Testimonianze – tutte di parte israeliana, affermano che gli elicotteri e poi i tank intervenuti hanno aperto il fuoco praticamente su tutto ciò che si muoveva falciando insieme ai guerriglieri di Hamas anche gli ostaggi, i civili, coloni e militari israeliani. Pare che una tale mattanza si riferisca alla cosidddeta Direttiva Annibale che stabilisce qualora vengano catturati degli israeliani, e non c’è possibilità immediata di liberarli – l’esercito deve uccidere tutti, sequestrati e sequestratori, per impedire successive trattative per liberare gli ostaggi.Questo spiega l'elevato numero di morti tra gli israeliani, si sono uccisi tra di loro. I numerosi cadaveri carbomizzati sono certamente vittime delle armi pesanti israeliane. Hamas questa operazione l'ha preparata da anni e non si presterà a giocare l di fuori delle tattiche predisposte, semmai sarà l'IDF ad adattarsi. Claudio
20 GIORNI DI TEMPESTA
Una analisi politica e militare dell’operazione al-Aqsa Flood, condotta dalle resistenza palestinese, che non solo rimette al centro la Palestina, ma ricolloca il baricentro dello scontro globale in atto, riportandolo in Medio Oriente – regione fondamentale non solo per il petrolio, ma per la sua collocazione geopolitica e la sua storia. È qui, allo snodo del continente euroasiatico e del Mediterraneo, dove si incrociano culture (ed interessi) diversi, che si gioca il nuovo match.
Credevamo – a ragione – che il conflitto ucraino rappresentasse un punto di svolta importante, forse decisivo, nel processo di trasformazione geopolitica globale, che sta transitando il mondo verso un’era multipolare. Ne avevamo colto sia, appunto, il fatto che segnasse un giro di boa, sia come fungesse allo stesso tempo da acceleratore del processo che portava alla luce. Una accelerazione riscontrabile – ad esempio – negli avvenimenti che hanno attraversato l’Africa sub-sahariana, o nella crescente saldatura tra i grandi nemici dell’impero americano, Russia Cina Iran e Corea del Nord – che invece il disegno strategico di Washington voleva dividere e colpire separatamente.
Ma quanto accaduto il 7 ottobre ha segnato una scossa ancora più
forte, più profonda. E che l’attacco sferrato dalle Brigate al-Qassam
contro l’occupante israeliano sia un momento importante dello scontro in
atto, è testimoniato proprio dalla portata delle reazioni. L’Ucraina,
già data comunque per sconfitta, è stata prontamente relegata nel
dimenticatoio, gli Stati Uniti si sono immediatamente mobilitati – con
una poderosa dimostrazione di potenza – nel sostenere in prima persona
l’alleato strategico nel Medio Oriente, e in occidente è scattata ancor
più forte e stringente che mai la negazione-repressione del dissenso. La
posta in gioco è alta.
C’è sicuramente una componente di rabbia,
nella reazione israelo-americana, per l’essersi fatti cogliere a braghe
calate da un nemico cui non si dava grande credito. Ma più di ogni cosa
brucia la consapevolezza che, dopo la sconfitta di fatto subita in
Ucraina contro la Russia, subirne un’altra in un’area strategica come il
Medio Oriente, e per di più da parte di un nemico minore come l’Iran, risulta inaccettabile.
Ovviamente la sconfitta di cui si parla non è quella militare – di cui vedremo più avanti – ma quella politica. Con la sua mossa, Hamas ha fatto saltare gli Accordi di Abramo, con cui gli USA cercavano da tempo di ricomporre un quadro di non-ostilità verso Israele da parte dei paesi arabi della regione. E che soprattutto miravano a riequilibrare i mutamenti dovuti al riavvicinamento tra Iran ed Arabia Saudita, ed alla riammissione della Siria nella Lega Araba – due fatti decisamente negativi per l’impero statunitense. Ha inoltre riportato alla ribalta internazionale la questione palestinese, che Washington e Tel Aviv da tempo cercano di mantenere in sordina. E, niente affatto secondariamente, ha distrutto il mito dell’invincibilità israeliana, e rimobilitato le masse arabe e musulmane, che sulla questione palestinese sono molto più radicali dei loro governi. Questo insieme di cose ha dato una scossa poderosa all’intero Medio Oriente, i cui effetti si vedranno nei mesi a venire.
Cosa non certo meno importante, la necessità di dirottare prontamente
aiuti economici e militari verso Israele, ha di fatto velocizzato il
processo di disimpegno – su entrambe i piani – nei confronti
dell’Ucraina, cosa che non mancherà di avvantaggiare la Russia sul campo
di battaglia, dove peraltro ha ripreso l’iniziativa offensiva quasi
ovunque.
Ma la questione cruciale è che adesso gli Stati Uniti sono
stati costretti a fare ben oltre un singolo passo in più, ed ora si
trovano sbilanciati in avanti sull’orlo di un abisso imperscrutabile.
Una crisi in Medio Oriente, infatti, è l’ultima cosa di cui Washington aveva bisogno.
Sul
piano interno, perché – se pure una guerra in difesa di Israele ha
maggiore consenso di quella ucraina – andare incontro alla lunga
stagione elettorale per le presidenziali, avendo ben due conflitti sulle
spalle, non è esattamente il viatico migliore per Biden ed i democrat.
Ancora peggio sul piano internazionale. La paziente ricucitura messa
in piedi tra Arabia Saudita ed Israele, e più in generale tra questo ed i
paesi arabi (i suddetti Accordi di Abramo), è andata in fumo in men che
non si dica. Nei paesi musulmani è riemerso con forza il sentimento
anti-USA (visti giustamente come padrini di Israele). Le
tensioni nell’area rischiano di far compiere un ulteriore balzo al costo
del petrolio, cosa che metterebbe in ulteriore difficoltà e
fibrillazione più di un alleato [1].
E, cosa più pericolosa di tutte,
si ritrova a dover muovere le (poche) pedine di cui dispone in uno
scacchiere esplosivo, ed in cui, comunque si muove, rischia di
sbagliare. Deve infatti ad un tempo sostenere l’alleato irrinunciabile,
cercando di tenerne a freno le pericolose irrequietezze, e
mostrare la propria fermezza nel presidiare l’area. Ma evitando
accuratamente che le cose deflagrino, trascinando gli Stati Uniti in una
guerra i cui esiti sono del tutto imprevedibili, e che oltretutto può
divampare a dimensioni fin troppo pericolose.
Questo il quadro geopolitico in cui si colloca l’azione delle Brigate al-Qassam – ma non solo.
Proviamo quindi, adesso, ad esaminare più nello specifico quello che è accaduto il 7 ottobre e nei giorni seguenti.
La
prima cosa da chiarire, è che questa operazione della resistenza
palestinese non ha visto in azione soltanto al-Qassam (ala militare di
Hamas). Questa narrazione è perfettamente funzionale alla costruzione,
da parte israelo-americana, di una contrapposizione dualistica: i terroristi di
Hamas contro la democrazia di Israele (né più né meno che lo stesso
schema usato per la guerra ucraina, basta cambiare i nomi degli
attori…). In realtà, l’operazione ha visto scendere in campo le
formazioni militari di più movimenti della resistenza palestinese, come
si evince chiaramente da un documento congiunto diffuso nei giorni
seguenti. Oltre ad Hamas, hanno partecipato la Jihad Islamica
Palestinese, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, il
Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina ed il Fronte
Popolare per la Liberazione della Palestina – Comando Generale.
È stata quindi una operazione militare delle resistenza palestinese
in senso ampio, e questo dovrebbe far riflettere tutti coloro che si
sono precipitati a solidarizzare ma prendendo le distanze da Hamas…
Quello che sappiamo, a tre settimane dall’attacco, è ovviamente ancora parziale, ed alcune cose possiamo soltanto ipotizzarle.
Al
primo punto, procedendo cronologicamente, c’è ovviamente la
pianificazione. Da quanto si apprende, l’elaborazione del piano, e la
predisposizione della logistica necessaria a portarlo a termine, ha
richiesto circa due anni. Nel settembre 2011, gli USA annunciano la
firma degli Accordi di Abramo, un patto trilaterale tra Stati Uniti,
Israele e Bahrein, che rilancia il processo di normalizzazione dei
rapporti tra paesi arabi ed Israele. Obiettivo dichiarato degli Accordi
è di estenderli quanto prima all’Arabia Saudita, paese-leader del mondo
sunnita. L’articolazione degli accordi è tale da mettere praticamente
una pietra tombale sulla prospettiva di uno stato palestinese.
Evidentemente, a questo punto si apre un dibattito tra le forze della resistenza, per capire come fermarne il processo.
All’incirca un anno dopo, comincia evidentemente a prendere forma
quello su cui le varie forze hanno concordato, ovvero la necessità di
sferrare un colpo capace di frantumare la prospettiva delineata dagli
accordi [2]. La pianificazione ovviamente non riguarda soltanto
l’attacco in sé, ma anche la predisposizione di quanto occorre per
fronteggiare il dopo.
La prima misura presa, e questo oggi lo
sappiamo, è stata la creazione di una rete di comunicazione cablata
chiusa, cioè non connessa ad alcuna rete telefonica pubblica, da
utilizzare per le comunicazioni. Questo – insieme al non utilizzo di
internet – ha consentito di tenere rigorosamente nascosto quanto si
stava realizzando. È ragionevole ritenere (ed alcuni elementi lo
confermano) che le stesse leadership politiche delle organizzazioni
coinvolte fossero tenute all’oscuro degli sviluppi organizzativi.
Sviluppi che hanno richiesto certamente la messa in opera di una serie
di provvedimenti.
Innanzi tutto, è stato necessario tessere una rete di contatti
operativi al di fuori della resistenza palestinese. Sappiamo per certo
che in Libano è stata stabilita una sorta di centrale di coordinamento,
che mette insieme responsabili militari delle varie forze palestinesi,
oltre a quelli di Hezbollah e dei gruppi consimili in Iraq. Ed è chiaro
che, soprattutto Hezbollah, è stata importantissima nel fornire armi,
addestramento ed esperienza. Addestramento che, date le condizioni di
sostanziale isolamento di Gaza, è presumibile che sia avvenuto
soprattutto all’interno della Striscia, e quindi in condizioni di
estrema difficoltà (visto che Israele la monitora costantemente sotto
ogni aspetto).
Proprio a seguito dell’inizio degli scontri con l’IDF
ai confini della Striscia, abbiamo avuto certezza che al-Qassam dispone
dei missili anticarro Kornet, che Hezbollah utilizza da tempo.
La
seconda misura è certamente stata la predisposizione di nuovi tunnel,
sia come deposito di armi e munizioni (ma anche scorte di cibo, acqua,
materiali di primo soccorso…), sia come rifugi per i combattenti, sia
come vie per lo spostamento delle unità, sia infine per superare le
recinzioni che separano Gaza da Israele.
Questa è stata probabilmente la parte più impegnativa, poiché è stato
necessario farlo nella massima segretezza, sapendo che i servizi
segreti israeliani controllano tutto ciò che avviene nella Striscia, e
certamente dispongono anche di numerose spie tra la popolazione.
Fondamentalmente,
quindi, i problemi da superare sono stati: l’accumulo di scorte, senza
che si notasse l’aumento delle importazioni di cibo; lo smaltimento dei
materiali di risulta degli scavi; le operazioni di scavo stesse;
l’evitare variazioni evidenti nel consumo di energia elettrica…
Si
deve tenere presente che parliamo di una rete estremamente vasta (si
ritiene estesa per circa 500 km), con ambienti ampi e strade
percorribili anche con mezzi motorizzati, spesso su più livelli, ed a
profondità variabile tra i 20 ed i 100 metri.
Ovviamente gran parte
di questa rete era preesistente, ma di sicuro è stato necessario
ampliarla in base alle esigenze del piano, così come è stato necessario
accumulare grandi scorte per fronteggiare il prevedibile assedio che
inevitabilmente sarebbe seguito all’attacco.
Una volta predisposte le misure necessarie – addestramento,
logistica, selezione delle unità da impegnare e loro preparazione – è
stato necessario predisporre anche le misure esterne, per consentire il successo dell’operazione. E ciò, fondamentalmente, significava essere in grado di superare le mura della prigione, e possibilmente cogliere impreparate le forze israeliane al di là della barriera.
Quello
che sappiamo al riguardo è che le guarnigioni di confine (appartenenti
alla Divisione ‘Gaza’ dell’IDF) erano assolutamente rilassate, poiché da
tempo non c’erano particolari problemi, né c’erano stati preallarmi da
parte dei servizi d’informazione. Inoltre, nei giorni precedenti
l’attacco, una parte delle truppe era stata spostata da sud al confine
con la Cisgiordania, dove invece si era registrato un aumento della
tensione. Possiamo presumere che ciò sia stato organizzato proprio dalla
resistenza, che in tal modo ha distratto parte delle forze di pronta
reazione dal fronte di Gaza.
Sappiamo inoltre che la penetrazione oltre confine è avvenuta almeno
in duplice modalità. In parte, superando il muro di recinzione con dei
tunnel scavati ben oltre la capacità di rilevamento dei sensori disposti
dagli israeliani (si parla di tunnel a 70 metri di profondità), ed in
parte disattivando con piccoli droni sia le telecamere di sorveglianza
che le torrette con le mitragliatrici automatiche collegate alle
telecamere. Laddove necessario, la recinzione è stata abbattuta con
bulldozer.
Una cosa importante da tenere a mente, anche per
sottolineare la natura militare dell’operazione, è che i combattenti
penetrati nei territori occupati da Israele erano in divisa, e ad un
certo punto è stata persino effettuata una rotazione delle unità
impegnate in combattimento.Ciò per sottolineare, ancora una volta, che
non si è trattato di un attacco terroristico, come è stato presentato dalla stampa occidentale.
L’operazione, scattata alle prime luci dell’alba per cogliere di
sorpresa le guarnigioni militari, aveva come obiettivo sia le caserme
dell’IDF che i kibbutz dei coloni. Sappiamo sin dal primo momento,
grazie al materiale video prodotto, che i combattenti palestinesi hanno
immediatamente occupato la caserma al posto di valico di Eretz (nord
della Striscia) ad almeno un altro insediamento militare, dove si
trovavano numerosi mezzi corazzati, tra cui alcuni carri Merkava.
Inoltre, mentre partiva un massiccio lancio di razzi verso le città
israeliane, alcune unità si sono spinte in profondità, sia verso nord
che verso est, e ad un certo punto erano avanzate talmente tanto che
mancavano pochi chilometri per raggiungere la Cisgiordania.
L’effetto
sorpresa (che in una guerra moderna, in cui le capacità di sorveglianza
sono elevatissime, è quasi impossibile) è stato semplicemente totale. E
con ogni probabilità ciò è stato dovuto (e poi amplificato) anche dalla
convinzione che questi goyam (letteralmente: animale,
sub-umano) palestinesi non potessero fare altro che lanciare di tanto in
tanto i loro razzetti fatti in casa [3].
A questo punto, occorre valutare quali fossero gli obiettivi militari dell’operazione. E si sottolinea militari, perché quelli politici (ovviamente assai più importanti) sono già stati chiariti.
Appare
evidente che l’operazione non poteva che avere obiettivi limitati,
nello spazio e nel tempo. Essenzialmente, quindi, doveva infliggere un
colpo quanto più duro possibile alle forze israeliane, e quindi
ripiegare su Gaza. Al tempo stesso, dovevano essere catturati quanti più
possibili militari e civili, in funzione di un successivo scambio con i
quasi 8.000 prigionieri palestinesi.
Questo obiettivo – la cattura
di prigionieri – è chiaramente sempre stato di massima rilevanza, così
come è chiaro che quanto maggiore ne fosse stato il numero, tanto più
sarebbe stata un leva potente nelle successive trattative di scambio. A
tal proposito, abbiamo come riferimento la registrazione video
dell’interrogatorio di un combattente palestinese catturato, il quale
afferma che gli ordini prevedevano l’uccisione solo dei civili maschi in
età di servizio militare.
È importante sottolineare questo aspetto
poiché, tenuto conto che stiamo comunque parlando di una operazione di
guerra, che ovviamente prevede scontri a fuoco col nemico, serve a
comprendere quale fosse l’interesse prevalente.
Una delle cose che sappiamo, è il numero di morti israeliani
comunicato dal governo di Tel Aviv. Già pochi giorni dopo è stata
diffusa una cifra elevata, che poi è via via aumentata, stabilizzandosi
infine a 1.400. Di questi, circa il 25% sarebbero militari dell’IDF.
Se
questa cifra fosse attendibile (e vedremo perché non lo è, ed in che
misura), ne conseguirebbe che circa 350 soldati israeliani sono stati
uccisi nel corso degli scontri, e che ben più di mille civili sarebbero
stati assassinati. Una cosa che contraddice quanto abbiamo considerato prima.
Ma, riguardo a questo gran numero di morti dichiarati, c’è più di una perplessità.
La
prima è che, ad oltre tre settimane dai fatti, Tel Aviv ha comunicato i
nominativi di circa la metà (meno di 700). E sinceramente appare assai
difficile credere che, in oltre venti giorni, non sia stato ancora
possibile identificare un così gran numero di persone. Se si tratta di
militari, infatti, questi sono indubitabilmente identificabili dalla
targhetta metallica che portano al collo (esattamente per questo scopo) .
Se si tratta di civili uccisi per strada, molto probabilmente avevano
con sé i documenti; se sono stati uccisi in casa, sono quasi sicuramente
gli abitanti. Ed in ogni caso, in un modo o nell’altro, questo lasso di
tempo sarebbe più che sufficiente per identificarli tutti, non solo la
metà.
Ma dietro questo numero – che appare sproporzionato sia agli
obiettivi dell’azione militare, sia al suo svolgimento, sia appunto per
la mancata identificazione – c’è con ogni probabilità ben altro.
Un’altra
delle cose che oggi sappiamo con certezza, è che la reazione militare
israeliana all’attacco non è stata soltanto (in parte) un po’ tardiva,
ma che soprattutto è stata indiscriminata. Ci sono numerose
testimonianze, sia di sopravvissuti sia – come vedremo – di militari,
dalle quali emerge con chiarezza che numerose vittime militari e civili
sono state fatte dall’IDF stesso.
Le ragioni di ciò risiedono in un
insieme di fattori. Dalle testimonianze – tutte di parte israeliana –
emerge che le forze dell’IDF intervenute erano costituite dapprima da
squadre di elicotteri da combattimento, e quindi successivamente da
unità corazzate. Ad esempio, quando i combattenti palestinesi hanno
attaccato il valico di Eretz – dove si trovavano numerosi militari ed
impiegati del ministero della difesa – una parte dei militari,
sopravvissuti al primo scontro a fuoco, si sono rifugiati nella sala di
guerra sotterranea, e da lì hanno lanciato l’allarme. Quando sono
arrivati gli elicotteri, hanno semplicemente aperto il fuoco sulla
caserma, radendola al suolo. Ciò sia nell’intento di impedire ai
guerriglieri di entrare in territorio israeliano (occupato), sia in virtù di una precisa disposizione.
Ugualmente, sia i piloti che numerosi testimoni civili, hanno
confermato che gli elicotteri e poi i tank hanno aperto il fuoco
praticamente su tutto ciò che si muoveva, distruggendo auto in
movimento, gruppi di persone in corsa, ed anche abitazioni dove si
sospettava fossero presenti gli uomini di al-Qassam. I militari
coinvolti hanno poi dichiarato di essersi trovati in condizioni di
urgenza, senza una precisa capacità di distinguere miliziani e civili, e
che in quella situazione hanno quindi scelto di aprire il fuoco sempre.
Sicuramente, al di là delle giustificazioni ex-post, va aggiunto che
l’intera catena di comando israeliano era in quei momenti nella
confusione più totale, e probabilmente anche nel panico, e che questa
sensazione di pericolo – amplificato ed imminente – si è trasmessa ai
militari inviati in prima linea.
Va però tenuto presente un altro elemento, per certi versi illuminante, ovvero la cosiddetta Direttiva Annibale.
Si tratta di una procedura militare istituita nel 1986, a seguito di
uno scambio di prigionieri (3 soldati israeliani per 1.150 prigionieri
palestinesi). Questa direttiva segreta, emanata al fine di evitare il
ripetersi di situazioni simili, stabilisce sostanzialmente che – qualora
vengano catturati degli israeliani, e non c’è possibilità immediata di
liberarli – l’esercito deve uccidere tutti, sequestrati e sequestratori [5].
Questo serve a spiegare sia l’elevato numero di morti israeliani
durante la fase attiva dell’attacco palestinese, sia l’evidente
indifferenza con cui Tsahal bombarda la Striscia, nonostante la presenza di oltre duecento civili e militari israeliani.
Ovviamente,
allo stato attuale è impossibile stabilire con certezza se quel numero
fornito (1.400) sia gonfiato o meno, così come quante siano le vittime
di fuoco amico. Di sicuro sono in numero elevato, proprio per
il tipo di armi utilizzate. Mentre i combattenti palestinesi infatti
utilizzavano soltanto armi leggere e spalleggiabili (gli RPG al-Yassin anticarro),
l’IDF sparava coi cannoni dei carri Merkava e con i missili degli
elicotteri. Tutti i cadaveri carbonizzati, che sono stati mostrati, sono
certamente riconducibili all’esplosione dei missili Hellfire.
Anche rispetto alla questione del festival rave,
le cose stanno diversamente da quanto raccontato ai media. Innanzi
tutto, come si vede dai video pubblicati, quando sono arrivati i
combattenti palestinesi con i deltaplani erano presenti guardie di
sicurezza armate ed in divisa, per cui è presumibile ci sia stato un
primo scontro a fuoco con queste. Dai testimoni sappiamo che molti
ragazzi sono fuggiti verso il vicino kibbutz di Be’eri, dove poi sono
stati raggiunti dagli uomini di al-Qassam, che li hanno catturati.
Quando poi sono giunte le forze IDF, come raccontato alla radio
israeliana da una dei partecipanti al rave, queste “hanno eliminato tutti, compresi gli ostaggi perché c’era un fuoco incrociato molto, molto pesante” [6].
Sempre in merito alla questione dei morti israeliani, ci sono ancora altri elementi da considerare.
Uno di questi, sicuramente alquanto ruvido,
è ricollegabile a quanto riportato prima, relativamente all’ordine di
uccidere i civili maschi. Si deve infatti tener presente che tutta
l’operazione palestinese, a parte i lanci di razzi, si è svolta
nell’ambito di territori occupati. Col termine territori
occupati si intende precisamente riferirsi a delle porzioni di
territorio che Israele ha occupato in seguito a guerre con i paesi
vicini, e che in base al diritto internazionale – nonché a numerose
risoluzioni dell’ONU – non solo avrebbero dovuto essere restituite da
tempo, ma che non possono essere annesse né tantomeno vi si possono
insediare abitanti del paese occupante. In termini di diritto
internazionale, quindi, quella che si svolge in Palestina è una guerra
di liberazione. Nello specifico, i coloni che abitano nei kibbutz,
nei villaggi e nelle città edificate nei territori occupati, non
soltanto vi si trovano in violazione delle leggi internazionali, ma sono
a tutti gli effetti parte del sistema di occupazione.
Oltretutto, i settler sono anche la base elettorale delle
forze dell’estrema destra sionista più radicale, e sono costantemente
impegnati nella persecuzione dei loro vicini arabi. Solo in queste
ultime tre settimane, ad esempio, i coloni hanno attaccato i palestinesi
in più di 100 incidenti, in almeno 62 città e villaggi della
Cisgiordania, a volte accompagnati da soldati.Sono quindi forze di
occupazione. E la decisione di uccidere i coloni maschi, seppure
ovviamente contraria al diritto di guerra, trova la sua ratio nella volontà di terrorizzare i settler,
e spingerli ad abbandonare le terre occupate illegittimamente. Una
cosa, questa, che peraltro i palestinesi hanno appreso proprio dagli
israeliani, che fanno esattamente ciò dal 1948. E per quanto suoni
sgradevole, se semini vento per settantacinque anni, prima o poi
raccogli tempesta.
Non a caso, l’operazione militare si denominava al-Aqsa Flood.
Un elemento importante da sottolineare, anche perché peserà non poco
sugli avvenimenti successivi ed ancora in corso, è l’impatto che
l’attacco palestinese ha avuto sulle forze politiche israeliane, sulle
forze armate, e sulla popolazione.
Come già detto, la sorpresa non è
stata solo tattica – la capacità militare di cogliere alla sprovvista le
difese israeliane – ma strategica: semplicemente i vertici
politico-militari di Israele non concepivano nemmeno che la resistenza
palestinese potesse realizzare qualcosa del genere. Di conseguenza,
quando è accaduto, si è generato il caos. Al caos ha fatto seguito il
panico, e poi la rabbia.
Ovviamente sono tutti consapevoli che
saranno ritenuti responsabili di questa impreparazione. E ciò non fa che
aumentare la rabbia, il desiderio di vendetta – quasi che questa
potesse cancellare gli errori fatti. Mentre tutto sommato la società
israeliana ha in buona parte reagito bene, nonostante lo shock,
parlando apertamente sia delle responsabilità interne, sia della realtà
degli accadimenti, la reazione di politici e militari è stata di ben
altra natura.
Il governo, già consapevole di avere contro una fetta importante del paese, e di non essere particolarmente simpatico all’alleato
americano, ha compreso immediatamente come questo evento rivoluzionasse
completamente il quadro politico, interno ed internazionale.
Ovviamente, la sua componente più estremista ha reagito mostrando senza
remore la propria arabofobia, e mettendo in luce i propri sogni di pogrom.
Ma Netanyahu, da politico navigatissimo, ha capito anche la delicatezza
del momento. Paradossalmente, da uomo simbolo del radicalismo sionista
contemporaneo, ha in effetti agito con prudenza, avendo chiaro da subito
che il coinvolgimento (e quindi l’approvazione) degli USA è essenziale.
Atteggiamento questo che lo ha portato ad entrare in frizione con i
vertici militari, che invece scalpitano dalla voglia di vendicare l’onta subita.
Oltretutto,
gli alti ufficiali israeliani sanno bene che – prima o poi – saranno
chiamati a rispondere non solo della mancata previsione dell’attacco, e
della risposta tardiva, ma anche delle numerose morti israeliane dovute
al caotico svolgersi di questa. E cercano quindi, in una ordalia di
sangue, di emendarsene per quanto possibile.
Evidentemente, quella che si è aperta con il 7 ottobre è una finestra
di opportunità. Riportare drammaticamente al centro del dibattito
mondiale la questione palestinese, significa concretamente rintuzzare i
tentativi di seppellirla, e rilanciare le possibilità di fare dei passi
avanti. Possibilità che sono legate anche al fatto che la tempesta scatenata dalla resistenza ha messo a nudo la debolezza di Israele.
Il
quale però è adesso un animale ferito, che non solo sta reagendo con
rabbia e ferocia, ma si trova ad un tornante impegnativo della propria
storia; insistere a perseguire la via dell’apartheid e dell’occupazione,
spinge sempre più il paese verso l’isolamento e – forse – la
distruzione, ma imboccare la via che conduce alla fine dell’occupazione è
altrettanto impervio, e potrebbe portare all’implosione di Israele.
Rinviare questa scelta è stato possibile sinché il mondo era comunque
dominato dalle potenze occidentali, che ne hanno resa possibile la
nascita, e che ne hanno garantito la sopravvivenza. Ma il mondo non è
più lo stesso. E così come la rabbia e la ferocia che imperversano su
Gaza tradiscono la consapevolezza che quell’era è tramontata,
altrettanto fanno le squadre navali americane fatte accorrere in fretta e
furia.
Il senso profondo del 7 ottobre 2023 (una data che resterà nei libri
di storia) è che gli arabi – non solo i palestinesi – hanno alzato la
testa. Questo è il significato di ciò che accade al confine libanese, in
Siria, in Iraq. Nell’immediato, Israele non ha altra alternativa che
attaccare. È la mossa sbagliata, strategicamente parlando, ma non può
fare altro, non può farne a meno. In qualche modo, dovrà andare oltre i
bombardamenti dall’aria. Dovrà, come si dice, mettere boots on the ground.
E “Hamas ha preparato il campo di battaglia. Il campo di battaglia è
esattamente quello che Hamas vuole che sia, si sono addestrati per
questo, sono pronti per questo. Israele invece ha mobilitato 300.000
riservisti che non sono stati addestrati a questo scopo, che non sono
motivati a fare una battaglia come questa” [7]. Da quanto riusciranno a
calibrare l’operazione di terra, dipende non solo se il conflitto si
estenderà o meno, ma anche come ne uscirà Israele. E, in fondo, con lui
l’intero occidente.
Il nocciolo della questione è molto semplice: “Il
sionismo politico deve essere sconfitto. Deve essere sconfitto
politicamente e deve essere sconfitto militarmente” [8].
Siamo tutti seduti su un barile di esplosivo (oltre che di
petrolio…), e basta una mossa falsa a far sì che quella finestra si
spalanchi sull’abisso. Se la guerra in Ucraina ha fatto temere a
qualcuno che ci stessimo avvicinando ad una deflagrazione ben maggiore,
una guerra regionale in Medio Oriente condurrebbe quasi sicuramente ad
un confronto totale tra le superpotenze.
Gli attori in gioco sono tanti, e ciascuno è anche portatore di interessi specifici – non ci sono semplicemente due fronti – il che rende estremamente complessa la partita. Per il momento, ci saranno (nella auspicabile ipotesi che nulla vada oltre)
mesi e mesi di tensioni, di guerra ad intensità più o meno limitata.
Poi, passata la tempesta, si aprirà la strada verso l’inevitabile
ridisegno strategico dell’intera regione. E noi europei dovremo capire
quanto sia più importante Gerusalemme di Kiev.
1 – Uno dei problemi enormi che implicherebbe un conflitto esteso,
anche solo parzialmente, all’Iran, è che questo potrebbe agilmente
bloccare lo stretto di Hormuz. Come sottolinea l’analista Pepe Escobar (“Iran-Russia set a western trap in Palestine”, the Cradle), “Il
cuore della questione in ogni strategia russo-iraniana è lo Stretto di
Hormuz, attraverso il quale transita almeno il 20% del petrolio mondiale
(quasi 17 milioni di barili al giorno) più il 18% del gas naturale
liquefatto (GNL), che ammonta ad almeno 3,5 miliardi di piedi cubi al
giorno”.
2 – Ciò che doveva essere fatto era un’operazione
militare di tale portata e scala da cambiare l’intero paradigma in Medio
Oriente. E questo è quello che è successo”, intervista all’analista americano Scott Ritter sul canale ‘Dialogue Works’.
3
– Per quanto riguarda il disprezzo e l’odio verso gli arabi che nutrono
molti israeliani, basti ricordare le dichiarazioni di alti esponenti
governativi e diplomatici, dal Ministro della Difesa al rappresentante
presso l’ONU, Gilad Erdan, un fanatico estremista che – parlando
all’Assemblea Generale – urlava “stiamo combattendo animali”. Secondo
numerosi video, registrati dagli israeliani stessi, li si vede mentre
profanavano i cadaveri degli uomini di Hamas uccisi dalle forze di
sicurezza, spogliandoli nudi, urinando su di loro e mutilandone i corpi.
4 – Secondo quanto riportato da Max Blumenthal (“October 7 testimonies reveal Israel’s military ‘shelling’ Israeli citizens with tanks, missiles”, theGreyzone), “almeno
340 soldati attivi e ufficiali dell’intelligence sono stati uccisi il 7
ottobre, rappresentando quasi il 50% delle morti israeliane confermate.
Tra le vittime figuravano ufficiali di alto rango come il colonnello
Jonathan Steinberg, comandante della Brigata Nahal israelian”.
5
– Sul tema, di fondamentale importanza il già citato articolo di
Blumenthal, ricco di riferimenti alla stampa israeliana; un vero e
proprio report sulla questione.
6 – Cfr. Max Blumenthal, ibidem
7 – Cfr. intervista a Scott Ritter su ‘Dialogue Works’.
8 – Cfr. intervista a Scott Ritter, ibidem
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