel nominarlo senza
una seria competizione primaria”.
C’è ancora tempo per sostituirlo?
Ma realisticamente, c’è ancora tempo per cambiare candidato? I problemi sono almeno due. Primo: a meno di non ricorrere a nomi noti, ma divisivi all’interno del partito e nel Paese, come Hillary Clinton, o la vicepresidente Kamala Harris, impopolare più o meno quanto Biden, o a Michelle Obama, che però al momento non pare disponibile, non c’è tempo sufficiente per “costruire” un nuovo candidato e farlo conoscere.
Secondo: molto difficile rimuovere Biden come candidato e
tenerlo come presidente. La non ricandidatura del presidente uscente non
sarebbe dovuta alla conclusione di un secondo mandato o ad una scelta
personale, ma a motivi di età e di salute, al suo declino cognitivo. Non
sarebbe, insomma, come Lyndon Johnson nel 1968. Ammettere che Biden non è in grado di correre per la rielezione significa ammettere che non è in grado nemmeno di concludere il suo mandato – e restano ben sei mesi.
Significherebbe azzoppare la presidenza, dare all’esterno l’immagine di un vuoto di potere
di cui potrebbero approfittare i nemici dell’America. A meno che Biden
non si limitasse a ritirarsi dalla corsa, ma si dimettesse anche dalla
presidenza, lanciando però la sua vice Kamala Harris, che almeno mezzo partito non vuole.
Le ipotesi Newsom/Harris
Il nome che molti evocano è quello di Gavin Newsom, il fotogenico e mascellare governatore della progressista California.
Le voci secondo cui avrebbe potuto sostituire il presidente in caso
di peggioramento delle sue condizioni e di ritiro si rincorrono da
almeno un anno. Interrogato sul dibattito, ha risposto stizzito: “Non
volti le spalle a causa di una performance. Che razza di partito
sarebbe?” Parlando con i giornalisti nella “spin room” post-dibattito, Newsom ha sostenuto che il suo partito “non potrebbe essere più unito dietro Biden” e che il presidente non dovrebbe farsi da parte.
Ma la narrazione era già cambiata. Il mondo Dem, partito e media, è entrato in modalità panico e ormai come abbiamo visto discute apertamente la sostituzione di Biden.
In queste ore vengono ripassate le regole del partito, che pare non lo
permettano senza il consenso del candidato. Ma come dicevamo, cambiare
cavallo in corsa a quattro mesi dal voto (anche meno perché in alcuni
stati si inizia a votare settimane prima) è molto complicato. Non esiste
un percorso spianato per la sostituzione, anche se il partito fosse
unito su un nome alternativo. E difficilmente potrebbe esserlo.
Come detto, Kamala Harris è impopolare almeno quanto
Biden. E mettere da parte una vicepresidente donna, afroamericana e
asiatica, per un uomo bianco, privilegiato e dello stesso stato come
Newsom non è una passeggiata in un partito ormai intriso di ideologia woke.
Né trascurabile la rivalità tra i due che rischierebbe di trasformare
la convention in un tutti contro tutti. Insomma, i Democratici
dovrebbero trovare un modo per sbarazzarsi di Biden come candidato, ma tenerlo come presidente e impedire che a sostituirlo sia la vicepresidente Harris. Piuttosto complicato.
Il soccorso di Obama
Torniamo quindi a Michelle Obama, che però finora si
è negata snobbando la politica di partito. E ieri sera in soccorso
della candidatura di Biden è arrivato il post dell’ex presidente Barack Obama: “Brutte serate di dibattito capitano.
Ma queste elezioni rappresentano ancora una scelta tra qualcuno che ha
combattuto per la gente comune per tutta la vita e qualcuno che si
preoccupa solo di se stesso. Tra qualcuno che dice la verità (…) e
qualcuno che mente apertamente a proprio vantaggio. La notte scorsa non
ha cambiato la situazione, ed è per questo che la posta in gioco è così
alta a novembre”.
Ma è certo che il dibattito di ieri rappresenta un game changer e a questo punto nulla si può escludere. Nemmeno il gesto di un “pazzo”.