La Guerra del gas: dal Baltico al Sinai l'area di crisi si allarga
di Giuseppe Masala per l'AntiDiplomatico
Nella nostra epoca difficilmente si assiste a guerre di annientamento, ovvero a guerre dove i contendenti hanno come obbiettivo la completa distruzione e capitolazione del paese avversario. Naturalmente questo vale soprattutto per le grandi potenze dotate di armi tecnologicamente all'avanguardia e con capacità distruttive spesso devastanti.
Generalmente quando i conflitti contrappongono queste ultime si verificano delle cosiddette proxy war, ovvero delle guerre per procura nelle quali un paese fantoccio sacrifica il proprio territorio, e spesso anche il proprio popolo, per scagliarsi o contro la potenza avversaria del proprio Dominus oppure ad un altro paese fantoccio a sua volta alleato con l'avversario del proprio Dominus. Credo che il riferimento di questa situazione sia abbastanza facile: l'Ucraina di Poroshenko era un paese fantoccio alleato della Nato e degli americani che si batteva contro le repubbliche secessioniste di Donetsk e di Lugansk alleate della Federazione Russa, mentre l'Ucraina di Zelenskij, sempre paese fantoccio degli USA e della Nato, combatte direttamente contro la Federazione Russa.
Quando si scontrano due potenze del livello della Russia e degli USA ben difficilmente si arriva allo scontro diretto, perché appunto la logica è quella della proxy war, della “guerra per procura” tra paesi vassalli pronti ad immolarsi.
Ma anche gli obbiettivi dei conflitti non consistono più – come avveniva nel passato – nell'annientamento dell'avversario o nella sua completa capitolazione. Oggi gli obbiettivi dei conflitti bellici sono più sfumati e hanno generalmente – per una parte e per l'altra – una intera gamma di possibili traguardi intermedi da raggiungere, o direttamente durante le operazioni militari o successivamente nelle inevitabili trattative di pace che seguiranno.
Nella enorme guerra di sfinimento tra Russia (e Cina) da una parte e USA e vassalli dall'altra, certamente questo discorso sul ventaglio degli obbiettivi da raggiungere (in tutto o in parte) è pienamente valido. Se l'obbiettivo principale americano è – a mio avviso - quello di generare un enorme arco di crisi attorno ai confini della Russia e anche in Medio Oriente (dove la Russia ha interessi vitali) così da riuscire ad indebolirla a tal punto da provocare un crollo del regime di Putin, vi sono anche ulteriori obbiettivi intermedi da raggiungere: per esempio l'esplosione completa del Medio Oriente potrebbe portare al raggiungimento dell'obbiettivo USA di infliggere una sconfitta alla Russia in Siria con la perdita della fondamentale base navale di Tartus che consente a Mosca di pattugliare il Mediterraneo nonostante la chiusura del Bosforo a causa della guerra in Ucraina e nel Mar Nero. Oppure ancora, la guerra tra Armenia e Azerbaijan potrebbe portare all'obbiettivo di espellere la Russia dal Caucaso meridionale magari anche riuscendo a rinfocolare le pulsioni secessioniste nelle repubbliche russe del Daghestan e della Cecenia. Oppure ancora, le mai sopite tensioni tra Serbia e Kosovo che in prospettiva potrebbero portare al logoramento e alla caduta dell'attuale governo filo russo di Belgrado per uno filo occidentale. In questo contesto di obbiettivi parziali – che peraltro fa molta rima con il bergogliano “guerra mondiale a pezzi” – certamente ad avere un ruolo preminente è la cosiddetta Guerra del Gas.
Come ho detto tante volte, uno dei temi fondamentali per comprendere questa enorme crisi, che comunque covava dagli anni dieci del secolo, è necessario comprendere il meccanismo economico che dall'inizio del secolo ha dato alla Germania l'enorme competitività sui mercati mondiali sbaragliando i concorrenti (compresi quelli americani): da un lato il meccanismo prevedeva una politica economica europea incentrata sulla più asfissiante deflazione salariale e dall'altro lato il dumping energetico consentiva alla Germania di produrre a costi energetici contenutissimi grazie al fatto che i russi sostanzialmente regalavano il loro gas alla Merkel (la quale in cambio faceva intendere la possibilità – alle calende greche – di una entrata della Russia nell'élite dei paesi occidentali).
Architrave fondamentale di questa politica energetica europea e tedesca era ovviamente il gasdotto North Stream che collegava la Russia alla Germania pompando il gas necessario all'enorme apparato produttivo tedesco senza passare per paesi russofobi e filoamericani come la Polonia e l'Ucraina. Come sapete questa fondamentale infrastruttura è andata distrutta in una serie di esplosioni dolose avvenute il 26 Settembre 2022, peraltro a guerra ucraina pienamente deflagrata. Un fatto senza precedenti in tempi di pace (almeno presunta).
Immagine 1: Gasdotto North Stream con i punti dove sono
avvenute le esplosioni del 26/9/2022
Se il focus dell'analisi dei fatti si incentrasse sul cui prodest, ovvero su chi ha da guadagnarci dall'esplosione del North Stream la risposta è semplice: l'Ucraina che infligge un colpo molto pesante alla Russia proprietaria del gasdotto, la Polonia che riacquista centralità nella gestione dei flussi energetici diretti in Europa e provenienti dalla Russia, e soprattutto gli USA che vedono rompersi definitivamente quel cordone ombelicale tra energia russa a basso costo e apparato produttivo tedesco. Naturalmente non c'è alcuna prova certa che siano stati questi paesi a distruggere il North Stream ma sempre che non si voglia credere al harakiri russo che distrugge un suo asset fondamentale bisogna quantomeno prendere in considerazione l'ipotesi che a compiere l'attentato siano stati magari gli USA o dei pupazzi prezzolati al suo servizio. Cosa quest'ultima che il giornalista investigativo (e Premio Pulitzer) statunitense Seymour Hersh ha fatto propria citando fonti dirette sia americane che straniere.
Immagine 1: Gasdotto Balticconnector
Comunque le cose siano andate, si può comunque dire che nel Grande Nord è in corso una guerra dei tubi del gas senza esclusione di colpi. Una guerra che non sembra affatto conclusa con l'esplosione del North Stream. Infatti è proprio di qualche settimana fa una perdita di gas nel piccolo gasdotto - il Balticconnector – che connette Finlandia ed Estonia. Non hanno tardato ad emergere i sospetti che la perdita di gas sia dovuta ad un sabotaggio; le voci nel corso di queste ultime settimane si sono fatte sempre più forti. Infatti l'Ufficio Nazionale Finlandese di Investigazione (NBI) ha dichiarato che dalle indagini sul danneggiamento del gasdotto Balticconnector è emerso che la nave New Polar Bear, battente bandiera di Hong Kong, si trovava sia nell'ora che nel luogo in cui si sono verificati i fatti.
Alle dichiarazioni già esplosive della NBI finlandese si sono aggiunte quelle degli investigatori estoni che oltre alla ventilata incredibile ipotesi del “sabotaggio cinese” non hanno dimenticato di seguire la pista del Cremlino rilevando che la nave russa Sevmorput si trovava nella stessa zona durante l'incidente. Bontà loro, gli investigatori estoni impegnati nelle indagini, hanno comunque ammesso di non poter affermare con certezza che queste navi siano coinvolte nel presunto sabotaggio del gasdotto. Tanto comunque è bastato per far rilasciare una dichiarazione roboante al Presidente lettone Edgars Rinkivics, secondo cui la Nato chiuderà il Mar Baltico se verrà provato il coinvolgimento della Russia nell'attentato al gasdotto Balticconnector.
Una dichiarazione esplosiva quella del Presidente lettone che aggrava il già enorme stato di tensione esistente tra la Nato e la Russia. Per rendersi conto della gravità di quanto dichiarato basti ricordare che il blocco navale, per il diritto internazionale, equivale ad una azione di guerra; e non c'è dubbio che come tale verrà considerata dalla Russia, che mai accetterà di vedersi bloccato l'accesso al Mar Baltico, anche perché, una simile eventualità, significherebbe trasformare l'enclave russa di Kaliningrad - che è incastonata tra Polonia e Lituania - in una nuova Striscia di Gaza in piena Europa.
Immagine 2: il passaggio della nave Polar Bear in prossimità del gasdotto Balticconnector all'ora dell'avaria.
Al di là comunque di quelle che speriamo siano dichiarazioni fuori misura (se non direttamente fuori di senno) del presidente lettone, va registrato un primo passo ufficiale successivo alle dichiarazioni sul Balticonnector. La Russia si è ritirata dall'accordo di cooperazione transfrontaliera con la Finlandia.
L'arco di crisi si allarga sempre più, e ormai dal Sinai raggiunge il Mar Baltico.
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