La fine del “secolo americano”
di Giorgio Vitangeli - 24/10/2023
https://www.ariannaeditrice.it/articoli/la-fine-del-secolo-americano-45140
Fonte: Italicum
Con l’ingresso dei sei nuovi soci i BRICS riuniscono e
rappresentano ora il 47% della popolazione del nostro pianeta, un terzo
del “PIL” mondiale, la metà delle riserve petrolifere accertate e una
quota rilevante dei principali minerali, soprattutto di quelli
strategici necessari all’industria informatica e telematica, ed alla
“transizione energetica”. L’avanzata dei BRICS verso un mondo
multipolare – quello finanziario e monetario – che è percepito dagli
Stati Uniti e dall’anglosfera come un “attacco alla democrazia”. Il
secolo XXI° era stato preannunciato come “il secolo americano”. Sembra
essere invece il secolo che rivela il progressivo, irreversibile declino
dell’Impero americano.
Alla fine di agosto, mentre gli italiani che
ancora se lo possono permettere si godevano ignari le ultime giornate di
ferie estive ed i giornalini mainstream focalizzavano attenzione,
spazio e polemiche sulla minacciosa sortita del generale Vannacci, il
quale ha scritto un libro in cui ha osato affermare che chi nasce
maschio è un maschio e chi femmina è una femmina, che un omosessuale non
è normale, ed altre rivoluzionarie e complottistiche “farneticazioni”
di questo tipo, nella pressoché totale ignoranza della nostra pubblica
opinione, si sono svolte – l’una a Johannesburg in Sud Africa, l’altra a
Jackson Hole (Wyoming), negli Stati Uniti – due riunioni contrapposte,
che segneranno l‘immediato futuro non solo dell’Occidente, ma della
Terra intera. La prima, tenutasi dal 22 al 24 agosto, ha visto riuniti i
vertici dei Paesi del Gruppo BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud
Africa), mentre a ruota (dal 25 al 27 dello stesso mese) è seguito il
“meeting” dei vertici delle banche centrali, Federal Reserve e BCE in
primis.
Per collocare nella giusta luce i temi ed i risultati di quei
due “summit”, e valutarne correttamente il senso, è necessario però
qualche accenno allo scenario globale che ne ha costituito lo sfondo,
anche perché esso non sembra essere ancora pienamente percepito da gran
parte dell’opinione pubblica. E per farlo ci varremo delle stesse parole
di alcuni dei protagonisti
Come ha sottolineato nel suo intervento a
Johannesburg il presidente del Brasile Lula de Silva “il pianeta sta
affrontando una crisi straordinariamente pericolosa sia dal punto di
vista economico che politico, ed i rischi in gioco sono inaccettabili
per l’umanità”. I rischi in gioco sono quelli di un collasso del sistema
finanziario globale, sul piano economico, e sul piano politico che “la
terza guerra mondiale già iniziata” (per usare le parole del Papa
Bergoglio), scivoli lentamente ma ineluttabilmente verso un conflitto
nucleare. Robert Kennedy junior, figlio di Robert Kennedy e nipote di
John Kennedy, candidato alla “nomination” del partito democratico per le
prossime elezioni presidenziali americane, nutre evidentemente lo
stesso timore: in un suo intervento telematico ad una manifestazione
negli Usa, ha sostenuto infatti che dai tempi della crisi dei missili a
Cuba del 1962, mai come ora si è arrivati vicini ad un confronto
nucleare.
“Il mondo è entrato in un nuovo periodo di turbolenze e
trasformazioni”, ha osservato a sua volta nel “summit” dei BRICS a
Johannesburg – il presidente cinese Xi Jinping, usando parole più caute.
Ma la “turbolenza” non è certo di poco conto. Perché le
”trasformazioni”, cui ha alluso Xi Jinping, sono il passaggio da un
mondo unipolare, dominato dagli Stati Uniti e dalle “regole” da essi
imposte, a un mondo multipolare, caratterizzato da più protagonisti. Il
che comporta, come logica conseguenza, la fine del “signoraggio” del
dollaro sul resto del mondo, dell’egemonia di Wall Street e della City
di Londra nel mercato finanziario globale, e l’eclissi o una profonda
riforma degli organismi economici internazionali dominati dagli Stati
Uniti, a cominciare dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca
Mondiale. Insomma: una trasformazione epocale. E si capisce allora come
davanti a queste prospettive tutto un mondo nell’anglosfera – a
cominciare da quello “deep” che ne è il governo occulto – stia mettendo
in atto una resistenza disperata, che rischia appunto di arrivare
all’estremo confronto nucleare.
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Ma veniamo ora alle due
riunioni tenutesi alla fine di agosto, che di quelle “turbolenze” sono
appunto conseguenza e causa ulteriore, e cominciamo dalla seconda in
ordine di tempo, cioè dal summit dei banchieri centrali, perché
l’orientamento in esso emerso sta già impattando direttamente e
pesantemente sul futuro economico dell’Italia. Il messaggio che è venuto
da Jackson Hole è infatti molto chiaro: Sia il presidente della Federal
Reserve, Jerome Powell, che Christine Lagarde, presidente della Banca
Centrale Europea, hanno annunciato che “i tassi monetari sono destinati a
rimanere alti a lungo, quali che siano le conseguenze per l’economia”.
In altre parole: tra la lotta all’inflazione ed il sostegno
all’occupazione ed all’economia reale le banche centrali dell’Occidente
hanno scelto ora il primo obbiettivo, costi quel che costi. Non
cambieranno cioè politica nemmeno davanti all’inevitabile spinta
recessiva che tale politica comporta, e che danno per scontata. I segni
della recessione che avanza d’altronde sono già evidenti, unitamente a
quelli di un’inflazione che galoppa. Detto, fatto: a metà settembre la
BCE ha alzato i tassi di altri 25 punti base, portandoli al 4,5%. E’ il
decimo aumento consecutivo, ed il livello ora raggiunto è il massimo mai
toccato dalla Banca Centrale Europea.
In particolare, stupefacente è
la diagnosi ed allarmanti i propositi espressi dalla Lagarde. Secondo
la presidente della Banca Centrale Europea infatti l’inflazione è
causata da “shock nell’offerta”, cioè limitazioni nell’offerta di beni
e/o incremento dei loro prezzi, e non dall’eccesso senza limiti
dell’offerta monetaria (Whatever it takes), per salvare debiti sovrani e
bisca finanziaria globale dopo l’infarto dei mutui “subprime” originata
negli Stati Uniti alla fine del 2006. Per non parlare poi dei decenni
di sistema monetario internazionale incentrato su un dollaro stampato
“ad libitum”, senza più alcun ancoraggio all’oro. E quale cura la
Lagarde propone ed annuncia ora per risanare questi squilibri? Per
“salvare il pianeta”, essa afferma, le banche centrali attueranno
politiche che produrranno altri shock nell’offerta. Cioè meno credito ed
a prezzo più alto.
Ragioniamo: un aumento ulteriore dei tassi non
solo mette in difficoltà i bilanci delle famiglie, già provati
dall’inflazione, ma frena ancor di più gli investimenti delle imprese, e
quindi anche l’offerta di beni e l’occupazione. Come non bastasse la
Lagarde ricorda che una parte delle poche risorse dovranno esser
destinate al riarmo, per raggiungere l’obbiettivo di un 2% del PIL
richiesto nell’ambito della NATO. Ma non è finita: c’è la “transizione
energetica”. “Il cambiamento del clima e del mix energetico – dice la
Lagarde – aumenterà l’entità e la frequenza degli shock di
approvvigionamento energetico”. La folle politica europea di rapido
abbandono dei combustibili fossili (presunti responsabili del
cambiamento climatico) da un lato costerà all’Europa 600 miliardi di
euro all’anno; dall’altro comporterà forti riduzioni della produzione,
specie in agricoltura, e quindi spinte recessive accompagnate da
pressione inflazionistica sul prezzo dell’energia e dei generi di prima
necessità. Il processo è già in atto: la stessa BCE ha ridotto le stime
di crescita del “PIL” in Europa per i prossimi anni, mentre la
Commissione Europea aveva già ridotto la stima della crescita del “PIL”
nel 2023 in Italia, abbassandolo ad un +0,9%, mentre a detta
dell’Ufficio Studi delle Coop l’inflazione nei beni di consumo, in
particolare gli alimentari, è oggi dell’ordine del 15%. Ultima ciliegina
su questa torta avvelenata: la Lagarde ha citato uno studio della BCE
secondo il quale “se il commercio mondiale si frammentasse lungo linee
geopolitiche (cioè se si accentuasse la contrapposizione tra Occidente
da un lato e Russia e Cina a magari anche alcuni Paesi del Gruppo BRICS
dall’altro), “le importazioni reali potrebbero diminuire fino al 30% a
livello globale, e non potrebbero essere compensate da un maggior
commercio interno ai blocchi”. Una riduzione di circa un terzo
nell’offerta (e nella produzione) di beni che raggelerebbe l’economia
mondiale in una crisi devastante.
In anni non lontanissimi l’economia
mondiale dovette fare i conti con un “mostrum”: la “stagflation”, cioè
la coesistenza di stagnazione nell’economia reale ed inflazione nei
prezzi, che per la scienza economica oggi dominante è un assurdità. Il
mostro che ora si annuncia, e che anzi già è apparso, è ancora più
forte, perché l’inflazione coesiste non con la stagnazione economica, ma
con una vera e propria recessione. E per l’Italia questa sorta di
tenaglia rischia di avere effetti drammatici. Gli alti tassi infatti
rendono sempre più pesante il “servizio del debito”, cioè le risorse
necessarie per pagare i soli interessi del nostro debito pubblico. E la
recessione, cioè la riduzione del prodotto interno lordo, aggrava sempre
più quel rapporto tra debito pubblico e “PIL” che invece, secondo i
“diktat” di Bruxelles, dovremmo rapidamente ridurre, con tagli alle
spese e “macelleria sociale”, avvitando sempre più in basso la nostra
economia e le condizioni di vita.
Ma la posizione dell’Italia,
paradossalmente, per il momento è meno drammatica di quella della
Germania, che sta vivendo l’inizio di una vera e propria
deindustrializzazione. Se infatti la stima del “PIL” italiano per
quest’anno è ancora attivo, sia pure in misura da prefisso telefonico,
quello della Germania è negativo: -0,3%, e secondo l’autorevole Istituto
di ricerca IFO di Monaco “la situazione è cupa”. “Siamo già nel pieno
della deindustrializzazione“, ha dichiarato al quotidiano svizzero Neue
Zürcher Zeitung Sabine Nikolaus, amministratore delegato del gigante
farmaceutico tedesco Boehringer Ingelheim. Colpiti in pieno dalle spinte
recessive sono infatti in Germania i settori strategici dell’acciaio,
della chimica, delle costruzioni e dell’industria automobilistica. Basta
qualche dato a evidenziare la gravità della situazione in atto: la
produzione di acciaio (uno degli indicatori più significativi delle
tendenze congiunturali) ha accusato già nel primo semestre di quest’anno
un calo del 5,3%, e quella dei laminati si è addirittura più che
dimezzata. Nell’industria automobilistica (punto di forza sinora della
Germania) vi è stato un vero e proprio crollo: secondo il quotidiano
economico Handelsblatt da gennaio a maggio di quest’anno i quattro
maggiori produttori (Volkswagen, Audi, Mercedes e BMW) hanno prodotto un
milione di veicoli in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso
anno e le ordinazioni si sono dimezzate. Secondo l’amministratore
delegato della Volkswagen è addirittura in gioco ormai il futuro del
marchio. E l’amministratore delegato della BMW Oliver Zipse, osserva a
sua volta che “la deindustrializzazione sta lentamente guadagnando
velocità”.
Non tanto lentamente per la verità, a giudicare dai
numeri. Perché in Germania non sono solo gli alti tassi della BCE a
frenare investimenti e sviluppo. Il sabotaggio del Nord Stream e
l’ossessione della decarbonizzazione dell’energia voluta dai “verdi” al
governo ha infatti portato alle stelle i costi dell’energia in generale e
dell’energia elettrica in particolare. Risultato: i fallimenti delle
piccole e medie imprese sono aumentati del 16%; una percentuale analoga
di medie imprese sta trasferendo la produzione all’estero, ed un altro
36% sta valutando di farlo. E secondo un’indagine delle Camere
d’industria e Commercio tedesche (DIHK) quasi la metà (43%) delle
aziende industriali con più di 500 dipendenti sta considerando di
delocalizzare gli impianti di produzione all’estero. E com’è ovvio con
gli impianti andrebbero via dalla Germania occupazione, benessere e
“PIL”.
Vale la pena a questo punto di ricordare due cose. La prima è
che al termine della seconda guerra mondiale il Piano Morgenthau
prevedeva una radicale deindustrializzazione della Germania, che si
aggiungeva alla sua divisione in due Stati. Poi il Piano Marshall
rovesciò la scelta, perché la rinascita della Germania Occidentale, ed
in genere di tutta l’Europa non comunista, serviva agli Stati Uniti
nella lotta contro l’Unione Sovietica. Ma da allora la Germania è
tornata ad essere la prima potenza industriale d’Europa, si è
riunificata, ed aveva messo in atto, non solo nell’energia, una stretta
collaborazione con la Russia. Qualcuno deve aver deciso che questo era
troppo; sta di fatto che si è tornati al Piano Morgenthau.
La seconda
considerazione è che un tempo si diceva che quando la Germania ha il
raffreddore l’Italia ha la polmonite. Ma allora quale può essere il
futuro dell’Italia e della stessa Europa se la Germania ha una polmonite
bilaterale?
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Con la nave dell’Occidente che imbarca acqua e
rischia di affondare, non c’è da stupirsi se molti Paesi un tempo nella
sfera d’influenza dell’Occidente, guardino ora al Gruppo dei BRICS, ed
in numero crescente chiedono di entrarvi. E veniamo così al vertice di
Johannesburg che, per dirla con Xi Jinping, ha registrato “un
allargamento storico”. In effetti oltre venti Paesi del Sud del mondo
hanno chiesto l’adesione, e di essi per ora ne sono stati ammessi
all’unanimità sei, con decorrenza dal primo gennaio prossimo, e cioè
Argentina, Iran, Arabia Saudita, Egitto, Etiopia, Emirati Arabi Uniti.
Dunque Il Gruppo BRICS è più che raddoppiato: da 5 ad 11 membri. Restano
in lista d’attesa la Tunisia, l’Algeria, il Sudan, il Congo, la
Nigeria, il Senegal il Gabon, il Barhein, le Comore, il Kazakistan,
l’Indonesia, il Bangladesh, il Venezuela e la Bolivia. A Johannesburg
sono stati concordati e definiti inoltre i principi guida e le procedure
per l’ammissione di nuovi membri, alcuni dei quali, secondo alcune
fonti, parteciperanno probabilmente ai prossimi vertici come “Paesi
partner”. Ma già con l’ingresso dei sei nuovi soci i BRICS riuniscono e
rappresentano ora il 47% della popolazione del nostro pianeta, un terzo
del “PIL” mondiale, la metà delle riserve petrolifere accertate e una
quota rilevante dei principali minerali, soprattutto di quelli
strategici necessari all’industria informatica e telematica, ed alla
cosiddetta “transizione energetica” che l’Occidente, e l’Europa in
particolare, dichiarano di voler attuare. Ma al di là di queste cifre,
sono gli equilibri geopolitici mondiali che sono cambiati, ed ancor più
sono destinati a cambiare. In pratica quasi l’intera Africa – già
“cortile di casa” dell’Europa – ha aderito o intende aderire al Gruppo
dei BRICS. Significativo, anche a questo riguardo, il fatto che appena
finito il vertice di Johannesburg il presidente cinese Xi Jjnping e
quello del Sud Africa Cyril Ramaphosa hanno aperto il dialogo Cina –
Africa con i leader di dodici Paesi africani per fare il punto sullo
sviluppo del continente (ed esattamente un mese prima, il 27 e 28
luglio, c’era stato un vertice Russia – Africa a San Pietroburgo). La
Cina è già ora, di gran lunga, il primo partner commerciale del
continente africano, e per investimenti e progetti cinesi di costruzione
di infrastrutture, l’Africa ha superato l’Asia. Per una “corsia veloce”
di modernizzazione ed integrazione del continente africano sono state
annunciate nell’incontro sul dialogo Cina – Africa tre linee
d’intervento:
1) Intensificazione dell’assistenza e dei finanziamenti cinesi nei programmi di industrializzazione.
2)
Un piano per la modernizzazione dell’agricoltura africana e più
investimenti cinesi e cooperazione per aumentare la produzione di
cereali.
3) Un piano di cooperazione e sviluppo dei talenti locali:
ogni anno dovrebbero essere formati 500 insegnanti e ben 10.000 tecnici
con competenze linguistiche cinesi. Dunque: la presenza cinese in Africa
si estende sul piano linguistico e culturale, con l’ambizione di creare
in Africa una nuova classe dirigente che invece dell’inglese o del
francese nei rapporti sempre più estesi con Pechino parli cinese.
Per
quanto riguarda poi la presenza del Gruppo BRICS In Asia, in
prospettiva, alla potenza industriale della Cina e dell’India si
dovrebbe aggiungere quella dell’Indonesia, ed il Kazakistan, con le sue
enormi risorse minerarie (petrolio e metano, oltreché ferro e carbone, e
metalli strategici per le moderne industrie elettroniche, nucleari e
missilistiche). Non ultima dote kazaka la sua estensione (nono paese al
mondo) e la sua posizione strategica nell’Asia centrale, a cavallo tra
Europa ed Asia, sulla linea dell’antica via della seta. Analoga a quella
dell’Africa si prospetta infine la presa dei BRIC nell’America
meridionale, già “cortile di casa” degli Stati Uniti. Di fatto l’ombra
dei BRICS si proietta già sull’intero subcontinente, tranne l’esigua
fascia dei Paesi della costa dell’Oceano Pacifico. “Il Brasile non può
perseguire una politica di sviluppo industriale senza l’Argentina”, ha
dichiarato a Johannesburg il presidente brasiliano Lula. E questo spiega
come egli abbia tanto insistito per l’ingresso nei BRICS
dell’Argentina, che alla vigilia dell’incontro sembrava improbabile,
anche per le fortissime pressioni in senso contrario e al limite del
ricatto del Fondo Monetario Internazionale con cui l’Argentina ha un
debito “monstre” che vuole ristrutturare. Analoghe pressioni, secondo
fonti di stampa, erano state rivolte all’Egitto. Ma le une e le altre
sono risultate vane. Segnale anche questo di una calante “forza di
persuasione” del Fondo Monetario, e della speranza invece con la quale i
Paesi del Sud del mondo guardano ora alla Nuova Banca di Sviluppo dei
BRICS.
Ed eccoci all’altro aspetto dell’avanzata dei BRICS verso un
mondo multipolare – quello finanziario e monetario – che è percepito
dagli Stati Uniti e dall’anglosfera come un “attacco alla democrazia”,
una manifestazione ed uno strumento di “interessi imperiali cinesi e
russi”. In realtà quello che Stati Uniti ed Inghilterra sembrano temere è
che da un lato i BRICS si dotino di una moneta comune alternativa al
dollaro per gli scambi internazionali, minando quindi il primato della
moneta americana e le basi dell’attuale sistema monetario
internazionale, e che dall’altro, grazie alla loro Nuova Banca di
Sviluppo ed alla grande disponibilità di capitali della Cina per
investimenti all’estero, costituiscano una alternativa alla Banca
Mondiale ed un proprio circuito finanziario autonomo rispetto a quello
di Wall Street e della City di Londra. La prima ipotesi appare
irrealistica. E visti i guai ed i problemi suscitati dall’euro, che i
BRICS si dotino di una moneta comune forse per gli Stati Uniti e
l’Inghilterra più che un timore è una segreta speranza. La seconda
ipotesi invece, cioè che la Nuova Banca per lo Sviluppo creata dai BRICS
tolga spazio ed autorità alla Banca Mondiale è già un fatto.
Che i
BRICS non abbiano attualmente alcuna intenzione di costruire una nuova
moneta comune è apparso chiaro al vertice di Johannesburg. Nel suo
intervento in videoconferenza Putin non vi ha nemmeno accennato, ed ha
proposto invece che i cinque Paesi fondatori del gruppo dei BRICS
“svolgano un ruolo maggiore nel sistema monetario e finanziario
internazionale, sviluppando la cooperazione interbancaria ed espandendo
l’uso delle monete nazionali negli scambi commerciali”. Dunque: più che a
rinunciare alla sovranità monetaria a favore di una nuova moneta comune
la Russia, ed anche la Cina, pensano ad accentuarla, cioè a dare alle
proprie monete nazionali maggior respiro internazionale. Più
possibilista, ma restando nel vago, il presidente brasiliano Lula, che
ha accennato alla “costituzione di un gruppo di lavoro per studiare
l’adozione di una valuta di riferimento che potrebbe essere utilizzata
per le transazioni tra i Paesi membri” e che “ridurrebbe le nostre
volatilità aumentando le nostre opzioni di pagamento”.
Ben diverso il
tono delle dichiarazioni riguardanti la nuova banca dei BRICS che, ha
sottolineato Lula “ha il ruolo di fonte di credito da destinare a
progetti di sviluppo che aumentino la produttività fisico-economica”.
Investimenti dunque nell’economia reale e nelle infrastrutture.
“Attraverso la Nuova Banca di Sviluppo – ha ribadito la sua presidente
Dilma Roussef – possiamo offrire le nostre alternative di finanziamento
adatte alle esigenze del Sud globale”. Alternative, evidentemente, a
quelle della Banca Mondiale, ed alle “regole” spesso durissime e
ricattatorie che essa impone. Ed è inutile sottolineare come sia
soprattutto questa speranza, di poter ottenere finanziamenti per lo
sviluppo economico ed a condizioni eque, che spinge ormai decine e
decine di Paesi del Terzo Mondo a bussare alla porta dei BRICS. Ma, come
è emerso a Johannesburg, l’obbiettivo finale dei BRICS è ben più
ambizioso degli obbiettivi strettamente economici. E ne ha accennato
Putin, quando nel suo intervento ha invitato a “costruire una
partnership nella scienza, nelle innovazioni, nella sanità,
nell’istruzione e nei legami umani nel loro complesso”. Una partnership
dunque al posto di un’unica egemonia, e un mondo multipolare anche nei
modelli di civiltà al posto di un modello unico, fotocopia di quello
dell’Occidente, cioè degli Stati Uniti.
Il secolo da poco iniziato
era stato preannunciato come “il secolo americano”. Ma a giudicare da
questi primi due decenni, sembra essere invece il secolo che rivela il
progressivo, irreversibile declino dell’Impero americano, tra
“turbolenze” sempre più disperate e pericolose.
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