Troppi divieti
di Massimo Fini - 15/09/2024
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Fonte: Massimo Fini
In Gran Bretagna c’è una proposta di legge per vietare il
fumo anche in ambienti all’aperto, in questo modo verrebbe anche
stroncata un’usanza molto cara agli inglesi: una pinta di birra
accompagnata dalla sigaretta alla fine di una giornata di lavoro. Gli
“schiavi salariati” non sono più tali solo in azienda ma anche fuori.
A
Milano ci aveva già provato il sindaco Sala: era proibito fumare nei
parchi se c’era una donna incinta. Insomma avresti dovuto andare a
tastare il ventre di tutte le donne per assicurarti che non fossero in
fase di gravidanza. Ottima occasione di approccio anche se poi, per
fortuna o per sfortuna, dipende dai punti di vista, non se ne fece
niente.
Ci sono provvedimenti contro il gioco d’azzardo, contro
l’alcool (a Cuneo l’amministrazione Pd ha vietato, in alcune zone della
città, il consumo di alcool per tutta la giornata, forse era meglio che
il Pd restasse il Pci che in queste cose era meno talebano). Siamo
vicini, per ora solo come “moral suasion”, al raccomandare un’attività
sessuale contenuta, perché poi se a qualcuno vengono disturbi
cardiocircolatori il peso delle cure ricade sulla società (sempreché
riesca a raggiungere le strutture pubbliche e non sia costretto a
ricorrere alla sanità privata, ovviamente molto più costosa).
Tutti
questi divieti sono controproducenti. Perché non c’è nulla che attiri di
più di ciò che è vietato. Quando negli anni Settanta, dominati dal
movimento studentesco, scopare da proibito, come era stato fino allora,
divenne obbligatorio, ne passò la voglia.
Questi divieti oltre che a
incidere sulla libertà delle persone rilevano anche su quella di
informazione. Se si è in tempo di guerra è proibito pubblicare
informazioni che potrebbero essere utili al nemico. Ma noi, Italia,
attualmente, al meno dal punto di vista formale, non siamo in guerra con
nessuno. Stiamo applicando una censura di guerra in tempo di pace.
Quello
del giornalista è un mestiere delicato perché noi andiamo a ficcare il
naso nei fatti altrui, anche i più intimi (Sangiuliano e Maria Rosaria
Boccia docent). La questione acquista una particolare rilevanza quando
c’è un procedimento penale in corso. Si pubblicano atti istruttori, con
le relative notizie sull’indagato, prima ancora che costui sia rinviato a
giudizio. Nella delicata fase istruttoria, cioè delle prime indagini
dove gli inquirenti ovviamente navigano ancora nel buio, possono essere
coinvolte persone che risulteranno poi estranee all’inchiesta. Ma il
tritacarne massmediatico ne fa ugualmente strame. Il codice di Alfredo
Rocco aveva trovato il sistema per un ragionevole equilibrio fra la
necessità delle indagini e il diritto, ma preferirei chiamarlo
interesse, della popolazione a essere informata e il diritto, ma
preferirei dire l’interesse, dei giornalisti a informare: l’istruttoria è
segreta, il dibattimento è pubblico (nei regimi totalitari anche il
dibattimento è segreto). Cioè, attraverso il vaglio del GIP, arrivano al
dibattimento solo gli elementi che possono essere utili e necessari al
processo.
Devo dire che c’è una degenerazione anche fra i magistrati.
Un tempo il magistrato parlava solo “per atti e documenti”, non
rilasciava interviste e anche nella vita privata doveva stare attento a
chi frequentava. E questo modo di vivere la vita del magistrato è durato
a lungo, fino a tempi relativamente recenti. Io ho avuto un buon
rapporto, amichevole, con Emilio Alessandrini il magistrato che sarà poi
assassinato dalle Brigate rosse. Ma mai Alessandrini mi parlò non dico
delle istruttorie che aveva per le mani, ma nemmeno, e tantomeno, delle
istruttorie di cui si occupavano i suoi colleghi. Adesso al cronista
basta andare a leggere gli atti istruttori, che essendo, da regola e
giustamente, in mano ai difensori, per sapere quello che un tempo
costava la fatica della ricerca.
Quella del magistrato, come del
medico, come di ogni soggetto che abbia incarichi istituzionali, non è
una professione come tutte le altre. Se andate a rivedere i giornali
dell’epoca di Mani Pulite, né Francesco Borrelli né Antonio Di Pietro né
gli altri rilasciarono interviste. Poi, travolti dalla popolarità,
cominciarono a farlo sia pur col contagocce. Personalizzare le inchieste
è estremamente pericoloso, perché il magistrato, soprattutto il
Pubblico ministero, può anche essere integerrimo e avere agito secondo,
come si dice, “scienza e coscienza”, ma avrà pur sempre una moglie, una
compagna, degli amici e, attraverso costoro, essere attaccato. Durante
le inchieste di Mani Pulite non nominai mai né Borrelli né Di Pietro,
rendendomi conto del rischio della personalizzazione delle inchieste.
Parlavo solo dell‘”Ufficio del Pubblico ministero”, come recita il
nostro Codice. Nella lascivia laudatoria in cui furono coinvolti i
magistrati del Pool di Milano, almeno nella prima fase, (ma ci vollero
appena due anni perché tutto si capovolgesse e i magistrati diventassero
i veri colpevoli e i ladri le vittime, spesso giudici dei loro giudici,
tra l’altro Berlusconi affermò, in terra di Spagna, che in Italia era
in atto una guerra civile fra politica e Magistratura) Paolo Mieli
totalmente immerso in questa lascivia pubblicò – poi cambierà
opportunisticamente sponda – un editoriale sul Corriere della Sera
intitolato “dieci domande a Tonino” come se ci avesse mangiato insieme a
Montenero di Bisaccia.
Insomma, io credo che noi giornalisti dovremmo andare con mano più leggera quando pubblichiamo atti delle istruttorie.
“Vietato
vietare” è un brocardo giusto e su questo abbiamo speso tutta la prima
parte di questo articolo. Ma ci sono casi, in particolare nel sistema
giudiziario, dove il divieto è più giusto, utile e opportuno, del
contrario.
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