L’Italia ha un problema salariale palese, perlomeno nella garanzia delle retribuzioni delle fasce basse e medio basse. Lo ha rilevato di recente l’Ocse ricordando come mentre mediamente i salari sono cresciuti del 32,5% in termini reali nell’ultimo trentennio tra le economie più avanzate del pianeta in Italia la crescita è stata quasi nulla: +1%. Questo fattore è un dato importante che aiuta a capire, ad esempio, perché grandi successi nazionali come il boom dell’export siano difficilmente trasformabili in vittorie di sistema per l’economia italiana.
La questione dei bassi salari in Italia ha radici storiche complesse e non può esser giustificata con spiegazioni univoche. C’entro una moltitudine di fattori che hanno a che fare tanto con la struttura dell’economia italiana quanto con quella specifica del mercato del lavoro. l’impatto di diverse sfide sistemiche sul Paese. Un dato fondamentale con cui iniziare questa disamina è sicuramente l’annoso tema della bassa crescita della produttività del lavoro in Italia. Da analizzare (come si legge in questa analisi) in termini complessi: la produttività dell’industria si mantiene su trend di crescita discreti, compensata però da una stagnazione nel settore dei servizi che abbassa la statistica media.
Il lavoro e il nodo produttività
Il portale Parole di Management indica in questo fattore un depressore della quota salari: ” il Pil reale nazionale non decolla, il Pil pro-capite neanche e il potere d’acquisto continua a calare (circa il 10% in due anni). Con un aumento degli occupati dell’1,8% negli ultimi 12 mesi, il Pil reale è infatti cresciuto solo dello 0,6% (dati Istat a tutto aprile 2024). È ovvio che se si divide tale Pil sul nuovo numero di occupati, ne risulta che il valore prodotto per lavoratore (produttività) è diminuito. Questo fatti non sono una buona notizia per le possibilità di aumento dei salari”.
Ciò si lega al secondo tema: l’incertezza del mercato del lavoro in Italia. Nel 2022 era al 16,8% la quota di lavoratori che in Italia usufruivano di contratti a tempo determinato, poco meno di 3 milioni di persone, a cui si aggiungeva, secondo le statistiche più attendibili, un 10,8% di lavoratori che si trovavano con impieghi in nero o non regolarizzati. Tutto ciò rende a macchia di leopardo il mercato del lavoro.
Questo spiega anche perché i salari non decollino mentre l’occupazione, almeno nei dati ufficiali, è ai massimi storici. A marzo gli occupati sarebbero stati, secondo l’Istat, il 62,1% della forza lavoro, un record storico. Ma le unità di lavoro effettivo impiegate sono 93,7 ogni 100 dipendenti: significa che mediamente i lavoratori italiani non sono impegnati per il 6,3% degli orari tabellari previsti dai loro contratti collettivi nazionali di riferimento a causa di aumenti di fattori come il lavoro part-time, l’occupazione precaria e via dicendo. Difficile pretendere che produttività e quota del Pil crescano virtuosamente con questi fattori di partenza.
L’impatto dell’inflazione
C’è poi il tema del pesante impatto contingente dell’inflazione degli ultimi anni a cui non si è sommata una capacità della contrattazione collettiva di tutelare i salari dalla tempesta scatenatasi dopo il Covid-19: “Un primo punto da evidenziare”, nota LaVoce.info, “è costituito dagli andamenti legati ai rinnovi dei contratti nazionali di lavoro. L’indice Istat delle retribuzioni contrattuali nell’intero periodo post-pandemia, cioè fra il 2019 e il 2023, aumenta del 5,4 per cento; l’inflazione nello stesso periodo è stata pari al 16,2 per cento se si considera l’indice dei prezzi al consumo per l’intera collettività nazionale (indice Nic). In termini reali, i salari contrattuali si sarebbero quindi ridotti in quattro anni del 9,3 per cento”. Ora, di conseguenza, l’11,5% dei lavoratori è a rischio povertà o esclusione sociale.
Tutto si tiene
Rimettere il lavoro al centro dell’agenda pubblica è oggigiorno vitale per capire su che prospettive andrà e si strutturerà l’economia italiana. In un contesto di grande competitività internazionale della nostra industria e di prospettive di mercato crescenti e floride, l’Italia può e deve tutelare il fronte interno dei salari per dargli coesione e struttura. Un lavoro dignitoso e ben retribuito fa bene al Paese nel presente e nel futuro, garantendo la sostenibilità dei conti pubblici e delle pensioni in un sistema da quasi trent’anni totalmente contributivo: i pensionati di domani incasseranno tanto quanto avranno versato da lavoratori oggi. “Lavoratori poveri non possono diventare, un domani, pensionati ricchi”, ha di recente ammonito l’economista ed ex ministro del Lavoro Elsa Fornero. Un dato di fatto che spesso si tende a dimenticare analizzando gli scenari dell’economia e della previdenza nazionale. Tutto si tiene, col lavoro al centro.
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