Benvenuti nel Blog di Claudio Martinotti Doria, blogger dal 1996


"Non nobis Domine, non nobis, sed nomini Tuo da gloriam", motto dell'Ordine dei Cavalieri Templari, Pauperes commilitones Christi templique Salomonis

"Ciò che insegui ti sfugge, ciò cui sfuggi ti insegue" (aneddotica orientale, paragonabile alla nostra "chi ha pane non ha denti e chi ha denti non ha pane")

"Quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell'Occidente è che perdono la salute per fare soldi. E poi perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente in tale maniera che non riescono a vivere nè il presente nè il futuro. Sono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto."
(Dalai Lama)

"A l'è mei mangè pan e siuli, putòst che vendsi a quaicadun" (Primo Doria, detto "il Principe")

"Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci." Mahatma Gandhi

L'Italia non è una nazione ma un continente in miniatura con una straordinaria biodiversità e pluralità antropologica (Claudio Martinotti Doria)

Il proprio punto di vista, spesso è una visuale parziale e sfocata di un pertugio che da su un vicolo dove girano una fiction ... Molti credono sia la realtà ed i più motivati si mettono pure ad insegnare qualche tecnica per meglio osservare dal pertugio (Claudio Martinotti Doria)

Lo scopo primario della vita è semplicemente di sperimentare l'amore in tutte le sue molteplici modalità di manifestazione e di evolverci spiritualmente come individui e collettivamente (È “l'Amor che move il sole e le altre stelle”, scriveva Dante Alighieri, "un'unica Forza unisce infiniti mondi e li rende vivi", scriveva Giordano Bruno. )

La leadership politica occidentale è talmente poco dotata intellettualmente, culturalmente e spiritualmente, priva di qualsiasi perspicacia e lungimiranza, che finirà per portarci alla rovina, ponendo fine alla nostra civiltà. Claudio Martinotti Doria

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Patriă Montisferrati

Patriă Montisferrati
Cliccando sullo stemma del Monferrato potrete seguire su Casale News la rubrica di Storia Locale "Patriă Montisferrati", curata da Claudio Martinotti Doria in collaborazione con Manfredi Lanza, discendente aleramico del marchesi del Vasto - Busca - Lancia, principi di Trabia

Come valorizzare il Monferrato Storico

La Storia, così come il territorio e le sue genti che l’hanno vissuta e ne sono spesso ignoti ed anonimi protagonisti, meritano il massimo rispetto, occorre pertanto accostarsi ad essa con umiltà e desiderio di apprendere e servire. In questo caso si tratta di servire il Monferrato, come priorità rispetto a qualsiasi altra istanza (personale o di campanile), riconoscendo il valore di chi ci ha preceduti e di coloro che hanno contribuito a valorizzarlo, coinvolgendo senza preclusioni tutte le comunità insediate sul territorio del Monferrato Storico, affinché ognuna faccia la sua parte con una visione d’insieme ed un’unica coesa identità storico-culturale condivisa. Se ci si limita a piccole porzioni del Monferrato, per quanto significative, si è perdenti e dispersivi in partenza.

Sarà un percorso lungo e lento ma è l’unico percorribile se si vuole agire veramente per favorire il Monferrato Storico e proporlo con successo come un’unica entità territoriale turistico culturale ed economica …

VAL SUSA. LA VERA ANIMA POLIZIESCA DELLO STATO ITALIANO. Forte coi deboli e debole coi forti

Fonte: L'Indipendenza, Quotidiano on line http://www.lindipendenza.com

di GILBERTO ONETO

Perché lo Stato italiano mostra i muscoli con tanta arroganza in Valsusa? Perché è invece paterno e tenero con chi interrompe autostrade e ferrovie lungo la penisola, con chi fracassa auto e vetrine in città? E, soprattutto, perché è così gentile verso i clandestini che distruggono i campi di accoglienza, gli zingari che aggrediscono i poliziotti o i malavitosi che si oppongono agli arresti di sodali e parenti? Perché ha abbandonato senza fare una piega quartieri, province e regioni in mano alla malavita organizzata italiana e foresta?
Invece diventa brutale contro i valsusini, contro un’intera comunità che cerca disperatamente di difendersi dai soprusi, da una prepotenza che non è giustificata da alcuna necessità reale, che non c’entra con il bene collettivo, non ha nulla a che vedere con la pubblica necessità, ma solo con interessi pelosi, appalti, connivenze e porcherie varie.
C’è una antica tradizione statale di violenze contro la gente: l’Italia unita ha per decenni e decenni utilizzato le sue forze armate quasi esclusivamente in funzione antipopolare. Stati d’assedio erano all’ordine del giorno nel regno d’Italia: Cialdini, Lamarmora e Bava Beccaris sono solo i nomi più noti di una generalizzata politica di oppressione militare contro ogni protesta o ribellione legittima della gente. Per decenni la spesa militare è stata la voce più cospicua del bilancio dello Stato: per essa si è affamata la gente con tasse vergognose. Si è tenuto in piedi un apparato mostruoso, che ha sempre dato prove miserrime nel compito per cui è stato creato, fare le guerre, ma che si è mostrato deciso ed efficiente solo sul fronte interno, contro gente inerme. L’arroganza e la durezza mostrate nelle repressioni di moti popolari e nella battaglie di piazza sono sempre state latitanti quando c’era da affrontare un nemico vero.
La struttura stessa del reclutamento e dell’organizzazione militare sono state subordinate a questa necessità di usare la forza all’interno più che all’esterno: ferme lunghissime e lontano dal luogo di origine, commistione regionale in tutti i reparti, rifiuto di ogni reclutamento territoriale (con la parziale eccezione degli alpini, poi – guarda caso – declassati a un corpo qualsiasi). Il vecchio trucco funziona anche oggi con reparti di polizia reclutati in terre lontane e spediti in Valsusa come forze di occupazione o – peggio – come truppa coloniale.
Perché lo Stato mostra qui i muscoli e altrove si comporta come una premurosa crocerossina?
Perché la sua esistenza non corre alcun pericolo quando si agitano immigrati turbolenti, camorristi e mafiosi, curve violente di tifoserie calcistiche, o rivoluzionari spinellati. Non gli fanno un baffo bandiere rosse o gagliardetti fascisti, non ha paura di sindacalisti, indignati, centrosocialisti e roba del genere: nessuno di loro turba l’ordine costituito costruito sull’oppressione fiscale, sulla perequazione maliziosa e sullo sfruttamento delle regioni più virtuose. Nessuno di questi rappresenta una istanza autonomista o territoriale, nessuno mette in pericolo i traballanti equilibri dell’unità e del suo parafernale infinito di business, affari, appalti e patriottiche abbuffate.
In Valsusa sono messi in gioco due dei dogmi fondanti dello Stato italiano: 1) il denaro dei contribuenti va impiegato a vantaggio di interessi organicamente connessi con il leviatano statalista, e nessuno deve discutere l’assoluta potestà della politica e della burocrazia statale a disporne in assoluta libertà; 2) il potere risiede solo a Roma e a Bruxelles e nessuna altra entità locale, popolare, identitaria o territoriale può opporsi alle sue decisioni.
Statalismo e centralismo non possono essere messi in discussione e – in un momento di grande difficoltà generale in cui potrebbero correre qualche rischio – si deve usare il pugno di ferro per schiacciare ogni fermento di libertà che potrebbe trasformarsi in una inarrestabile valanga. «Dalle valli alpine spira sempre il vento delle libertà” recita un antico proverbio che da sempre turba il sonno dei prepotenti chiusi nei loro palazzi. Così, per soffocare sul nascere ogni pulsione, lo Stato italiano tira fuori la sua vera anima poliziesca. Sarà un caso che il funzionario statale più pagato in Italia sia il capo della polizia?

Val Susa, l’abisso della democrazia

Fonte: MicroMega http://temi.repubblica.it/micromega-online

di Marco Revelli, da il manifesto, 28 febbraio 2012

La verità su quanto sta accadendo in Val di Susa, e sul suo significato generale, sta tutta in una quarantina di ore. Nel breve spazio che va dal sabato pomeriggio al lunedì mattina. Sabato, una valle intera - un popolo - molte decine di migliaia di persone, anziani, giovani, donne, bambini, contadini, operai, piccoli imprenditori, commercianti, "popolazione", riempiono le strade, i campi circostanti, le rotatorie e i borghi, per dire no al Tav. Pacificamente, con volti sorridenti e idee chiare in testa.
Lunedì mattina - come se niente fosse - una colonna di uomini armati marcia, secondo programma, sull'area-simbolo di Clarea, sui terreni di proprietà comune risparmiati dal primo blitz del 27 giugno 2011 e diventati il simbolo della resistenza, per occuparli. Indifferenti a tutto, muovono per spianare la Baita che ha ospitato in questi mesi l'anima della valle, come se con le ruspe potessero cancellare le ragioni di tutti. In mezzo, un uomo che cade da un traliccio, folgorato, e solo per miracolo non perde la vita.
Non servono molti discorsi per cogliere l'intreccio di arroganza, di stupidità, di sordità burocratica e di sostanziale disinteresse per i fondamenti della democrazia che muove un potere insensibile a qualunque argomentazione razionale e a ogni criterio di prudenza. Persino a ogni calcolo di costi e benefici. Incapace di leggere i numeri (anche se composto da fior di professori di economia) come di ascoltare le voci dei territori (anche se sensibilissimo ai sussurri dei mercati globali). Chiuso in un'assolutistica fedeltà ai soli interessi dei forti e ai progetti (insensati) degli apparati tecnocratici, a tal punto da non soprassedere neppure una settimana, neppure un giorno, nell'esecuzione di una decisione con tutta evidenza improvvida.
Ho sempre cercato di resistere alla seduzione delle teorie "catastrofiche" che annunciano l' "azzeramento della democrazia" di fronte all'onnipotenza delle tecnocrazie trans-nazionali e all'impersonalità dei mercati. Mi sembravano una diagnosi paralizzante. E tuttavia è difficile non cogliere l'evidenza empirica della forbice sempre più larga - un abisso - che si va creando tra le pratiche autoreferenziali e burocraticamente formali delle istituzioni nazionali e continentali (di quella che con drammatica ironia si chiama "politica") e le domande sempre più esasperate di partecipazione (o anche solo di ascolto) che salgono dai territori. Tra la "democrazia dell'indifferenza" che domina in alto, e la "democrazia della partecipazione" che abita in basso.
Non si tratta solo della pressione repressiva, che d'altra parte in Val di Susa si è fatta soffocante, ai limiti della tollerabilità costituzionale e anche oltre. Si tratta di una cosa più complessa che riguarda il delicato rapporto tra rappresentanti e rappresentati, giunto davvero - per lo meno sul piano nazionale - al punto di rottura, forse irreversibile. Si tratta di quell'organo essenziale in ogni democrazia (e che manca in ogni dittatura) che è l'udito: la capacità di ascoltare le voci della società, dei suoi diversi "pezzi", e di dar loro il giusto peso, come condizione per mantenere "coeso" un Paese, ed evitare l'esodo delle sue parti vitali.
In assenza di quel canale uditivo, un Paese si "slega". Se ignorata troppo a lungo nelle sue ragioni vitali, una popolazione esce dal patto civile che determina il grado e la forma della legittimazione. L'immagine della Grecia è esemplare: un popolo, una nazione, una società condannata alla morte civile in nome di dogmi fideistici coltivati e celebrati nel cuore istituzionale d'Europa, sulla base di ricette rivelatesi mortali agli occhi di tutti, tranne che a quelli dei decisori istituzionali. Come esemplare è l'immagine di quei poliziotti-scalatori che alla baita di Clarea, armati di corde scalano, implacabili, il traliccio indifferenti al rischio e alle parole di Luca Abbà, finché la tragedia non si compie.
Se non riempiremo quell'abisso di senso e di silenzio, se non sapremo riportare a terra il luogo della decisione sul destino dei beni di tutti ora evaporata nell'alto dei cieli finanziari e tecnocratici - ricominciando in primo luogo ad "ascoltare" - quelle di Atene e di Chiomonte non saranno le sole tragedie a cui assisteremo.

Sto tornando ad essere fiero di essere italiano, grazie al popolo della Val di Susa, un esempio per il mondo intero

di Claudio Martinotti Doria

Sto tornando ad essere fiero di essere italiano, non per motivi nazionalistici, in quanto coerentemente con quanto ho sempre affermato, l'Italia non è mai stata una nazione storicamente e culturalmente, e non lo sono certo per motivi politici ed istituzionali, essendo i nostri politici e le nostre istituzioni tra le peggiori del mondo occidentale, ma lo sono per l'enorme mole di iniziative di resistenza, di idee innovative, di fermento culturale e politico sociale che emerge dalla società civile che si oppone alla repressione del potere, alla rapina istituzionalizzata, alla confisca delle proprie risorse, alla devastazione del territorio, alla distruzione di ogni prospettiva e speranza. Un esempio per tutti è la coesione ed il comportamento perseverante del popolo della Val di Susa e dei No TAV, che sono un modello di riferimento ormai internazionale di come una comunità possa resistere a forze opprimenti preponderanti e violente e possa trovare solidarietà in altre comunità, formando un fronte comune più forte se non invincibile, esempio di autonomismo e libertarismo, nel senso di difesa ad oltranza dei propri diritti di libertà e proprietà che sono stati violati da interessi oligarchici cinici e spietati. Come scrissi già parecchie volte e da alcuni anni, è solo la protervia di chi detiene il potere e non conosce la storia che può convincersi che si possa vincere e dominare la volontà di un popolo di montagna, che in questo caso è simile come motivazioni e potenzialità allo spirito che aveva animato i popoli balcanici nel XVI secolo che guidati da Vlad Ţepeş III detto Dracul Voivoda di Valacchia e a Giorgio Castriota Scanderbeg (che aveva unito i principati dell'Epiro e dell'Albania) con poche migliaia di combattenti (in quanto i regnanti europei, compreso il cristianissimo re di Ungheria, erano troppo occupati a combattersi a vicenda ed a complottare a livello dinastico) fermarono per decenni l'esercito di Maometto II, forte mediamente di oltre 100 mila soldati ...
Forse varrebbe la pena di rileggere quanto scrissi in proposito nel mese di giugno 2011:


Se pensano di imporre la loro volontà in Valsusa sono degli illusi ...

E' risaputo che i nostri partiti politici sono divenuti ormai comitati d'affari, la partitocrazia uno strumento di potere economico e di malaffare, che ha scollato schizofrenicamente la politica dalla società civile, allontanandola dalla gente comune, inaridendola e volgarizzandola, manifestando un'ignoranza abissale ed indifferenza nei confronti delle problematiche reali e soprattutto della storia.

Cito un solo esempio, quello della TAV in Val di Susa.

I politici ed i loro cortigiani della carta stampata e della televisione, i cosiddetti media, sanno poco nulla sulla TAV e non fanno la fatica di documentarsi ed approfondire tecnicamente, altrimenti avrebbero capito da un pezzo che la TAV conviene solo a chi la propone e costruisce, non certo ai cittadini ed utenti che subiranno un enorme danno erariale che graverà sulle generazioni future, ma non è su questo che mi voglio soffermare, ma sull'ignoranza storico culturale dei nostri politici.

La prosopopea e l'autoritarismo cui sono avvezzi da tempo i nostri politici, li ha indotti a sottovalutare la gente di montagna e di confine, non sapendo che sono proprio coloro che ancora conservano importanti tracce storiche culturale ereditarie, dignità e fierezza delle radici e del loro passato, capacità di resistenza e perseveranza, ecc., molto più della media delle popolazioni peninsulari …

Non sanno i nostri politici, che la Val di Susa, la Val Chisone, la Val Varaita, ecc., nel 1343 si sono unite nella Federazione degli Escartons (una sorta di Repubblica democratica antesignana), firmando la prima Carta delle Libertà in Europa?

Era una carta costituzionale che affrancava la cinquantina di comunità aderenti dalle servitù feudali, sanciva il diritto alla libertà di ogni singolo individuo, il diritto inviolabile della proprietà privata e dell'autogestione comunitaria, equa ripartizione delle tasse, ecc. ... La Federazione prosperò sino all'acquisizione definitiva dei Savoia che imposero il loro dominio sull'area in seguito al Trattato di Utrecht che perdurò alcuni anni e si concluse nel 1713

E secondo i nostri politici, ignoranti ed insipienti, si possono imporre a queste popolazioni scelte liberticide con elevato impatto ambientale e sanitario?

Ma studiatevi la storia e ritiratevi a vita privata che è meglio! Oppure provate ad indire un nuovo referendum ...

La partitocrazia in Italia ha toccato il fondo del gradimento, ma i mass media fanno finta di nulla e continuano a reggere il gioco

Mi domando come si possa ancora avere fiducia in uno stato che in tutte le classifiche internazionali inerenti alcune qualità e valori che caratterizzano le civiltà, è sempre posizionato negli ultimi posti tra i paesi occidentali e a volte anche dietro parecchi paesi in via di sviluppo, ma soprattutto nel quale la stessa popolazione disprezza i partiti ed il Parlamento (vedasi l'inchiesta sotto pubblicata) fino a ritenerli deleteri per la vita del paese. Chi rappresenta lo stato ad alti livelli, se non affronta a viso aperto e con trasparenza questi riscontri dimostra di essere indegno del suo ruolo e di essere complice della situazione di malcostume e degrado che ci porterà alla rovina. E queste cose le dico da anni, in tempi non sospetti. Se non vogliamo alternare la gestione dello stato tra cialtroni indegnamente eletti e/o oligarchie tecnico finanziarie, occorre raggiungere una massa critica di cittadini che impongano riforme che favoriscano la democrazia partecipata e modelli di controllo, propositivi e decisionali, già collaudati in alcuni paesi come la vicina Svizzera. Claudio Martinotti Doria

Fonte: MicroMega http://temi.repubblica.it/micromega-online/

Alle origini dell’antipartitismo, fra Cavour e Gramsci

di Emilio Carnevali

Non passa giorno che non venga registrato e ribadito – meno frequentemente indagato – l'infimo livello di fiducia di cui godono i partiti, ovvero le organizzazioni alle quali l'articolo 49 della Costituzione assegna il compito di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».
Secondo una recente inchiesta condotta da Ilvo Diamanti la fiducia dei cittadini nei confronti dei partiti è arrivata a toccare il valore record (in negativo) del 3,9% (in una scala dove il primato positivo è detenuto dalle forze dell'ordine, con il 71,8%), e infatti quasi la metà degli italiani non li ritiene necessari al funzionamento della democrazia. Coerentemente con questo dato la fiducia nel Parlamento si assesta su livelli altrettanto bassi – 9% –, inversamente proporzionale al consenso di cui sembra godere, secondo altri sondaggi, l'attuale governo di “tecnici” (per definizione e senso comune “estranei alla politica”). Tanto che lo stesso Diamanti è arrivato a ipotizzare – sulla Repubblica di oggi – una Terza Repubblica non più «fondata 'da' e 'su' i partiti, ma 'contro' i partiti».
Si tratta di un fenomeno di cui non va assolutamente sottovalutata la portata sociale – anche per individuare pericoli e potenzialità che ne accompagnano l'accentuazione – ma di cui non va nemmeno sopravvalutata la novità storica. E dato che abbiamo appena celebrato il 150esimo anniversario dell'unità d'Italia può forse essere utile ricordare che la polemica sui partiti e il parlamento è antica almeno quanto il nostro Stato, ne accompagna la vita civile fin dalla sua nascita. Anzi, la precede persino (per quanto, naturalmente, il concetto di partito fosse allora molto diverso da quello “novecentesco” ancora operante, tutto sommato, nelle nostre democrazie).
«I partiti», scriveva Vincenzo Cuoco nel suo Saggio storico sulla Rivoluzione di Napoli, «corrompono l'uomo e l'uomo corrompe la nazione». Il patriota napoletano puntava allora il dito contro «i faziosi (importa poco di qual partito siano: è fazioso chiunque non sia del partito della patria)» così come Ugo Foscolo ammoniva che nel nuovo Stato ci si dovrà salvaguardare «dalla rabbia delle parti; che le parti là regnano dove uno, assoluto, universale non è il governo» (Orazione a Bonaparte pel Congresso di Lione). Riecheggiava ovviamente negli scritti di entrambi la dottrina contenuta nel Contratto sociale di Rousseau: «È necessario, perché si abbia chiaramente l'espressione della volontà generale, che non vi siano società particolari nello stato e che ogni cittadino non ragioni che con la sua testa».
L'antipartitismo che innervava la retorica del movimento nazionale poté in parte confluire, insieme ad altri elementi molto eterogenei, nell'antiparlamentarismo dell'epoca liberale immediatamente successiva all'unificazione secondo un curioso intreccio di processi storico-culturali. Come ha osservato lo storico Alberto Mario Banti nel suo Risorgimento italiano tale retorica «ha un notevole grado di coerenza con le argomentazioni di chi considera il Parlamento il luogo della corruttela perché, fra le altre cose, funzionalmente incapace di interpretare la volontà della nazione, incapace di individuare i superiori interessi della collettività».
Argomentazioni come quelle contenute in Corruzione elettorale. Studio teorico pratico (pubblicato nel 1894), nel quale Carlo Morini denunciava la corruzione dilagante e formulava una particolare speranza di riscatto: «Si riavrà, sì, la mia patria si riavrà, perché l'Italia ha due grandi presidi, la dinastia di Savoia e il popolo». A patto naturalmente che il potere regio possa manifestarsi «in tutta la sua libera, larga, razionale esplicazione». Da qui la necessità – predicata con grande forza da Sidney Sonnino nel suo celebre saggio del 1897 Tornare allo Statuto (albertino) – di ristabilire il primato regio sul governo, primato che gli era stato “usurpato” dal Parlamento fin dagli anni '50 (in epoca pre-unitaria, quindi), ovvero dalla prassi del mandato di fiducia introdotta dal primo ministro Camillo Benso di Cavour.
Si trattava di una letteratura esaminata anche da Gramsci nei sui scritti sul Risorgimento contenuti nei Quaderni del carcere, una letteratura – scriveva il fondatore del Partito comunista italiano – «dovuta ad elementi conservatori, furiosi per la caduta della Destra e della 'consorteria' (cioè della diminuita importanza nella vita statale di certi gruppi di grandi proprietari terrieri e dell'aristocrazia, ché di una sostituzione di classe non si può parlare), fegatosa, biliosa, acrimoniosa, senza elementi costruttivi»: «l''accusa' fatta al regime parlamentare di non essere 'nazionale' ma copiato da esemplari stranieri rimane una vuota recriminazione senza costrutto, che nasconde solo il panico per un anche piccolo intervento delle masse popolari nella vita dello stato».
D'altronde nella stessa tradizione risorgimentale – meglio ancora, nella stessa componente liberal-moderata che egemonizzò e guidò il movimento nazionale – è possibile rintracciare anche una cultura che fa della difesa del parlamento e dei partiti il principale argine per la salvaguardia dell'appena conquistata libertà costituzionale: «Un'esperienza di tredici anni», scriveva Cavour poco prima della spedizione dei Mille, «mi ha convinto che un ministero onesto ed energico, che non abbia nulla da temere dalle rivelazioni della tribuna e non si lasci intimidire dalla violenza dei partiti, ha tutto da guadagnare dalle lotte parlamentari. Io non mi sono mai sentito debole se non quando le Camere erano chiuse. D'altra parte non potrei tradire la mia origine, rinnegare i principi di tutta la mia vita. Sono figlio della libertà: è ad essa che debbo tutto quel che sono».
Abbiamo a che fare con discussioni troppo lontane nel tempo? Apparentemente non ci sono legami con il dibattito attuale: la crisi di autorevolezza della politica e dei partiti corre parallela all'affermarsi di soluzioni “tecniche” maturate con il combinato disposto dell'“iniziativa” dei mercati finanziari – capaci di defenestrare governi “a colpi di spread” – e di figure di garanzia come il Presidente della Repubblica (il rappresentante dell'«unità nazionale», art. 87). E in parte è così: l'apparenza non falsa realtà storiche davvero distanti e difficilmente sovrapponibili. Ma ci sono anche aspetti di quelle vicende, come abbiamo visto poco sopra, che – con la dovuta prudenza – possono essere fonte di utili ammonimenti.
E di lezioni utili è ricco anche il passato recente. Ad esempio può essere importante ricordare come il discredito in cui cadde “la politica” all'indomani della Rivoluzione di Tangentopoli (un grandioso sussulto contro la “corruzione elettorale” del nostro tempo), fu politicamente capitalizzato dall'“uomo dell'impresa”. Un uomo che si presentava estraneo ai giochi di palazzo della Prima Repubblica, alle stantie liturgie delle burocrazie di partito, alla lentezza esasperante delle procedure democratiche, all'ipocrisia della mediazione, del politicamente corretto, dell'omaggio reso ai decrepiti equilibri istituzionali su quali si fondava la nostra “Costituzione sovietica”.
Oggi ci troviamo di fronte ad un bivio: la crescente insoddisfazione verso “questa politica” può servire a far germogliare i semi di cambiamento e di rinnovamento presenti nel terreno della società italiana. Oppure può essere strumentalizzata in chiave regressiva da quelle che Gramsci chiamava «le 'forze occulte' e 'irresponsabili' che hanno per portavoce i 'giornali indipendenti'» (oggi potremmo aggiungere televisioni e blog): «esse hanno bisogno ogni tanto di creare movimenti occasionali di opinione pubblica, da mantenere accesi fino al raggiungimento di determinati scopi e da lasciare poi illanguidire e morire. Sono manifestazioni come le 'compagnie di ventura', vere e proprie compagnia di ventura ideologiche, pronte a servire i gruppi plutocratici o d'altra natura, spesso appunto fingendo di lottare contro la plutocrazia». (20 febbraio 2012)

LA LEZIONE GRECA? NON ESISTONO PASTI GRATIS.

Quanto avviene in Grecia non è frutto di fatalità e di logiche meramente capitaliste e finanziarie, complottismo o depredazione dei poteri forti. La Grecia dopo l'ingresso nell'euro ha imitato l'Italia socialista craxiana degli anni 80, assumendo a dismisura e distribuendo privilegi nel settore pubblico, spendendo enormente in opere pubbliche, incrementando corruzione, conventicole, camarille, ecc.. La responsabilità è politica, ma la popolazione dov'era in precedenza? Cosa faceva? Stava al gioco? Alla base di tutto c'è sempre il solito problema della dipendenza culturale e finanziaria dallo stato accentratore, della rinuncia alla libertà e responsabilità individuale per accettare il ruolo di suddito assistito, salvo poi ipocritamente rivoltarsi quando il giocattolo si rompe ... Claudio Martinotti Doria


Fonte: L'Indipendenza, Quotidiano on line http://www.lindipendenza.com

LA LEZIONE GRECA? NON ESISTONO PASTI GRATIS

di PAOLO REBUFFO*

Dopo i fatti di ieri e la decisione del parlamento greco di approvare la proposta di salvataggio della “Troika Fmi-Bce-Ue”, scrivo qui poche righe personali riguardo quello che a mio parere ci sta insegnando la vicenda di quel paese:

1) Non esistono pasti gratis

La Grecia ha vissuto per 10 anni, ovvero dall’entrata nell’Euro fino all’esplodere della crisi al di sopra delle sue possibilità. E lo ha fatto in maniera folle e sconsiderata. Il 62% dei lavoratori greci sono dipendenti pubblici, le pensioni vengono (venivano) erogate anche da 42 anni di età e normalmente a 51 anni, i testi scolastici sono a carico dello stato Università compresa a prescindere dal reddito, e potrei continuare. Il calcolo della classe politica greca è stato quello che “tanto qualcun’altro pagherà”. E’ molto probabile che alla base di questo calcolo ci sia stato anche la complicità dell’Unione Europea stessa, io non posso credere che le tutte le istituzioni europee non conoscessero il reale stato dei conti pubblici greci, che si sono scoperti “taroccati” fin dal giorno dell’adesione nell’euro.

Questo ultimo fatto però, a mio parere è un dettaglio, la realtà è che questo stato di cose è andato bene a TUTTI e lo ripeto TUTTI, cittadini compresi, finchè è durato. E’ ovvio che le classi dirigenti sapevano (o avrebbero dovuto sapere) quali fossero le reali condizioni dei conti pubblici e quali le conseguenze, ma hanno fatto finta di nulla fino al disastro.

Personalmente non mi convincono, ne mi convinceranno mai analisi che assolvono il povero cittadino al quale è stato offerto di andare in pensione a cianquant’anni, poteva ben rifiutare e cercarsi un altro lavoro (e farlo in pensione….ah già ma probabilmente lo ha fatto andando a lavorare in nero), non aveva un plotone di esecuzione che lo costringesse. Chi ragiona in questa maniera, cioè negando la responsabilità della scelta individuale di ciascuno o è in malafede, o merita un dittatore perché è un suddito e come tale effettivamente non ha alcuna responsabilità ma solo il dovere di obbedire.

E sapete cosa? Non so voi ma io rifiuto di pagare per costoro, almeno fino a quando non si siederanno al tavolo con me e rinunceranno a parte dei privilegi (perchè andare in pensione a 50 anni oppure farlo con trattamenti sproporzionati rispetto a quanto versato è un privilegio sulle spalle dei figli, chiamiamo le cose con il nome appropriato, non è MAI un diritto)

2) La Politica Conta

L’attore principale della tragedia greca è senza dubbio la peggiore classe politica di tutte le democrazie del mondo. Forse in Italia non lo si percepisce ma in Grecia vige una situazione che è ben peggio della nostra non compianta prima repubblica. Sulli scranni di Atene ci sono i cloni dei vari De Lorenzo, De Michelis, Craxi, Forlani… con un’aggravante i due partiti che fino ad oggi si sono divisi il potere sono dinastie familiari. Papandreau ad esempio è solo l’ultimo rampollo di una famiglia di socialisti, Nonno, padre e figlio tutti arrivati alla guida del Pasok.

Chi volesse farlo vada su Wikipedia e si legga la storia di George Papndreou e poi:

Geórgios Papandréu, il nonno
Andreas Papandreou, il padre

3) L’Europa ha fallito

L’Europa e l’Euro hanno fallito, inutile negarlo. Lo ammetto io ero un convinto europeista, dieci anni fa speravo che i vincoli europei facessero cambiare la situazione nel mio paese costringendo la politica alle riforme necessarie (ricordo che entrammo in quasi-bancarotta con i tassi al 15%). Mi sbagliavo, da una parte la cialtroneria della politica non finisce mai completamente di stupire in senso negativo dall’altro l’europa in questi 10 anni si è dimostrata troppo debole, ora è tardi per imporre le scelte di bilancio necessarie, la massa di debito è troppo grande e gli stati insieme (purtroppo) con i cittadini sono troppo assuefatti alla sua espansione. In questi 10 anni abbiamo avuto uno sconto sui tassi di interesse di circa 70mld all’anno. Ebbene ce li siamo bruciati in spesa pubblica improduttiva. Cioè in prebende, privilegi, pensioni, assunzioni pubbliche a pioggia. (p.s. dunque se tutti pagassimo le tasse ne pagheremmo meno tutti? Davvero? Rifletteteci su.)

L’Europa ha fallito perché debole e nata sul presupposto che i singoli stati si sarebbero resi più efficienti senza esserne realmente costretti . Io non so se alla base del calcolo che ha portato ai trattati di Maastricht e di Lisbona ci fosse veramente stata una volontà per distruggere gli stati nazionali e assoggettare i cittadini ad entità non elette, constato che è quello che sta accadendo in ogni singolo paese con debito elevato. Il processo in atto non è ancora irreversibile ma il tempo scorre inesorabilmente in quella direzione.

4) La piazza conta?

Questa è una bella domanda. Ieri ad Atene si è svolta una vera e propria guerriglia urbana, una rivolta sterile e in qualche modo utile ai palazzi del potere, a farne le spese solo qualche poliziotto mal pagato e le case e le automobili di qualche poveraccio ateniese (che non poteva permettersi un garage). Mi chiedo quale sarebbe stato l’esito del voto se i dimostranti avessero rotto il cordone protettivo intorno al parlamento. Ma forse è ancora troppo presto. I greci hanno fame ma non abbastanza. Anzi mi chiedo che effetto avrebbe fatto sulle cancellerie del resto d’Europa vedere messa in discussione l’incolumità fisica dei deputati. Forse sarebbe stato educativo. Non lo sapremo mai almeno a questo giro.

*www.rischiocalcolato.it