L’Europa dopo il 9 giugno. E’ finita la festa?
di Roberto Pecchioli - 16/06/2024
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Fonte: EreticaMente
Ci sarà tempo per valutare le conseguenze delle elezioni
europee del 9 giugno, le ricadute italiane, le dinamiche dell’UE e
l’influenza sul quadro internazionale. Per ora ci limitiamo a osservare
la fragorosa sconfitta dell’asse franco – tedesco che governa l’Unione
da decenni; l’evidente contrarietà dei popoli d’Europa al bellicismo
antirusso; lo spostamento a destra non clamoroso ma progressivo,
consolidato nel tempo, delle opinioni pubbliche. Su tutto rileviamo
l’inutilità di un parlamento che non legifera e non decide, lo
scollamento crescente tra governi, classi dirigenti e popoli segnalato
dall’astensione (in Italia superiore al cinquanta per cento) e dal
successo – in qualche caso l’irruzione – di nuove forze politiche.
L’arretramento
delle forze politiche tradizionali – socialisti, popolari, liberali – è
generalizzato, benché disomogeneo, poiché molto diverse sono le culture
dei vari paesi. Le sconfitte di Macron in Francia e di Scholz in
Germania sono tuttavia troppo clamorose per non diventare storia. L’asse
dei bellicosi e dei guerrafondai non trova consenso: un dato
confortante. Prosegue il processo di scomposizione valoriale: più
conservatori i ceti popolari, più progressisti quelli elevati,
metropolitani. Anche l’atteggiamento nei confronti della guerra è
cambiato rispetto al passato: non più destre bellicose e sinistre
pacifiste. Il fosco linguaggio delle armi appartiene al centrosinistra
liberal, ideologia dei dominanti. Un esempio è un incredibile titolo di
Repubblica nell’ anniversario dello sbarco alleato nella Seconda guerra
mondiale: Kiev, la nuova Normandia. Alle armi contro l’Hitler del
Cremlino.
Incoraggiante è il successo del partito di Sahra
Wagenknecht, intellettuale tedesca “rossobruna” che oltrepassa il sei
per cento da zero. La Wagenknecht, autrice del best seller Contro la
sinistra neoliberale, ha proposto provocatoriamente ai partiti di
governo – socialdemocratici, verdi e liberali – di formare un
battaglione di politici e dei loro figli, se vogliono la guerra. Avanza,
sino a diventare la seconda forza in Germania, Alternative fuer
Deutschland, nonostante censure e persecuzioni legali. Capiremo nelle
prossime settimane se la batosta di Macron, l’ex enfant prodige della
casata Rothschild, diventerà disfatta alle elezioni legislative
francesi, o se funzionerà ancora il riflesso pavloviano che oltralpe
chiamano repubblicano, l’union sacrèe anti Le Pen.
Tra le grandi
nazioni, solo l’Italia conferma il consenso al governo in carica. Due
milioni e quattrocentomila preferenze per “Giorgia” – piacciano o meno –
significano qualcosa. Gli effetti Vannacci e Salis – uguali e contrari –
tengono in piedi Lega e sinistra radicale, mentre cambiano gli
equilibri a sinistra; avanza il PD (anche per merito di candidature
molto popolari) e crolla il Movimento Cinque Stelle. L’unica stella
rimasta è Pasquale Tridico, il padre del reddito di cittadinanza. Desta
ilarità la sconfitta degli ultrà di Stati Uniti d’Europa (brrr…)
capitanati dalla Bonino, a cui non serve la manforte di un Renzi
ingrigito. Stecca anche Calenda: due galletti diventati capponi nello
stesso pollaio, alle prese con l’opacità di una proposta politica che
non oltrepassa il recinto dei ceti riflessivi e abbienti. L’autentico
voto conservatore nella palude degli interessi.
Innegabile la
Waterloo dei sedicenti “antisistema”. Relegata al prefisso telefonico la
strana coppia Rizzo – Toscano (penalizzata dall’assenza nella maggior
parte delle circoscrizioni) arranca Michele Santoro, la cui lista
pacifista e “laburista” era forse troppo poco ideologica – quindi non
attraente – per l’elettorato più schierato a sinistra, che ha preferito
AVS. Comico l’esito della lista di Cateno De Luca (Libertà) ferma a un
umiliante 1,3 per cento, nonostante l’enorme numero di simboli e
movimenti inseriti nel contrassegno. Doppia constatazione: la confusione
cromatica, il guazzabuglio incomprensibile allontanano l’elettore, e
molti simboli sono risultati solo la proiezione egolatrica di aspiranti
leader di cartavelina. Personaggi in cerca d’autore, o di una poltrona.
Come capiva in anticipo ogni persona sensata.
A destra – usiamo per
comodità termini che rappresentano poco la realtà – il successo di FDI e
lo stesso exploit di Vannacci sembrano confermare la sostanziale
adesione – con sfumature che non intaccano la sostanza – degli elettori
di quell’area all’agenda europea e atlantica. Polverizzato il dissenso
conservatore, assente Indipendenza di Alemanno, sepolto senza rimpianti
il radicalismo di destra chiuso nel passato, ridotta al silenzio ogni
tendenza antieuro e anti UE, restano solo macerie. Di qualunque
orientamento, la galassia antisistema rafforza l’esercito del non voto,
diventato maggioranza aritmetica.
Che fare, allora? Chi trovasse la
formula giusta, avrebbe davanti a sé praterie elettorali, negate a
capetti improponibili, quasi sempre gatekeeper, ossia finti avversari
del sistema, creati per tenere a freno un dissenso vasto, probabilmente
maggioritario, ma privo di un denominatore comune. Le troppe delusioni
prodotte da chi aveva incarnato le varie anime dell’opposizione al
sistema rendono diffidenti. Nel caso italiano, nessuna offerta politica
era davvero antagonista: nessun accenno alla fuoriuscita dalla gabbia
dell’euro, nessuno metteva in discussione l’UE o la Nato. Nessuna
alternativa al modello socioeconomico liberal liberista: in quasi tutta
Europa, i sedicenti socialisti sono semplici progressisti d’accordo con
l’Agenda 2030, le privatizzazioni, le teorie gender e la mistica dei
nuovi “diritti” individuali e sessuali. Le destre non liberali ottengono
consensi su programmi economici, sociali, finanziari e culturali
alternativi, rivendicano sovranità e avversano il modello egemonico
americano, poi – conquistati i voti, qualche volta responsabilità di
governo – si accucciano mansueti ai piedi del padrone. Panorama simile
dall’altro lato, dove la devozione per i diritti “civili” ha distrutto
ogni rivendicazione sociale e la parola socialismo viene raramente
pronunciata.
Se questo è il catalogo, ovvio che ogni tendenza non
adattiva, antagonista in termini di principi, interessi, visione della
vita, non trovi rappresentanza. Strana democrazia che non rappresenta e
addirittura vanta la rinuncia alla sovranità nazionale, come il
presidente Mattarella che ha evocato una inquietante “sovranità
europea”. I più si rifugiano nel non voto, nell’indifferenza, nel
rancore. Altri votano per chi ritengono il meno peggio, o per dispetto,
in odio all’avversario. Tipico l’appello della sinistra a votare contro
la destra, ma abbiamo ascoltato esponenti di destra assicurare senza
rossore che “il peggior governo di destra è migliore del governo
migliore di sinistra”. Opposte tifoserie appostate nelle curve ultrà,
con vuoti sempre più larghi.
Si è tentati di pensare che sia l’anno
zero. Non è vero: il consenso reale del sistema è basso, la distanza tra
chi governa – élite o oligarchie – e i popoli sono immense, crescenti
quanto le differenze di reddito, prospettive, diritti reali. Bisogna
attrezzarsi per recuperare un’egemonia culturale (e di comunicazione)
saldamente conquistata dall’avversario. Non è solo questione di idee e
programmi. Serve un salto di linguaggio, di comunicazione, un approccio
che proietti all’attacco, non in difesa di una Fortezza Bastiani che
nessuno più attacca perché è stata abbandonata, come nel Deserto dei
Tartari di Dino Buzzati.
Viviamo nell’era del vuoto, teorizzata da
Gilles Lipovetsky in un saggio che vendette un milione di copie in
Francia, assai influente in molti paesi e pressoché ignorato da noi. La
politica è cambiata molto meno della società: per questo non ne
intercetta linguaggio, novità, tendenze. È vecchia nelle parole, nelle
forme e nei mezzi di comunicazione prima ancora che nei programmi,
intercambiabili e incomprensibili soprattutto alle generazioni più
giovani. Chi riesce a mutare d’accento, chi sa rivolgersi a una parte
della società indifferente, dormiente, in tutt’altre faccende
affaccendata, coglie nel segno. Talvolta diventa fenomeno mediatico. È
il caso, in Italia, della giovane youtuber romana Pubble, dall’umorismo
intelligente e tagliente, nazionalpopolare, capace di rovesciare i
luoghi comuni e diventare un’influente bussola politica.
La festa del
nemico oligarchico, della politica venduta o connivente continua, ma
esiste qualche fenditura; il vuoto non è più totale, qua e là si
intravvedono i segnali di un mondo che scricchiola, i prodromi di un
cambio di paradigma, unica speranza di arrestare il declino della
civiltà, ma anche di principi, interessi, bisogni che nessuno più
rappresenta. Un segnale arriva dalla Spagna, nazione per molti versi
sorella della nostra. L’orgia progressista non è certa terminata, la
timidezza dei suoi avversari continua a rendere difficile un’inversione
di marcia, ma le elezioni europee permettono un cauto ottimismo. Non
tanto per il sorpasso del centrista Partito Popolare ai danni dei
socialisti, e neppure per l’arretramento contemporaneo degli alleati di
governo, la maggioranza Frankenstein composta, oltreché dai socialisti,
dalla sinistra radicale e dai separatisti baschi, catalani e galiziani
di destra, centro e sinistra.
La novità non proviene dalle famiglie
politiche tradizionali, ma da un gruppo sconosciuto sino a qualche
settimana fa, ignorato da TV e giornali, trascurato dagli istituti
demoscopici, privo di sedi e finanziamenti, praticamente senza una vera
classe dirigente. Solo nell’ultima settimana si è percepito che qualcosa
cresceva nella rete e nei social media, Instagram, Tik Tok e nei canali
Telegram che si andavano formando, mentre X di Elon Musk (in barba alla
conclamata libertà che ostenta) sospendeva gli account per discorso
dannoso”, harmful speech. Il fenomeno si chiama Alvise, pseudonimo del
fondatore e frontman, Luìs Pérez Fernàndez, trentenne esperto di
comunicazione giovanile, maestro nell’utilizzo dei nuovi media, capace
di parlare in maniera diretta, semplice e senza mezzi termini a una
platea di seguaci (i follower) che si ingrossa di giorno in giorno.
Già
collaboratore di partiti moderati (Ciudadanos, Uniòn Progreso y
Democracia, praticamente scomparsi) si è messo in proprio e ha fatto
centro al primo colpo. Organizzatore di riuscite proteste contro il
governo Sànchez, inviso alle destre tradizionali, visto come il fumo
negli occhi dalla galassia progressista, è riuscito a trovare le
quindicimila firme per partecipare alle elezioni europee (dieci volte
meno che in Italia!) e ha ottenuto oltre ottocentomila voti, il 4,6 per
cento, portando se stesso e due semi sconosciuti sodali a Bruxelles. Non
ha potuto concorrere al voto come Alvise (la legge spagnola vieta
denominazioni personali) e ha avuto un’altra idea geniale. Ha chiamato
in gran fretta il suo movimento Se ha acabado la fiesta (La festa è
finita), un’espressione idiomatica nota a tutti gli spagnoli, di
evidente significato. I suoi sostenitori si chiamano “scoiattolini”
(ardillitas) ha scelto un cromatismo inedito in cui predomina il marrone
scuro e un simbolo molto significativo per il popolo del web, la
maschera di Guy Fawkes, rivoluzionario del XVII secolo, simbolo di
Anonymous, il movimento decentralizzato di attivismo hacker noto per
attacchi informatici contro imprese e istituzioni governative.
Le
idee di Alvise, con la consueta sbrigativa spocchia di chi vede
contestato il suo potere, sono impropriamente classificate come di
estrema destra. Non è così. Si tratta, eventualmente, dell’emersione
“politica” del fenomeno letterario, mediatico e culturale cyberpunk, la
tendenza che negli ultimi quarant’anni ha riformulato il rapporto tra
letteratura fantascientifica e immaginario tecnologico, influenzando le
controculture e i movimenti che usano Internet come strumento di
contestazione e di critica sociale.
L’analisi del fenomeno Alvise
merita un approfondimento, per capire se si tratta del colpo fortunato
di uno spregiudicato pirata delle reti sociali o se segna un punto di
inflessione, un’opportunità nel mondo dell’attivismo antagonista che non
trova una linea condivisa, una mappa concettuale e un programma in
grado di insidiare il sistema, un gigante dai piedi di argilla che
nessuno, finora, ha saputo scalfire. Ne parleremo nella seconda parte
dell’elaborato.
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