Gaza, nessuno deve sapere: Israele attacca via terra dopo aver imposto il blackout
28 Ottobre 2023
La soluzione finale non sarà teletrasmessa, questa l’evidente decisione presa dai vertici politici e militari israeliani. Ieri 27 ottobre, attorno alle sette di sera italiane, la striscia di Gaza è stata stretta da un blackout totale: nessuna copertura telefonica, né della rete internet. È la mossa finale di un assedio che già aveva privato gli abitanti di acqua, luce, rifornimenti di cibo e carburante. Poco dopo si sono scatenati i più violenti attacchi aerei dal 7 ottobre a questa parte e diverse unità di terra sono entrate nella Striscia. Non sappiamo se è l’inizio delle annunciate operazioni di terra (Israele gioca a confondere le idee su questo punto), ma da parte palestinese si annuncia che i combattimenti nelle strade tra le sigle della resistenza e l’esercito sono cominciati. Non sappiamo nemmeno quale sia il bilancio delle vittime, e questa è una scelta deliberata israeliana che, per essere sicura di non avere copertura mediatica degli ovvi massacri di civili che sta compiendo bombardando a tappeto una prigione a cielo aperto abitata da quasi tre milioni di individui che per la metà sono minorenni, oltre a tagliare ogni segnale ha anche avvisato i media internazionali presenti del fatto di non poter “garantire la sicurezza dei giornalisti”.
Le poche notizie che arrivano sono dovute alle scarne comunicazioni che i reporter riescono ad inviare per via satellitare (specie ad Al Jazeera) e a qualche pagina di controinformazione più strutturata che in qualche modo – anche qui utilizzando il satellite – riesce a inviare sui social, come “Eye on Palestine“. Tra le poche comunicazioni giunte ai media internazionali c’è quella di un cronista americano del canale NBC che ha dichiarato «Siamo ampiamente bombardati dall’artiglieria e dall’aria. Le persone trasportano i loro morti e feriti con i metodi più elementari. Nemmeno le ambulanze osano uscire». La situazione è gravissima e denunciata da tutte le organizzazioni internazionali e umanitarie: UNICEF e Organizzazione Mondiale della Sanità hanno annunciato di aver perso i contatti con il loro personale a Gaza, mentre Human Right Watch ha affermato che “Il blackout delle comunicazioni a Gaza potrebbe nascondere atrocità di massa”.
Se la tragicità della situazione umanitaria, per scelta deliberata del governo israeliano, possiamo solo immaginarla, su quanto avviene sul piano militare non si può fare nulla di meglio che riportare le rispettive propagande delle parti in causa. Le forze israeliane (IDF) hanno annunciato di aver colpito 150 obiettivi e distrutto cinque dei tunnel che sostituiscono l’infrastruttura sotto la striscia costruita da Hamas. Tel Aviv afferma anche di aver ucciso in una esecuzione avvenuta con “caccia guidati da precise informazioni di intelligence” Ezzam Abu Raffa, capo della cosiddetta aviazione di Hamas, ossia il generale della milizia che avrebbe pianificato il creativo attacco con i parapendii messo in atto il 7 ottobre scorso. Da parte sua Hamas afferma che “l’incursione di terra dell’IDF ha prodotto un nulla di fatto”. La situazione continua a scaldarsi anche sul piano internazionale, in una progressiva escalation che gli USA cercano di controllare da giorni mostrando i muscoli: una base americana è stata colpita in un attacco di droni in Siria, nuovi razzi sono stati sparati in Israele da parte degli hezbollah libanesi. Biden ha dichiarato che gli USA sono «pronti ad altre azioni contro gruppi pro-Iran» dopo che il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahian, aveva avvertito che se l’offensiva di Israele contro Hamas non finirà, gli Stati Uniti «non saranno risparmiati da questo fuoco». Per ora si tratta di scaramucce e secondo la gran parte degli analisti l’Iran non avrebbe alcuna intenzione di impegnarsi in una guerra contro Israele. Tuttavia il piano è inclinato e le azioni israeliane spostano ogni giorno un po’ più in alto l’asticella di quanto i Paesi arabi possono accettare, sotto pressione anche da parte delle proprie opinioni pubbliche che continuano a manifestare per chiedere ai loro governi di agire in difesa dei palestinesi.
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