Benvenuti nel Blog di Claudio Martinotti Doria, blogger dal 1996


"Non nobis Domine, non nobis, sed nomini Tuo da gloriam", motto dell'Ordine dei Cavalieri Templari, Pauperes commilitones Christi templique Salomonis

"Ciò che insegui ti sfugge, ciò cui sfuggi ti insegue" (aneddotica orientale, paragonabile alla nostra "chi ha pane non ha denti e chi ha denti non ha pane")

"Quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell'Occidente è che perdono la salute per fare soldi. E poi perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente in tale maniera che non riescono a vivere nè il presente nè il futuro. Sono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto."
(Dalai Lama)

"A l'è mei mangè pan e siuli, putòst che vendsi a quaicadun" (Primo Doria, detto "il Principe")

"Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci." Mahatma Gandhi

L'Italia non è una nazione ma un continente in miniatura con una straordinaria biodiversità e pluralità antropologica (Claudio Martinotti Doria)

Il proprio punto di vista, spesso è una visuale parziale e sfocata di un pertugio che da su un vicolo dove girano una fiction ... Molti credono sia la realtà ed i più motivati si mettono pure ad insegnare qualche tecnica per meglio osservare dal pertugio (Claudio Martinotti Doria)

Lo scopo primario della vita è semplicemente di sperimentare l'amore in tutte le sue molteplici modalità di manifestazione e di evolverci spiritualmente come individui e collettivamente (È “l'Amor che move il sole e le altre stelle”, scriveva Dante Alighieri, "un'unica Forza unisce infiniti mondi e li rende vivi", scriveva Giordano Bruno. )

La leadership politica occidentale è talmente poco dotata intellettualmente, culturalmente e spiritualmente, priva di qualsiasi perspicacia e lungimiranza, che finirà per portarci alla rovina, ponendo fine alla nostra civiltà. Claudio Martinotti Doria

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Patriă Montisferrati

Patriă Montisferrati
Cliccando sullo stemma del Monferrato potrete seguire su Casale News la rubrica di Storia Locale "Patriă Montisferrati", curata da Claudio Martinotti Doria in collaborazione con Manfredi Lanza, discendente aleramico del marchesi del Vasto - Busca - Lancia, principi di Trabia

Come valorizzare il Monferrato Storico

La Storia, così come il territorio e le sue genti che l’hanno vissuta e ne sono spesso ignoti ed anonimi protagonisti, meritano il massimo rispetto, occorre pertanto accostarsi ad essa con umiltà e desiderio di apprendere e servire. In questo caso si tratta di servire il Monferrato, come priorità rispetto a qualsiasi altra istanza (personale o di campanile), riconoscendo il valore di chi ci ha preceduti e di coloro che hanno contribuito a valorizzarlo, coinvolgendo senza preclusioni tutte le comunità insediate sul territorio del Monferrato Storico, affinché ognuna faccia la sua parte con una visione d’insieme ed un’unica coesa identità storico-culturale condivisa. Se ci si limita a piccole porzioni del Monferrato, per quanto significative, si è perdenti e dispersivi in partenza.

Sarà un percorso lungo e lento ma è l’unico percorribile se si vuole agire veramente per favorire il Monferrato Storico e proporlo con successo come un’unica entità territoriale turistico culturale ed economica …

Dagli USA un'auto elettrica a meno di 7.600 euro, abbastanza veloce e con discreta autonomia

Kleenspeed KAR GT:  dagli USA un'auto elettrica a meno di 7.600 euro, abbastanza veloce e con discreta autonomia

Kleenspeed KAR GT

Fonte: Green Style http://www.greenstyle.it

Gli americani puntano sempre di più sulle auto elettriche come soluzione per il futuro della mobilità sostenibile. In mezzo a molti studi e prototipi, non passa inosservata la proposta di Kleenspeed Technologies, che ha presentato al Salone di San Francisco un interessante prototipo elettrico in grado di assicurare, almeno in teoria, un’autonomia di tutto rispetto a un prezzo decisamente contenuto per questo genere di veicoli.
La Kleenspeed KAR GT, questo il nome della vettura, assicura infatti una percorrenza massima di circa 241 chilometri con una ricarica completa (effettuabile in quasi 6 ore), grazie alle batterie da 40 kWh di cui è dotata e a una buona efficienza aerodinamica. I tecnici americani assicurano di aver realizzato un sistema di ricarica intelligente che dovrebbe assicurare una durata della batteria molto elevata, arrivando fino a 1.500 cicli di ricarica.
Il motore elettrico è in grado di erogare una potenza di 134 cavalli, permettendo di passare da 0 a 100 km/h in poco più di 6 secondi e di raggiungere una velocità di punta pari a 137 km/h. Ma a stupire maggiormente, della vettura elettrica di Kleenspeed, è però il prezzo potenziale che, secondo alcune stime, dovrebbe mantenersi al di sotto dei 10.000 dollari, corrispondenti a qualcosa come 7.600 euro, mentre una versione più sportiveggiante e più potente potrebbe partire da 14.000 dollari, ovvero circa 10.800 euro.
Si tratterebbe di un listino assolutamente conveniente per un’auto elettrica, anche se prima dell’eventuale arrivo sul mercato la KAR GT dovrà superare un ultimo scoglio, cioè quello legato alla ricerca di un partner con cui Kleenspeed possa avviare la produzione in serie. Fonte: Earth Techling

Pamphlet dell’editore Leonardo Facco sull’uso delle armi, la civiltà e il diritto

Lo stato liberticida (solo apparentemente democratico) persegue l'obiettivo di limitare il possesso delle armi ai cittadini, arrogandosi il monopolio dell'uso della violenza e quindi concedendo il privilegio di essere armati solo alle varie polizie ed entourage politico istituzionale, con il rischio di rendere vulnerabile il cittadino onesto e di abusare politicamente dell'uso della forza, comettendo discriminazioni e scorrettezze. Pur essendo fondamentalmente pacifista, personalmente sono favorevole al diritto di ogni persona e famiglia di essere armata in casa sua e di potersi difendere da ogni aggressione, ed una violazione di domicilio, furto, rapina, minaccia, ecc. lo è, senza ombra di dubbio, così come è ovvio che la reazione deve essere proporzionale, ma non si può neppure pretendere che chi difende casa sua abbia il sangue freddo di un professionista, chi commette il crimine dovrebbe sapere che corre dei rischi ...

Fonte: Il Giornale di Bergamo  http://www.giornaledibergamo.com

http://www.giornaledibergamo.com/cronaca/30-novembre-2012/in-legittima-difesa-di-angelo-cerioli-4451.html

BERGAMO SPARA


In (legittima) difesa di Angelo Cerioli
Pamphlet dell’editore Leonardo Facco sull’uso delle armi, la civiltà e il diritto


 
Con il titolo “Sparare a un criminale è un diritto sacrosanto”, l’editore Leonardo Facco (nella foto) firma sul giornale online L’Indipendenza un appassionato articolo in difesa di Angelo Cerioli, il commerciante di Caravaggio accusato di omicidio per avere ucciso con due copi di pistola alla schiena un rumeno che gli stava saccheggiando il negozio. Facco ripercorre il tema della legittima difesa, in termini giuridici, filosofici (patto sociale) e morali. Questo il suo intervento.

La notizia (di Cerioli, ndr) non poteva che riaprire uno storico dibattito che contempla sia la “legittima difesa” che il connesso “uso delle armi”, che se negli Stati Uniti d’America è costituzionalmente garantito dal Secondo Emendamento, in Europa è fumo negli occhi dell’opinione pubblica. Al netto delle sterili polemiche e dei soliti “benpensanti” che stigmatizzano qualche pazzia individuale estemporanea (val dunque la pena ricordare loro che Breivik ne ha sterminati un centinaio in un paese in cui anche avere una fionda è vietato), il diritto a detenere pistole e fucili viene da molto lontano. In Italia, ad esempio, pochi sanno che Cesare Beccaria in un paragrafo che era tra le citazioni preferite di Thomas Jefferson sosteneva: “Falsa idea di utilità è quella che sacrifica mille vantaggi reali per un inconveniente o immaginario o di poca conseguenza, che toglierebbe agli uomini il fuoco perché incendia e l’acqua perché annega, che non ripara ai mali che col distruggere. Le leggi che proibiscono di portare armi sono leggi di tal natura; esse non disarmano che i non inclinati né determinati ai delitti, mentre coloro che hanno il coraggio di poter violare le leggi più sacre della umanità e le più importanti del codice, come rispetteranno le minori e le puramente arbitrarie, e delle quali tanto facili ed impuni debbon essere le contravvenzioni, e l’esecuzione esatta delle quali toglie la libertà personale, carissima all’uomo, carissima all’illuminato legislatore, e sottopone gl’innocenti a tutte le vessazioni dovute ai rei? Queste peggiorano la condizione degli assaliti, migliorando quella degli assalitori, non scemano gli omicidii, ma gli accrescono, perché è maggiore la confidenza nell’assalire i disarmati che gli armati. Queste si chiamano leggi non preventrici ma paurose dei delitti, che nascono dalla tumultuosa impressione di alcuni fatti particolari, non dalla ragionata meditazione degl’inconvenienti ed avvantaggi di un decreto universale”. Come ha scritto Paul H. Blackman in un libro che ho avuto il piacere di pubblicare come editore un decennio fa – titolo: “Io sparo che me la cavo” – “James Madison spiegava che gli Americani non dovevano temere la tirannia del governo centrale perché il numero di cittadini armati sarebbe stato largamente superiore a quello dei militari. Egli distinse espressamente l’America dalle monarchie europee in base al fatto che nel Vecchio Continente “i governi hanno paura di mettere le armi in mano al popolo”. Ancora: “Lo stesso Madison, come Blackstone mise in evidenza, era un interprete della common law inglese, che difendeva il diritto di avere armi come ‘diritto ausiliario’, essenziale alla difesa dei diritti fondamentali alla ‘sicurezza, libertà e proprietà privata’. Secondo Blackstone quel diritto ausiliario a essere armati aveva lo scopo di ‘preservare il diritto naturale alla resistenza e all’auto-conservazione’, in maniera tale che, qualora altri diritti venissero calpestati, i cittadini avessero ‘il diritto di possedere e usare armi per la difesa personale’ e l’auto-conservazione stessa”. In pratica, proprio come ha fatto il signor Dettori di Caravaggio.
E’ ovvio che la scuola pubblica e la propaganda italiane cerchino di nascondere i principi e gli autori di cui sopra, avvalorando – peraltro – il monopolio della sicurezza nelle mani dello Stato. Sergio Piffari, parlamentare bergamasco dell’Italia dei Valori (che finanzia con soldi pubblici i suoi agriturismi), non ha perso occasione per avvalorare la tesi di cui sopra, sostenendo che “lo Stato deve difendere i cittadini prima che essi comincino a farlo da soli”. Nonostante l’inefficienza del servizio pubblico di sicurezza (conclamato da ogni statistica seria), il tentativo del deputato è quello di evitare che si sparga l’idea che difendersi privatamente sia meglio e meno costoso. Per questa stessa ragione, un suo collega di partito, tale Simone Scagnelli, ha affermato che “è arrivato il momento, e noi dell’IDV lo diciamo da tempo, di smetterla di giocare con le assurdità dei militari per strada o delle ronde di volontari,  ma di rimettere seriamente in discussione il sistema giudiziario/penitenziario tanto da renderlo uno strumento di prevenzione realmente efficiente”. A parte l’idiozia in sé di queste affermazioni se riferite al caso caravaggino, il politicante di turno non fa che tentare di evitare che si metta sotto accusa il monopolio della forza di cui lo Stato è legale (non per questo legittimo) rappresentante. La sua affermazione sulle ronde, viceversa, non è altro che uno stupido esempio che la storia stessa smentisce. Ha scritto Claudio Martinotti Doria in proposito: “Sull’argomento del vicinato di controllo per la prevenzione del crimine, rammento che già nella metà del Settecento in Inghilterra, e poi si sono diffuse nei paesi anglosassoni ed hanno funzionato per circa un secolo (finché non è subentrato lo Stato con proprie istituzioni di potere), la cosiddetta società civile aveva istituito le “Associazioni Per La Persecuzione Dei Criminali”, con un funzionamento simile alle “Società di Mutuo Soccorso” e con quote di iscrizione ‘popolari’, che dall’originario scopo di recuperare i beni rubati (tramite soprattutto ricompense ed annunci sui giornali) e catturare o allontanare i ladri e malviventi, si sono poi estesi ad una molteplicità di servizi, di sicurezza, ma anche assicurativi e di polizia investigativa e repressiva, di tutela legale, fino a creare una rete di agenzie interconnesse e collaborative stimate in oltre un migliaio nella sola Gran Bretagna. Chi non conosce la storia pensa che le istituzioni e certi servizi siano tutte invenzioni recenti e dovuti alla mamma Stato, cui essere grati e dipendere per tutto, ma in realtà tutte la invenzioni sociali di un certo rilievo sono dovute alla libera iniziativa privata e della comunità locale”. Se istituzioni di tal fatta esistessero ancora, il commerciante bergamasco non si porrebbe nemmeno il problema delle eventuali ritorsioni dei compari del delinquente che ha ucciso.
Nella prefazione al libro che ho citato sopra si legge: “Nel corso di questo scritto (il riferimento è al libro) si è tentato di far emergere, attraverso dati statistici e considerazioni morali, l’importanza del diritto a possedere e portare armi. Un diritto che, secondo la più genuina e coerente tradizione liberale, affonda le proprie radici nel sacro diritto di ognuno alla vita, alla libertà e alla proprietà privata. Tre aspetti della vita umana che, a propria tutela e garanzia, richiedono il corollario dell’autodifesa. Anche i possessori di armi, insomma, hanno un orgoglio e una dignità. Anch’essi hanno cuore e cervello. Quello che manca è il coraggio e la volontà di mettere sul tavolo le proprie buone ragioni, e la consapevolezza di essere gli unici e autentici difensori della libertà e del diritto. Essi devono riappropriarsi della delega che con troppa leggerezza hanno affidato ai servi dello Stato: il compito cruciale di rendere difficile la vita a criminali e tiranni. E’ giunta, o è tornata, l’ora che ognuno, in un impeto di sano egoismo, riprenda a cuore il dovere di difendere se stesso, i propri cari e le proprie legittime proprietà”.
Concludendo: è ora e tempo di finirla con la mistificazione dei fatti ed è anche ora che la si smetta di far credere che più sei disarmato, e più sei al sicuro dai criminali per via della presenza dello Stato. Quando qualcuno si permette di entrare a casa tua, a colpi martellate sulla vetrina anziché con un regolare invito, non esiste alcuna ragione – né legale né di buon senso – che preveda che tu debba aspettare l’arrivo della polizia per salvare la tua vita, quella dei tuoi cari ed i tuoi beni. Sparare a un criminale e’ un diritto sacrosanto!





















Le città private, senza ingerenza statale, esistono da tempo, il caso di Christiania

Christiania: città privata, ribelle e libera 

Fonte: L'Indipendenza, Quotidiano on line http://www.lindipendenza.com

 

di DOMENICO LETIZIA

Oramai da anni si discute di città private e se in sede di dibattito politico, alle origini, la critica statuale era che una città completamente privata, senza alcun servizio statuale, non potesse sopravvivere, nella contemporaneità, tale critica si è modificata, dicendoci che le città private sono autenticamente “cose per ricchi”. La particolarità del volume “La Città Sussidiaria”, edito dall’Associazione Culturale Carlo Cattaneo è anche l’analizzare le varie città private nel mondo, dimostrando che dal “privato”, se sviluppato con creatività e fantasia può nascere anche “altro”. Per rispondere all’obiezione di chi pensa alla città privata solo come prodotto di agiatezza economica si pensi alla Comunità di Christiania, dimostrazione empirica che se accanto al privato si accosta la libertà e la fantasia può nascere un qualcosa di straordinario oltre che di autenticamente alternativo.

Christiania è un quartiere di Copenaghen, nato da un esperimento sociale hippie nel 1971, attraverso l’occupazione, quindi la sottrazione allo stato, da parte di alcuni giovani di una base navale inutilizzata, dismessa e abbandonata a rovinare il paesaggio della cittadina. Dopo innumerevoli tentativi di sgombero da parte della polizia e dopo l’intervento delle forze politiche che volevano sbarazzarsi di tali individui, preoccupate dalla crescita nuovo fenomeno, solo in tempi recenti il governo danese sta analizzando soluzioni per far vivere nella legalità la comunità hippie. La libertà e l’autogestione hanno trasformato Christiania, che ha avuto uno sviluppo incredibile: all’inizio era solo un gruppo di strade in cui, in piena libertà, si poteva esercitare la compravendita di sostanze stupefacenti di ogni tipo, successivamente, gli occupanti si sono date strutture giuridiche proprie (a dimostrazione che il diritto vive anche al di fuori delle logiche statuali) che hanno garantito alla comunità non solo la convivenza civile, ma anche un alto grado di sviluppo economico creativo, riuscendo a trasformare il degradato quartiere, abbandonato dallo stato, in una vera e propria attrattiva turistica.


Le regole e il diritto della comunità, si sono sviluppate autonomamente, senza alcuna coercizione e imposizione, le regole createsi a Christiania sono riconducibili al modello della common law  tradizionale: consuetudini divenute cogenti perché ritenute tali dalla stragrande maggioranza degli aderenti alla comunità. Lo sviluppo di questa creativa forma di diritto comune è stato in grado di fronteggiare i problemi della comunità: lo spaccio delle droghe pesanti, l’aumento della criminalità, le numerose incursioni della polizia. Ebbene la comunità ha creato delle consuetudine condivise e chi non vi si attiene non è il benvenuto.  Laddove le forze dell’ordine non sono riusciti ad ottenere risultati, il diritto libertario e l’autogestione della comunità vi è riuscito. Con il procedere degli anni, il quartiere è andato sempre più connotandosi, non solo per essere una zona libera ove poter comprare e consumare hashish, ma per la propria accoglienza nei confronti di tutte le personalità creative ed artistiche, inventando lavori alternativi e sviluppandosi verso un sistema integralmente ecologico, non a caso nel quartiere le automobile sono pressoché bandite.

Christiania è divenuta una delle principali mete turistiche di Copenaghen, attività commerciali e artistiche di ogni tipo e fantasia, una grande comunità che vive di denaro proveniente dai turisti. Christiania è riuscita a battere una propria moneta (il Lon) non solo per i collezionisti, ma utilizzabile anche per le transazioni commerciali all’interno della comunità. Una moneta che analizzata economicamente, rispetta i principi della scuola austrica, poiché non viene creata dal nulla, come quella utilizzata dagli stati, ma esiste solo in quanto nelle casse della Comunità vi sono corone danesi sufficienti per garantirla attraverso un rapporto fisso. Sono molti gli economisti che nel funzionamento del denaro di questa comunità libertaria e antiautoritaria vedono dimostrate le riflessioni di Ludwig Von Mises.  Gli abitanti di Christiania hanno realizzato una società, legata al socialismo libertario ma liberista, in quanto oltre che vivere di mercato e di commercio, hanno messo su un governo assembleare, in cui ogni persona ha il diritto di parola e di voto, e in cui le decisioni non sono assunte a maggioranza ma con un consenso tendenzialmente unanime. I cittadini sono divisi in comitati per territorio e per materia, un federalismo libertario e comunalista concreto e realizzato. Tale comunità attraverso la libertà e la spontanea gestione, libera dalla coercizione, ha trasformato ciò che lo stato aveva distrutto e abbandonato, in una piccola fetta di paradiso, ove il libero scambio e la creatività hanno permesso il mantenimento di un’intera comunità.

Graecia capta ferum victorem cepit

Fonte: Legno Storto, quotidiano http://www.legnostorto.com/index.php 

Graecia capta ferum victorem cepit

Scritto da Gianni Pardo   
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C’è una frasetta di Orazio che in tempi preistorici, quando in Italia si studiava latino, tutti conoscevano: Graecia capta ferum victorem cepit, la Grecia conquistata conquistò il feroce vincitore. Si intendeva che con la conquista di quella piccola regione non fu la Grecia a romanizzarsi ma Roma a grecizzarsi. Sconfitta con le armi, Atene vinse con la cultura. Il fenomeno non fu unico, ché proprio Roma fu sede di una replica quando i barbari, invece di germanizzarla, si romanizzarono essi stessi. E in ambedue questi casi si ha il piacere di vedere che è la civiltà migliore che vince sulla più rozza. Con la caduta dell’Unione Sovietica è sembrato da prima che la storia si ripetesse ancora una volta. L’Occidente pacifico ha vinto sull’Oriente aggressivo, il capitalismo privato sul capitalismo di Stato, la libertà sulla tirannide. La Russia in pochi anni ha adottato il modello politico-economico occidentale: partiti politici, elezioni ed economia di mercato. Ancora una volta si sarebbe potuto pensare che la civiltà migliore vinceva sulla peggiore: purtroppo la storia non segue nessuna regola e a volte riserva sorprese.
L’Occidente e gli Stati Uniti, che tanto risolutamente hanno rifiutato il comunismo, hanno creduto che il socialismo sia la forma migliore di capitalismo: nel senso che coniugava le libertà occidentali con la pietà per i più deboli, il sostegno ai più poveri, la solidarietà con i più sfortunati. Non solo: dal momento che troppa gente non ha sufficiente buon senso per destreggiarsi nella vita, bisogna imporre a tutti un’assicurazione contro le malattie, contro l’invalidità e la vecchiaia; agli automobilisti bisogna imporre un’assicurazione per la responsabilità civile, dal momento che non tutti, in caso d’incidente, hanno risorse sufficienti per pagare i danni; naturalmente bisogna anche esigere che ci sia un’autorizzazione per costruire una casa, aprire un negozio, guidare un taxi... A farla breve è avvenuto che, a fin di bene, lo Stato si è occupato di una tale quantità di cose da indurre nei cittadini un sentimento di irresponsabilità. A tutto deve pensare lo Stato.
Ma per fare ciò l’Amministrazione ha avuto bisogno di una quantità sempre crescente di risorse e naturalmente le ha prelevate con la leva fiscale. Insomma coloro che in anni lontani erano stati tanto contenti di sfuggire all’infame destino delle cosiddette “Democrazie Popolari”, si sono accorti di essere sopraffatti dall’invadenza del “Grande Fratello”. Di essere dei sorvegliati speciali. Di essere gli schiavi di uno Stato cui è dovuta almeno la metà del proprio reddito, se non si vuole assaggiare la crudeltà dello sceriffo di Nottingham. La libertà dei singoli, e in particolare la libertà d’impresa, hanno cominciato ad apparire in contrasto con il bene pubblico.
Questa oppressione è apparsa soft per due ragioni: perché è aumentata a passettini impercettibili e soprattutto perché il sistema è stato sostenuto dal voto dei cittadini. Nella piramide sociale i meno abbienti sono molto più numerosi degli abbienti e l’idea corrente è che lo Stato abbia la funzione di togliere ai pochi fortunati per dare ai molti sfortunati. Ecco perché tanti votano per questo tipo di Stato: perché pensano di guadagnarci, personalmente. Quello che non calcolano è che, per indefettibile principio di economia, la pecora si tosa, non si uccide: diversamente l’immediato guadagno è seguito dalla miseria. E invece è prevalsa la tendenza a credere che si potesse chiedere sempre di più, fino a giungere a tre risultati negativi: una pressione fiscale opprimente, soffocante, paralizzante,  tanto che molti rinunciano a produrre ricchezza; un debito pubblico stratosferico e irrimediabile che pone sulle spalle dei contribuenti il dovere di pagare continuamente pesanti interessi, e infine il ribaltamento del principio per cui Graecia capta ferum victorem cepit. Qui sembra che l’Unione Sovietica, economicamente battuta da viva, da morta a poco a poco trionfi.
La salvezza dell’Occidente potrebbe un giorno venire dalle sue strutture democratiche, se si mantengono. Pur se ci troviamo nel fondo di una crisi economica senza uscita (altro che luce in fondo al tunnel!) c’è la speranza che, alla lunga, i cittadini si accorgano della inanità della loro speranza di far pagare ad altri il proprio benessere. Che si accorgano di avere svenduto la propria indipendenza e la propria vita a chi l’amministra peggio di come l’amministrerebbero loro stessi, se solo perdessero le loro illusioni infantili.
Dopo il bagno di sangue economico vissuto a causa del crollo del modello attuale, il liberalismo potrebbe rinascere dalle proprie ceneri. La Fenice, scottata a morte, può solo sperare nella propria resurrezione.
pardonuovo.myblog.it

Redditest? Ennesimo cazzeggio istituzionale

Ecco il redditometro. Ma questi sono dilettanti o terroristi? Il programma è lacunoso ed approssimativo, fa sospettare che l'intendo sia solo doloso ...



Fonte: Legno Storto, quotidiano http://www.legnostorto.com/index.php 

Scritto da Fabrizio Orsini  

Oggi l’Agenzia delle Entrate ha reso disponibile presso il proprio sito il nuovo “redditest”, ovvero un programmino semplice che dovrebbe informare il contribuente sulla coerenza, o meno, del proprio reddito dichiarato rispetto alle spese sostenute e ad alcuni beni posseduti.
Incuriosito, anche in virtù dei ben dodici mesi di rodaggio cui il programmino sarebbe stato sottoposto prima del rilascio, l’ho scaricato per provarlo (i risultati sono anonimi e non vengono censiti via WEB e quindi il programma può essere usato anche per sperimentazione).
Immaginavo di trovarmi di fronte un prodotto che sapesse abilmente conciliare la semplicità e chiarezza d’uso – è rivolto a tutti i contribuenti, anche i più sprovveduti in tema di fiscalità e contabilità – con la necessità di acquisire informazioni dettagliate, ben organizzate e significative.
La delusione è stata assoluta. Il programma prevede in buona sostanza informazioni elementari sull’abitazione principale e su eventuali altri immobili posseduti (classe, comune, superficie) che, di certo, non consentono di stimarne il valore di mercato. Come si può, infatti, stimarlo, selezionando l’ubicazione “Roma”, senza alcuna differenziazione tra zone centrali e di pregio o ultraperiferiche? Mi sarei aspettato che chiedesse, almeno, la rendita catastale che, seppur obsoleta, come tutti sanno, almeno fornisce un’ulteriore indicazione qualitativa, che non viene invece richiesta.
Vi sono poi altre sezioni, tra cui quelle sulle spese per energia elettrica, gas e telefonia, tutte distinte per singolo componente della famiglia (ma se la famiglia vive nella stessa casa non sono pagamenti unici per tutti?). La sezione onestamente più curiosa è quella sui mezzi di trasporto (distinti sempre per componente) per cui viene chiesta la potenza del veicolo e, nella sottosezione “spese”, quanto si spenda per l’assicurazione: distintamente per responsabilità civile e per incendio e furto (un dato per il quale serve munirsi del modulo assicurativo vero e proprio e la cui distinzione lascia perplessi).
Vi sono poi sezioni relative alle assicurazioni (vita, sanitarie, RC) ed ai contributi obbligatori e volontari eventualmente versati.
Segue qualche domandina sulla consistenza degli investimenti e disinvestimenti patrimoniali (azioni, obbligazioni, etc.), sulle spese per palestre, viaggi e soggiorni, istruzione e poco più.
Al termine si può chiedere la verifica di coerenza ed il risultato della mia simulazione (grossolana ma molto verosimile) è stato: “incoerente”. Senza alcuna altra indicazione (se non che nel reddito complessivo indicato devono essere ricompresi anche redditi esenti e quant’altro). Bene, ora so di far parte di quel 20% di famiglie che risulteranno (lo ha dichiarato la stessa Agenzia per bocca di Befera, se non erro) incoerenti, ma non ho la più pallida idea del perché: nessuna indicazione, nemmeno la più blanda e generica mi consente di capire perché la mia vita di onesto e ligio contribuente sia incoerente con i modelli di pensiero del fisco. Non è dato sapere nemmeno a quanto ammonti, in termini assoluti o percentuali, tale incoerenza e se essa sia dovuta ad un eccesso di reddito dichiarato o, viceversa, ad un eccesso di spesa (quale?) rispetto al medesimo.
Insomma una delusione assoluta e, soprattutto, la riprova che il fisco brancola praticamente nel buio sia per quanto concerne una buona fotografia dei suoi contribuenti, sia nel relazionarsi con loro, mettendo a disposizione strumenti chiari, semplici, efficaci, ma anche utili ed approfonditi.
L’unico risultato che potrà ottenere siffatta iniziativa, a mio avviso, sarà generare una diffusa tensione ed il fondato timore di trovarsi a che fare con un fisco rapace, pericoloso e inconcludente, pronto a chiederti conto dello stile di vita (e a multarti in base ai presunti scostamenti) sulla base di modelli inadatti ed inesatti.
In tema di modelli, ad esempio, chi lavora a partita I.V.A. (ne esistono ancora, con buona pace del ministro Fornero), se ha la propria “sede” in casa può scaricare dal proprio fatturato complessivo il 50% delle spese sostenute nella casa (in particolare i consumi elettrici, di gas e una parte ridottissima di quelli telefonici).
Che senso ha, quindi, per questo tipo di contribuente, verificare la sua coerenza sulla base di consumi che vanno già per metà a ridurre il reddito complessivo (da indicare) e che, quindi, lo fanno apparire ben più basso di quanto in realtà non sia stato (senza peraltro che ciò si traduca in un reale abbattimento delle tasse e dei contributi pagati)?
Sembra che questi ed altri dubbi non siano sorti nelle menti che hanno così a lungo studiato e rodato il redditest. Forse (spero il contrario), perché l’unico scopo del programmino potrebbe essere, in realtà, quello di dichiarare a priori una buona parte dei contribuenti “incoerente”, soprattutto se lavoratori autonomi e professionisti, spingendoli a dichiarare di più, comunque, a titolo prudenziale e magari occultando qualche spesa realmente sostenuta, apportando così qualche altro spicciolo di tasse e contributi alle esangui casse dello stato sprecone.

Il fondatore ed ideologo del Movimento per la Decrescita Felice ha illustrato ad Alessandria la sua teoria e proposta di vita

Fonte: Alessandria News http://www.alessandrianews.it

Pallante: "una vita sobria che riduce gli sprechi porta alla decrescita"

Il maestro del concetto di "decrescita felice" , Maurizio Pallante, in conferenza al liceo scientifico Galilei in occasione di una serie di iniziative di "cittadinanza attiva" promosse dall'Istituto e dall'associazione "Amici ed ex allievi del liceo scientifico"
 
ALESSANDRIA - Un nuovo modo di intendere e vivere il mondo che abitiamo e le risorse che ci offre: la teoria della “decrescita felice” del professor Maurizio Pallante, docente e fondatore del movimento della Decrescita Felice.  Oggi è più che mai corretto parlare di decrescita, vista la crisi globale, ma come si arriva a definirla “felice”?
“Attraverso delle valutazioni qualitative (e non solo quantitative) delle attività produttive – spiega Maurizio Pallante – Il Pil (prodotto interno lordo) non dà alcuna valutazione sulle cose prodotte, comprate e poi vendute. Sulla loro utilità”.  Pallante ribadisce il concetto di come un’economia fondata sulla crescita del PIL capovolge il rapporto tra produzione e consumo: non si produce per rispondere a una domanda, ma si deve consumare per poter continuare a produrre e si deve produrre per poter ottenere il reddito necessario a consumare. Sulla scia di questo leit-motiv, Pallante si cimenta in una puntuale critica dell’economia della crescita. Questo perché è possibile – anzi necessario – parlare di coesistenza tra decrescita e felicità.

Decrescita è una parola che spaventa, che fa pensare alla crisi, alla recessione, ad un abbassamento del tenore di vita, rievoca la rinuncia, il “tirare la cinghia” dei nostri nonni. Ma decrescita e recessione non sono la stessa cosa.  “Proprio per questo motivo, la recessione e la crisi che stiamo vivendo oggi può essere un aiuto per prendere coscienza che non si può più andare avanti come abbiamo fatto fin’ora – ha proseguito Pallante - La recessione può essere la nostra ancora di salvezza: adottare uno stile di vita più sobrio che riscopra il piacere di produrre da sé alcuni beni, che spinga a riciclare il più possibile per inquinare meno, che metta in luce i vantaggi di un mutuo scambio tra le persone non necessariamente finalizzato al profitto”. Tutto ciò non significa recedere o impoverirsi, ma semplicemente crescere o arricchirsi “in un modo differente”.
Secondo il professore di Decrescita Felice riducendo volontariamente la produzione di alcuni tipi di merci perché non hanno un’utilità effettiva o perché causano danni ambientali irreparabili o perché possono essere sostituite da prodotti analoghi che diminuiscono il consumo di risorse naturali e l’impatto ambientale e la qualità della vita, non si fanno rinunce o sacrifici. “Si fanno scelte finalizzate a introdurre miglioramenti che non si potrebbero ottenere senza una diminuzione del Pil”.
Quindi una vita coerente, sobria che punti alla riduzione degli sprechi è la maniera per arrivare ad una “decrescita felice”: oggi questo percorso sembra “obbligato” dalla crisi – e non più come in passato una scelta del singolo – Ma il professor Pallante precisa “la necessità che questa strada sia da percorrere sia in termini individualistici, che collettivamente”.

Questo incontro-conferenza con Maurizio Pallante si inserisce all’interno della serie di iniziative promosse dal liceo scientifico G. Galilei per festeggiare i 70 anni di attività e dall’associazione “Amici ed ex allievi del liceo” per il suo 20esimo compleanno. Un doppio anniversario che l'istituto celebra, insieme all'associazione, con l’obiettivo di “recuperare i valori etici fondamentali per la società, rifondarne il rapporto con il vissuto quotidiano, stimolare comportamenti virtuosi che aiutino i giovani nella formazione del proprio bagaglio di sensibilità verso l'ambiente e le risorse collettive: in estrema sintesi la formazione alla cittadinanza attiva”, come ha spiegato il dirigente dell’istituto, professor Carlo Arzani. Oltre alla filosofia della “decrescita felice”, che si inserisce nel filone della cittadinanza attiva e della partecipazione, che nei prossimi incontri si concentrerà sull’attività del medico, sull’ingegneria e infine sulla tutela ambientale, questo ciclo di conferenze ha inaugurato anche un filone prettamente scientifico, che ha già avuto il suo primo appuntamento con gli studi sul “bosone di Higgs”.
“Gli obiettivi sono formativi ed educativi, con una componente importante di orientamento per i giovani ragazzi, vista la presenza di nomi importanti come relatori, che possono mettere a conoscenza un bagaglio culturale di notevole misure, oltre che una grande esperienza”, ha concluso il dirigente scolastico. Nell’ottica dei festeggiamenti per i 70 anni di attività del liceo scientifico l’appuntamento è per sabato 15 dicembre: porte aperte e tante iniziative per un buon compleanno al G. Galilei.

L'evasione fiscale in Italia è legittima difesa contro predatori e parassiti politici

Contro i ladroni di Stato l’evasione fiscale è un dovere morale

Fonte: L'Indipendenza, Quotidiano on line http://www.lindipendenza.com

 

di LEONARDO FACCO



Tre notizie, ieri, mi hanno infastidito: la prima, è che i capigruppo delle varie “gang” politiche che affollano la Camera hanno l’abitudine di bruciare i loro conti, onde evitare che le prove delle loro malefatte possano finire sotto la lente di qualche controllore; la seconda, è che tra i parassiti che imperversano in Parlamento, ce n’è sempre qualcuno che infila un qualche emendamento tra le leggi in discussione per mantenere intatti i privilegi che essi stessi si sono concessi. Stavolta è toccato ai vitalizi dei consiglieri regionali; terzo, che l’inutile “Garante della privacy” (l’ennesimo boiardo di Stato mantenuto coi soldi dei contribuenti) ha dato il via libera all’Agenzia delle Entrate affinché possa ficcanasare a suo piacere i nostri conti correnti.
Nonostante questo, più tutto il pregresso del caso, siamo ancora costretti a subire le prediche di trinariciuti del calibro della Gabanelli e di Santoro, che non perdono occasione per mettere sotto inchiesta l’evasione fiscale, ovvero l’ultimo baluardo di resistenza pacifica – per dirla con le parole di Charles Adams – che rimane ai vessati di questa penisola, sottoposti ad un’infernale pressione contributiva che rasenta, ormai, l’esproprio totale. In Italia, ahimè, lo Stato tassatore e canaglia gode di grandi consensi ed ha assoldato un esercito di locuste improduttive, quelle che – non casualmente – ritengono doveroso ed opportuno aumentare i controlli tributari. Vi sono scherani del Leviatano dappertutto: nelle università, nella “società incivile e clientelare”, nei media, tra le caste varie della politica e della sotto-politica, ma finanche tra quelli che si son messi in testa di fermare il declino. Tutti odiano gli evasori, ma tutti lo sono (seppur in modi differenti), per il semplice fatto che a nessuno piace vedersi espropriare gran parte del frutto del proprio lavoro.
Nonostante non vi sia politico, o un suo lacché, che non dica che le imposte vanno abbassate (slogan ritriti di cui abusa pure Monti), la lezione di Laffer che con aliquote più basse si aumenta il gettito fiscale, in questa landa libico-mediterranea non è mai stata applicata, perché non è mai stata imparata, dato che il taglio delle spese pubbliche non è gradito ai frequentatori dei Palazzi. Al contrario, i diritti del contribuente italiano sono violati vergognosamente e di continuo, persino quando sono stati promulgati dallo Stato stesso sotto forma di leggi e statuti. Inoltre, Equitalia è il braccio armato di chi ha in animo solo di distruggere la ricchezza, anziché produrla.
Accettare passivamente la violenza dello Stato tassatore significa legittimare una condizione di schiavitù a cui sono sottoposti i cittadini, troppo spesso condizionati da slogan – falsi e tendenziosi – tipo quell’infame “pagare tutti per pagare meno”. Vi ricordo, senza timor di smentita, cosa insegna la prassi: se tutti pagassero il dovuto, è certezza matematica che il maggior gettito si tradurrebbe in maggiori spese da parte degli apparati pubblici, sempre pronti a sprecare denari per alimentare consenso e clientele. La cura del governo dei tecnici ne è la riprova: nonostante un aumento ferale delle gabelle, il debito pubblico è cresciuto di 90 miliardi di euro in un anno! Se analizzate la serie storica relativa all’aumento della spesa pubblica, e la confrontate con quella afferente la pressione fiscale, ve ne convincerete.
Lo Stato massimo ha indottrinato ben bene i suoi sudditi ad odiare l’evasore fiscale, i paradisi fiscali, gli esportatori di capitali, facendoli passare per dei furfantelli che rubano a qualcun altro. A me non pare che chi vuol tenere per sé ciò che ha onestamente guadagnato sia un mariuolo. Semmai, il malfattore è chi pretende da lui i tre quarti del suo fatturato, per poi andarselo a spendere in videopoker o a puttane. E’, insomma, doveroso coltivare nell’opinione pubblica un senso di avversione all’invadenza governativa e all’interventismo (finalmente non regge più nemmeno la balla che senza tasse i servizi non esisterebbero), nonché il rifiuto dell’esercizio indiscriminato e irresponsabile del potere fiscale. Anche perché – e questo forse non è ancora ben chiaro a tutti – il 99% delle rivoluzioni ha preso avvio da una rivolta fiscale.
Rassegnatevi però o voi che votate e sperate nell’urna: qui da noi, non aspettatevi alcun ribaltamento per via elettorale. Bisogna fare da soli. Quanti più saremo a difendere i diritti del nostro portafoglio tanto più avremo davanti un futuro roseo. La Catalogna ha accelerato la sua rivoluzione secessionista perché la crisi ha fatto da detonatore e la resistenza fiscale – oltre all’appartenenza ad una comunità – è qualcosa di più che una minaccia. Anche i fiamminghi, che anelano l’indipendenza, ne han piene le tasche di mantenere i valloni. Gianni Rodari non sbaglia quando sostiene “che è inutile parlare di libertà ad uno schiavo che pensa di essere un uomo libero”, e che non sa che l’alternativa alla ribellione è pagare in silenzio, senza lamentarsi troppo della corda che si stringe al nostro collo. Lo ribadirò fino alla noia: “Non esiste alcuna libertà politica senza libertà economica”. Se non la pensate così, mettetevi in fila fin dal 30 novembre prossimo, dato che c’è da versare il 96% dell’acconto Irpef del 2013.
Come diceva Barry Goldwater “l’estremismo, nella difesa della libertà, non è un vizio. La moderazione, nel perseguimento della giustizia, non è una virtù”. Per chi ti punta una pistola in faccia intimandoti “o la borsa o la vita” non può esserci rispetto. Senza la convinzione e il coraggio di resistere al Fisco (come insegnava anche quel buon uomo di Gandhi), senza l’orgoglio di dire in faccia ai ladroni di Stato che “evadere le tasse è un dovere morale” , non resta – per chi rimarrà in Italia – che la sopraffazione, l’agonia, la decadenza e l’umiliazione.

La rete di sostegno famigliare non regge più alla gravità della situazione

La situazione sociale italiana è molto più grave di quanto non si sia occasionalmente rivelato o mediaticamente compreso finora. La rete di sostegno famigliare non regge più, ormai si è esaurita, gli stessi anziani devono cercare lavoro, anche scarsamente remunerato e poco dignitoso, per integrare il reddito famigliare ed arrivare a fine mese ....... speriamo non siano choosy!


Il ministro Fornero si commuoveva quando in conferenza stampa di riferiva ai sacrifici che il governo ha imposto agli anziani ...


Fonte: http://www.lastampa.it

Se la rete familiare non regge più

Questa volta non si tratta dell’annosa e arcinota questione giovanile. Dietro alle proteste e alle violente manifestazioni di piazza di ieri l’altro, in tante città italiane, c’è un’altra storia. Un cambiamento che colpisce tutta la società italiana, senza andare per il sottile, e che crea faglie sismiche tra generazioni, classi professionali, categorie con diversi tipi e livelli di istruzione. Il modello familistico è definitivamente finito.

Le reti familiari di protezione sociale, rifugio di ultima istanza per intere generazioni di figli e di anziani non ancora o non più attivi, non sono più sufficienti per tappare i buchi di un welfare pubblico prosciugato, di un mercato del lavoro asfittico e di imprese in ginocchio. Basta guardare alle differenze tra la prima fase recessiva della crisi in corso (2007-2009) e la seconda. Dal 2010 in poi, non abbiamo solo perso di posti di lavoro (non solo tra i giovani); c’è stato anche un aumento imponente dell’offerta di lavoro, cioè del numero di persone disponibili a cercare un impiego. Lo spiega bene Stefania Tomasini nell’ultimo numero della rivista «Il Mulino» (5/2012). Sono per lo più le donne e le fasce di lavoratori più anziani (55-64 anni) che dopo essere rimasti ai margini del mondo produttivo, perché scoraggiati, si vedono «costretti» ad entrarci di nuovo per compensare la fragilità finanziaria della propria famiglia. A fronte della perdita o della riduzione del reddito di un familiare, donne, giovani e lavoratori anziani si (ri)mettono in gioco, per spirito di sopravvivenza, accentuando la competizione al ribasso con i propri figli e i figli degli altri, con i propri coniugi e i coniugi degli altri.

L’esplosione numerica di questi «lavoratori addizionali» è sorprendente: dall’estate 2011 all’estate 2012 quasi 800 mila persone in più si sono riversate nel mercato produttivo, disposte a tutto pur di acchiappare prima degli altri un brandello di lavoro.

Cosicché, i ragazzi scesi in piazza ieri, gli adolescenti e i ventenni che urlavano contro la globalizzazione dei mercati e delle banche, contro l’austerità e i tagli alla scuola, se guardano avanti vedono ben poca luce (semmai uno slalom sfinente tra lavori e lavoretti con un punto di approdo su cui cala una nebbia sempre più fitta).

Ma, se guardano indietro, vedono madri e padri spesso già entrati, essi stessi, nella medesima sindrome falcidiante del precariato, dell’intermittenza del reddito e del deterioramento delle condizioni di vita.

I dati Istat più recenti (2012) ci dicono che le aree del non lavoro e della precarietà non sono più dei tabù per gli adulti. Il tasso di disoccupazione della classe di età 45-54 è salito dal 4,5 nel 2010 al 6,7% nel 2012; stessa dinamica per i lavoratori più anziani (55-64), con un salto dal 3,5 al 5% nello stesso periodo. Considerando infine i lavoratori atipici sopra i 34 anni, si scopre come la quota dei 45-54enni e degli over 55 stia crescendo ininterrottamente negli ultimi due anni.

Se si ricompone il puzzle, la scena è quella di una guerra tra poveri, all’interno delle stesse famiglie. Con relazioni sociali scassate che sarà difficile ricucire. Un contrappasso che brucia come la febbre in un Paese in cui il familismo ovattato, nel bene e nel male, è stato il più grande strumento di ammortizzazione e coesione sociale. E da qualunque punto di vista si guardi al problema non esistono soluzioni facili. Né tantomeno immediate.

Ed è stato ingeneroso il no a correnti unificate da parte dei candidati alle primarie alla riforma Fornero, certamente perfettibile (sull’applicazione dell’articolo 18 in primis), ma che ha osato laddove nessuno sinora lo aveva fatto (ad esempio riordinando gli ammortizzatori sociali ed estendendone la copertura).

Piuttosto, per essere onesti, chi si candida a governare il Paese dovrebbe dire a quali facili promesse rinuncia e quali invece pensa di poter concretamente onorare. In un clima di disagio asfissiante e generalizzato.

Dicendo la verità e indicando una direzione nuova non solo, necessariamente, lastricata di sacrifici. Sia ben chiaro che l’invasione delle piazze di ieri l’altro non era una domanda di meno politica, ma era una domanda di più politica. A questa domanda qualcuno deve saper rispondere.

elisabetta gualmini

Ecco perché è importante la battaglia localista

Il localismo, argomento sul quale ho già scritto e sono intervenuto varie volte in passato, è la risposta adeguata all'epoca oscura e di omologazione al peggio che stiamo vivendo. Tra i molteplici valori che propone, metterei in evidenza la cooperazione, antitetica alla competizione con cui ci assillano in continuazione i mass media asserviti alle lobby di potere ...

Fonte: L'Indipendenza, Quotidiano on line http://www.lindipendenza.com

di GUGLIELMO DE MARINIS*
 
Quanto è importante oggi la battaglia localista? E’ fondamentale: è importante come non lo è mai stata nella storia degli uomini e dell’Uomo. Un Uomo sradicato, ormai ridotto alla ruota di un ingranaggio dominato dall’economia e dalla tecnologia, schiavo del materialismo e del consumismo, spogliato del proprio ruolo di protagonista sociale e politico, prigioniero di ritmi e dogmi artificiosi e innaturali. Un Uomo che ha dunque la necessità di ritrovare i propri punti di riferimento, i propri valori, la propria dimensione e dignità: tutto questo può essere raggiunto solo combattendo per la ricostituzione dell’Identità: della Comunità a cui appartiene e di sé stesso come individuo.
La globalizzazione con la sua promozione ossessiva della circolazione di merci, capitali e, soprattutto, persone, col suo disintegrazionismo mondialista, che significa omologazione, standardizzazione, appiattimento di tutte le culture e all’interno di esse la riconduzione di tutti gli individui ad un unico modello, è per sua natura contraria a quel prepotente bisogno di identità e di senso di appartenenza che oggi anche proprio in ragione della globalizzazione sale dalle comunità e dai singoli individui.
La competizione mondiale di tutti contro tutti costituisce infatti l’attacco finale sia all’identità collettiva dei popoli sia all’identità dell’individuo: subordinandosi progressivamente l’uomo al meccanismo produttivo vengono, infatti, sempre più esasperati tutti gli aspetti maggiormente degenerativi e drammatici dell’individuo: ritmi sempre più incalzanti e insostenibili, omologazione degli stili di vita e degli stessi individui in ragione delle esigenze razionalizzatrici dell’economia e della tecnologia di mercato, perdita del senso di solidarietà individuale e collettiva, impossibilità di trovare un punto di equilibrio e di armonia con sé stessi, con i loro corollari sul piano esistenziale di angoscia, nevrosi, depressione, anomia, frustrazione e sentimento di smarrimento del senso esistenziale.
Dunque, ecco spiegata l’importanza della battaglia localista, che, promuovendo la diversità come un valore aggiunto, è, per definizione, antitetica alla globalizzazione privatrice dell’identità di popoli e uomini: solo il prevalere delle piccole patrie e dei localismi, con il drastico ridimensionamento della tecnocrazia con i suoi apparati industriali e virtuali, permetterebbe la costruzione di una società che valorizzi le risorse locali e le identità culturali, e l’affermazione di una struttura comunitaria basata su microeconomie autocentrate al posto della macroeconomia globalizzata, nella quale il cittadino, ritrovato l’ancestrale legame e armonia spirituale tra l’individuo e la sua terra, partecipi in prima persona alle decisioni che lo riguardano; avremmo, dunque, un complessivo riequilibrio delle dinamiche tra i popoli e delle pulsioni interiori degli individui, con l’affermazione di società che finalmente ritornano a reggersi sulla cooperazione e non più sulla competizione.
Quella localista è, in conclusione, l’unica battaglia politico-culturale che abbia attualmente un senso portare avanti, tanto più che si sono rivelate inefficaci e destinate alla sconfitta ideologie e visioni del mondo, che, per quanto spesso valide e portatrici di nobili ideali, nella sfida con il processo omologante della globalizzazione hanno in ultima analisi acquisito proprio il vizio principale del processo stesso, ovvero la riconduzione ad un unico modello che si pretende valido per tutto e per tutti; proprio per tutti questi motivi battaglie di questo tipo sono attualmente prive di significato in quanto si nutrono di schemi non più riproponibili come reale alternativa al processo che intendono combattere.
L’Uomo, invece, che combatte la battaglia localista e identitaria porta con sé la fierezza del suolo della nascita e la solidarietà con i propri simili e vicini e con il mondo intorno a sé: il vero “prossimo”, quello che sta accanto a noi, e che dunque non è “universale”, ma maledettamente locale, particolare, specifico e ineguagliabile. Solo questi soggetti potranno, con la linfa vitale del patrimonio del passato, agire nel presente per dare il proprio contributo affinché ci sia un futuro per i popoli e gli uomini della Terra.
*Movimento Autonomista Toscano – Responsabile Provinciale Firenze

Stati Uniti: I cittadini di 29 Stati chiedono la secessione da Washington

In questo articolo finalmente si porta un minimo di chiarezza e realismo su quale sia le situazione negli USA, che i mass media tendono a mistificare o riportare riduttivamente, parzialmente e faziosamente. Alcuni stati, Lousiana e Texas in testa, vorrebbero la secessione dagli USA, l'indebitamento federale è a livelli parossistici ed insostenibili, l'accentramento liberticida federale è ormai intollerabile per chi ama la libertà, la carta costituzionale di fine '700 dei padri fondatori è ormai carta straccia a livello politico, e la fiducia dei mercati internazionali nei confronti del dollaro è ai minimi storici con rischio di implosione ... 

Fonte: L'Indipendenza, Quotidiano on line http://www.lindipendenza.com 

 

di LUCA FUSARI

A pochi giorni dalla nottata elettorale presidenziale 2012 che ha visto la rielezione di Barack Obama per altri 4 anni alla Casa Bianca, gli Stati dell’Unione sono in fibrillazione, una fibrillazione spontanea al momento ancora covata sotto le ceneri, che però da almeno 150 anni non si registrava sul suolo americano.
Sabato 10 Novembre 2012, i cittadini di 15 Stati (Louisiana, Texas, MontanaNorth DakotaIndiana,Mississippi, Kentucky, North CarolinaAlabama, Florida, Georgia, New Jersey, ColoradoOregon e New York),  hanno depositato le petizioni da consegnare all’amministrazione Obama per chiedere il ritiro pacifico dei loro Stati dall’Unione al fine di darsi un loro indipendente assetto di governo.
Come spiega il sito Examiner, affinché le petizioni siano prese in considerazione dall’amministrazione Obama come richiesta, la legge statunitense prevede che ad un mese dalla data di presentazione della petizione, queste abbiano raccolto 25.000 firme; una petizione non è ricercabile sul sito della Casa Bianca fino a quando non sono state raccolte almeno 150 firme dai promotori.
Domenica 11 Novembre alle ore 12:46, le firme raccolte  erano già 7358 in Louisiana, 636 in Florida, 475  Georgia, 834 Alabama, 792 in Carolina del Nord, 467 in Kentucky, 475 in Mississippi, 449 in Indiana, 162 in Nord Dakota, 440 in Montana,  324 in Colorado, 328 in Oregon, 301 in  New Jersey e 169 New York; ma già si prevedono nuovi possibili petizioni di analogo tipo da altri Stati.
In meno di 48 ore il Texas da 3771 ha raggiunto le 25mila firme necessarie, ergo Obama dovrà affrontare e dar risposta alla richiesta di secessione ufficialmente sollevata dai promotori. A seguito del clamore sollevato anche sui massmedia americani dall’iniziativa popolare dei primi 15 Stati iniziali, se ne sono aggiunti altri 14 (di cui 10 con almeno 150 firme): ArizonaArkansasCaliforniaIllinoisMichiganMissouri,  South CarolinaTennesseeVirginia, Wisconsin.
La geografia dell’area potenzialmente secessionista non si limita alla sola area della storica Confederazione degli Stati Americani di Jefferson Davis e del generale Robert Edward Lee, benché anche la dinamica degli eventi  parrebbe rievocare a parti opposte quanto accadde prima dello scoppio della Guerra Civile americana (1861-1865), con tanto di reincarnazione di Lincoln e non solo in celluloide.
In molti potrebbero bollare e ridurre tale iniziativa come la reazione “stravagante e folkloristica” di sparuti gruppi di individui, a torto facilmente accusabili a priori di essere “xenofobi e razzisti”, i quali da bastian contrari di fronte all’esaltazione collettivista massmediatica promossa dalla riconferma del comandante in capo nello Studio Ovale, minacciano addirittura la secessione. In realtà, tali petizioni non sono il parto di un manipolo di razzisti suprematisti bianchi del Ku Klux Klan. Se la data di presentazione post-elettorale delle petizioni appare non casuale (utile forse per attirare umoralmente gli scontenti alla loro firma), è anche vero che i recenti dati delle presidenziali non sono in sé direttamente una prova di un legame automatico tra la volontà secessionista dei firmatari, la loro connotazione politica e quella dell’intero Stato di appartenenza. Obama ha vinto in Colorado ed Oregon, così pure nello Stato di New York, nel New Jersey e in California, che non sono Stati del Sud né certamente tacciabili come pregiudizialmente razzisti per la loro storia passata;  le successive richieste di secessione da altri Stati dell’Unione dimostra come il fenomeno non si limiti al Dixieland.
 
I primi a chiedere lo scioglimento del proprio vincolo con gli Stati Uniti  sono stati i cittadini della Louisiana, citando la Dichiarazione d’Indipendenza affermante che è diritto del popolo sciogliere e formare un nuovo governo, quando quello vigente non rispetta il consenso dei governati: «Quando nel corso degli eventi umani, sorge la necessità che un popolo sciolga i legami politici che lo hanno stretto ad un altro ed assumere tra le potenze della terra, il separato ed uguale statuto a cui le Leggi della Natura e di Natura Dio gli danno diritto, è conveniente riguardo alle opinioni dell’umanità richiede che esso renda note le cause che lo costringono a tale secessione».
La petizione dell’Oregon,  afferma che lo Stato vuole restare un alleato degli Stati Uniti e possibilmente votare per rientrare nell’Unione solo una volta che «i cittadini dell’Oregon percepiranno il governo federale come non più imponente, ovvero un governo tirannico che non ha interesse per il futuro dei bambini dell’Oregon».
Leggendo la petizione ad esempio del Texas (Stato da sempre propenso a staccarsi dall’Unione, come non nascose in tempi recenti il suo attuale Governatore, il Repubblicano Rick Perry) si dichiara che: «Gli Stati Uniti continuano a soffrire le difficoltà economiche derivanti dalla negligenza del governo federale di riformare la spesa interna ed estera. I cittadini degli Stati Uniti soffrono di abusi evidenti dei loro diritti, come il NDAA, il TSA… Dal momento che lo Stato del Texas mantiene un bilancio in pareggio ed è la 15° più grande economia del mondo, è praticamente possibile per il Texas ritirarsi dall’Unione proteggendo i suoi standard di vita e i suoi cittadini, ri-proteggendo i loro diritti e le loro libertà in conformità con le idee originali e le credenze dei nostri Padri fondatori che non sono più il riferimento del governo federale».
Ma quali sono le idee originali e le credenze dei Padri fondatori a cui si riferisce la petizione? Non certo il ripristino della schiavitù, ma semmai il ripristino delle idee di Thomas Jefferson di decentramento federale dei poteri ai singoli Stati e ai loro cittadini, attraverso referendum locali e un più ravvicinato controllo sull’apparato statale, instaurando un governo minimo costituzionale, rispettoso dei diritti naturali di vita, scelta e proprietà dei suoi abitanti; tutto ciò che oggi è percepito assente a causa del dirigismo economico centralista imposto da Washington D.C sotto varie presidenze sia repubblicane che democratiche.
Obama con i salvataggi bancario-finanziari a Wall Street e all’industria dell’auto, e con il programma di assicurazione sanitaria obbligatoria (Obamacare) ha imposto a dispetto del X° emendamento della Costituzione (affermante che:  «i poteri non demandati dalla Costituzione agli Stati Uniti, o da essa non vietati agli Stati, sono riservati ai rispettivi Stati, o al popolo») scelte autocratiche a livello federale ai singoli Stati dell’Unione e ai loro residenti. Scelte che possono definirsi liberticide in nome della sicurezza nazionale, dell’uguaglianza e della lotta al terrorismo sulla scia di George W. Bush come ricordato nella petizione texana.
La sua larga riconferma alle urne non deve ingannare, a differenza di quanto narra la propaganda sinistrata dei massmedia tra le due sponde dell’Atlantico, gli americani che non sono persuasi del suo operato restano la maggioranza della popolazione, al di là della sconfitta subita da Romney (un candidato poco convincente, il quale non ha fatto il pieno di voti neppure nel suo stesso partito tra i Tea Party, i fiscal conservative e i libertari).
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Gli Usa dopo le recenti elezioni si confermano un Paese al suo interno profondamente diviso sul piano delle idee e delle proposte da adoperare per uscire dalla crisi: libero mercato e concorrenza tra Stati dell’Unione o pianificazione omologante ad opera del governo federale? Tali divisioni emergono a maggior ragione con la sconfitta dei Repubblicani, i quali hanno perso gran parte della loro capacità di attrazione e dirottamente delle istanze del Profondo Sud e della classe media statunitense all’interno di schemi consolidati di sistema a fronte di un Partito Democratico che è divenuto negli ultimi cent’anni un partito geograficamente nordista dedito a quel “sistema americano” di Big Government e consociativismo con lobbies della finanza e dell’industria, avversato nel XIX secolo proprio dai sudisti Democratici oppositori di Lincoln in quanto corporativista e non sostenibile senza tasse e protezionismo.
Gli elettori stanno capendo prima di altri che l’attuale sistema statunitense è uno status quo privo di prospettive reali di cambiamento in meglio, esso tende semmai solo a peggiorare producendo più tasse, più spesa pubblica clientelare e meno libertà economiche individuali.
Gli Usa hanno una disoccupazione ufficiale a poco meno dell’8% (ma in realtà usando i parametri degli anni ’80 è al 22%), un dollaro svalutatosi del proprio potere d’acquisto del 95% in un secolo e un debito federale di 16 miliardi di dollari insostenibile e a rischio futuro downgrade da parte delle agenzie di rating. Se entro il prossimo 31 Dicembre Repubblicani e Democratici non si metteranno d’accordo sul fiscal cliff, scatteranno tagli automatici alla spesa e aumenti feroci delle tasse, oltre alle nuove tasse preannunciate dal presidente (Carbon Tax), a cui potrebbe far seguito il mancato rinnovo del Tax Relief Act (l’estensione, per due anni, dei tagli fiscali voluti, a suo tempo, dall’amministrazione di George W. Bush) per ripianare i buchi di bilancio. Il  Budget Control Act (voluto dai Repubblicani all’indomani della loro vittoria al Congresso, che impone una serie di tagli alla spesa pubblica delle agenzie governative, predisposte per scattare automaticamente nel caso il debito superi un tetto predefinito) potrebbe anch’esso saltare a causa del keynesismo bipartisan post-elettorale rendendo vana la stretta fiscale imposta ai contribuenti, con un calo del PIL dal -1/-2,5% nel 2013 che affosserebbe ulteriormente l’economia a stelle e strisce.
Benché siano assai poche al momento le possibilità che tutte le petizioni abbiano un immediato successo sia in termini di numeri raccolti a norma di legge che quale suo seguito (non solo consensuale), non è detto che in un prossimo futuro non possano acquisire a livello politico (nelle legislature nei singoli Stati) e sui social network, una loro rilevante popolarità ed influenza generando movimenti grassroot mainstream di protesta secessionista ed indipendentista dall’Unione così come venutisi a realizzare negli ultimi anni con i Tea Party ed Occupy Wall Street.
In ogni caso le firme fin qui raccolte vanno lette  come un interessante segnale, un termometro sociale già da tempo oggetto di discussione in sede storiografica e in curiose analisi sociologiche, che il governo federale e l’establishment dei due principali partiti farebbe bene a non sottovalutare, la secessione quale opzione di libertà estrema senza compromessi è ancora oggi valida e viva nelle menti, nei cuori e nei portafogli di molti americani.

Numerosi imprenditori libertari degli USA hanno progettato e stanno finanziando un'isola artificiale ...

Numerosi imprenditori libertari degli USA hanno progettato e stanno finanziando un'isola artificiale permanentemente ancorata in acque internazionali, ma distante solo una dozzina di miglia dalla Silicon Valley, in California. Si tratta di un nave di colossali dimensioni trasformata in una città galleggiante, per sottrarsi alle vessazioni dello statalismo accentratore, parassitario ed opprimente, ed al suo previsto fallimento monetario, economico e culturale ...



Blueseed: al largo della California comparirà una “quasi nazione”

Fonte: L'Indipendenza, Quotidiano on line http://www.lindipendenza.com

di STEFANO MAGNI

Negli Stati Uniti la disoccupazione è aumentata dal 7,8% al 7,9% e la stampa progressista festeggia. Perché, tutto sommato, nell’ultimo mese sono stati creati 171mila posti di lavoro. E perché (e questo è incredibile), l’aumento degli iscritti alle liste di disoccupazione è visto come… un segnale di fiducia! Anche oltre Oceano, infatti, si dà per scontato che una buona parte dei disoccupati non sia neppure iscritta come tale, perché ha perso ogni speranza di cercare, oltre che di trovare, un nuovo impiego. Quell’aumento di 0,1 punti percentuali nel tasso di disoccupazione è dato, dunque, dai non lavoratori che hanno deciso di cercare. O di ricominciare a sperare.

Siamo così alla frutta? Non come in Italia, ovviamente. Negli Stati Uniti si parla di ripresa lenta. Da noi, invece, c’è proprio la recessione. Romney non ha tutti i torti quando sventola l’Italia (e la Grecia e la Spagna) come un “babau”: guardate dove possiamo arrivare, ha detto ai suoi elettori potenziali. La lentezza della ripresa negli Usa, così come la recessione dei Paesi mediterranei, sono causate dalla stessa piaga: spesa pubblica troppo alta, Stato troppo invadente, un debito pubblico pari o superiore al Pil. Ma c’è anche una causa invisibile e più profonda, che sfugge alle analisi economiche: la cultura statalista. L’idea che sia il governo a dover creare posti di lavoro, produrre beni e servizi, assumersi le responsabilità e i rischi dei suoi cittadini.

C’è chi dice “no” a questa cultura, prima ancora che al suo governo. Al di là di quei milioni di americani che, martedì prossimo, andranno a votare per le presidenziali e dovranno scegliere fra l’ultra-statalista Barack Obama e lo statalista moderato Mitt Romney (uno dei meno liberali fra i candidati repubblicani, secondo solo a Rick Santorum), un gruppo di 1000 imprenditori, il cui numero è in continua crescita, ha scelto di fondare una propria enclave. Il progetto si chiama Blueseed (“seme blu”) e uno dei suoi promotori è l’imprenditore visionario tedesco-americano Peter Thiel, già co-fondatore di PayPal e uno dei primi investitori nel social network Facebook. Si tratta di un’isola artificiale, costituita (secondo il progetto attuale) da una grande nave permanentemente ancorata in acque internazionali, ma distante solo una dozzina di miglia dalla Silicon Valley, in California, il luogo d’origine della new economy. Non si tratta (ancora) di una nazione a parte, ma di un luogo di produzione e di scambio. Il vantaggio di essere in acque internazionali, permetterebbe a imprenditori di tutto il mondo di iniziare l’attività su quell’isola artificiale, senza le restrizioni (a partire dal visto di lavoro) degli Stati Uniti. Per capirne l’utilità immediata, la pagina Facebook di Blueseed cita l’esempio di Asaf Darash, imprenditore israeliano di successo, fondatore della compagnia di informatica Regpack, appena espulso dagli Usa per un errore della burocrazia dell’immigrazione. Profitti, posti di lavoro in più, nuovi software… tutto buttato a mare per colpa di qualche scartoffia sbagliata. “Google e Yahoo! e Intel e tante altre famose compagnie – si legge sul sito Internet di Blueseed – sono state fondate anche da imprenditori immigrati ed hanno creato decine di migliaia di posti di lavoro, oltre a produrre servizi che usiamo tutti i giorni. Ma chi sa quante altre compagnie avremmo potuto avere, se i loro co-fondatori immigrati avessero ottenuto il permesso di restare nella Silicon Valley?”




Il progetto è esplicitamente dedicato alle start-up, alle nuove aziende. Specialmente quelle nate da idee rivoluzionarie. Ma potrebbe trasformarsi in qualcosa di più. Infatti l’isola artificiale non risponderà alle leggi americane, né per quanto riguarda le tasse, né per tutto il resto. La nave sceglierà una bandiera di comodo di un Paese con una tradizione giuridica anglosassone (come le Bahamas o le Isole Marshall), ma caratterizzato da una regolamentazione finanziaria, economica e fiscale molto più libertaria. Quanto al commercio con il resto del mondo, Blueseed si affiderà alla “lex mercatoria” di antica memoria: arbitrato fra privati.

La filosofia politica libertaria, allo Stato ha sempre contrapposto l’idea alternativa della privatopia. Dunque l’entità nata dalla proprietà privata e non imposta da un governo, i cui confini coincidono con le proprietà dei suoi abitanti e non con quelli tracciati da conflitti o trattati internazionali. Il problema è sempre stato il “dove” e il “come”. Piattaforme petrolifere abbandonate o navi itineranti sono già state usate, numerose volte, negli ultimi decenni, per ospitare “pirati” della radio o di Internet. Ma si sono rivelati sempre dei progetti effimeri e finiti male. Ayn Rand, nel suo romanzo filosofico “La rivolta di Atlante”, nel 1957 aveva immaginato una privatopia nascosta nelle Montagne Rocciose e sorta in uno scenario simile, in modo fin inquietante, a quello attuale. Nel romanzo era nata dalla volontà dello scienziato e imprenditore John Galt e aveva accolto centinaia di migliaia di uomini d’affari, intellettuali, artisti e menti creative di ogni genere, ormai strangolati da uno statalismo sempre più opprimente. La segretezza, secondo la fantasia dell’autrice, era necessaria. Perché, altrimenti, lo Stato avrebbe fagocitato quella privatopia e si sarebbe ripreso i suoi cittadini più talentuosi, con le buone o con le cattive.




La fine del progetto di città private in Honduras, imposta da una Corte Suprema locale ad ottobre, è l’ulteriore dimostrazione che lo Stato è sempre ostile all’idea di un’enclave libertaria nel proprio territorio nazionale. L’idea di costituire una privatopia sulle acque internazionali risolve, se non altro, il problema della territorialità. Ed evita la scomoda e pericolosa seccatura della segretezza. La tecnologia di questi ultimi due decenni consente di costruire navi grandi quanto città o addirittura isole artificiali sicure e vivibili. Anche dopo il sostanziale fallimento del primo progetto di “Freedom Ship” (1990), altri lavori sono in corso.

I due maggiori teorici del “Sea Steading” (proprietà originaria sul mare), Wayne Gramlich e Patri Friedman (nipote dell’economista, premio Nobel, Milton) da un decennio a questa parte stanno dimostrando, dati alla mano, che una privatopia sul mare sia realizzabile ed anche relativamente economica. Nel 2008, Gramlich e Friedman hanno fondato il Seasteading Institute, per diffondere queste idee e sostenere tutti i progetti in corso. La Blueseed, fra questi, pare proprio la realtà più promettente. La sua prima boa, da questo mese, si può già trovare su Google Maps. E i suoi ideatori promettono che entro la fine del 2013, o l’inizio del 2014, potrà essere inaugurata.

Gli Stati nazionali, da quel momento in poi, avranno a che fare con un nuovo soggetto, completamente inedito.