Nuove tensioni in Kosovo: scontri a fuoco tra serbi e polizia
Continuano le tensioni tra le autorità di Pristina e gli abitanti di etnia serba nel nord del Kosovo, dove nei giorni scorsi si sono registrati scontri violenti tra la polizia kosovara e un commando armato che, secondo le autorità di Pristina, avrebbe avuto il «sostegno finanziario e logistico di Belgrado», un’accusa respinta seccamente dal governo serbo. L’attacco è avvenuto in una località vicino al confine con la Serbia, nel nord del Paese, nei dintorni di un monastero a Banjska – un villaggio nella provincia a maggioranza serba di Zvecan – e ha causato l’uccisione di un poliziotto kosovaro e di diversi membri del commando, oltre a una serie di feriti. I superstiti del gruppo armato si sarebbero poi asserragliati in un monastero per arrendersi dopo alcune ore. Contemporaneamente due valichi al confine tra Kosovo e Serbia sono stati chiusi.
Il presidente serbo Vucic ha dichiarato di condannare l’uccisione del poliziotto che non è giustificabile, ma che a causarlo sarebbe stato il «terrore del Primo Ministro delle istituzioni temporanee di Pristina, Albin Kurti». In una conferenza stampa tenuta poco dopo l’accaduto, Vucic ha spiegato che intorno alle 2.46 del 24 settembre due camion sarebbero stati piazzati come barricate a Zvecan, «poi è arrivata la polizia del Kosovo e ha cercato di rimuovere quelle barricate, c’è stato un conflitto con i serbi che avevano allestito le barricate, e in quel conflitto è stato ucciso un poliziotto (Kosovaro) e un’altra persona è rimasta ferita». Vucic, inoltre, non solo ha affermato che lo scontro si è verificato perché il contingente NATO KFOR (Kosovo Force) non è intervenuto, ma anche che «tutto sarebbe stato preparato» per far ricadere la colpa sui serbi: «Dico da mesi che tra il popolo serbo sta crescendo la resistenza e la ribellione, oggi il conflitto e la morte di un poliziotto albanese è avvenuto perché non è intervenuta la KFOR, la cui giurisdizione è il nord, ma la polizia albanese», ha asserito.
Da parte sua, Kurti ha parlato di un attacco «effettuato da professionisti, mascherati e dotati di armi pesanti». «La criminalità organizzata, con il sostegno finanziario e logistico dei funzionari di Belgrado, sta attaccando il nostro Paese», ha aggiunto prima di parlare con gli ambasciatori di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia. Quanto alla reazione della cosiddetta “comunità internazionale”, coincidente prevalentemente con le potenze occidentali, il presidente serbo ha parlato di «ipocrisia», sostenendo che l’obiettivo è «fare pressione sulla Serbia finché non riconosceremo il Kosovo, ma non riconosceremo mai un Kosovo indipendente, e parleremo sempre, siamo sempre pronto ai colloqui».
La Serbia non riconosce l’indipendenza della sua ex provincia sin dal 2008, anno nel quale è stata dichiarata unilateralmente da Pristina l’indipendenza con il supporto di alcune tra le maggiori potenze occidentali, come ultimo capitolo delle guerre balcaniche degli anni Novanta. Molti Stati tra cui Russia, Cina, Spagna, Cipro, Grecia, Slovacchia e Romania non riconoscono la legittimità di Pristina. Il Kosovo ha una popolazione di circa 1,8 milioni di abitanti, in maggioranza di origine albanese, che comprende però anche una comunità serba di circa 120.000 persone, prevalentemente nel nord, a cui – in base alla Costituzione del Kosovo del 2008 e agli accordi stipulati a Bruxelles per la regolamentazione tra i due territori – viene garantito il diritto all’autogoverno. Le tensioni però sono tornate a crescere lo scorso maggio quando nelle province del nord a maggioranza serba sono stati eletti sindaci albanesi con le conseguenti proteste dei serbi. Durante le manifestazioni sono rimasti feriti una cinquantina di dimostranti e trenta militari NATO, tra cui quattordici italiani.
Sull’onda di queste tensioni, ancora prima dei fatti accaduti a Banjska, due giovani fratelli serbi erano stati aggrediti e picchiati a Gracanica, enclave serba a pochi chilometri dalla capitale Pristina, mentre ordigni esplosivi erano stati lanciati contro le abitazioni di tre dirigenti della comunità serba a Ranilug. Vucic ha invitato la comunità internazionale a formare il Consiglio di Sicurezza Nazionale, dichiarando che i serbi devono essere poliziotti nel nord, perché «solo così i serbi non verranno più espulsi e non ci saranno più conflitti», ha detto il presidente. Tuttavia, forse in un impeto di rabbia e poca lungimiranza politica, proprio i serbi si erano dimessi dalle istituzioni kosovare per protesta lo scorso novembre. La soluzione per allentare le tensioni passa, dunque, esclusivamente dal dialogo e dalla mediazione di Paesi terzi, tra cui l’UE, che però più volte ha assunto atteggiamenti eccessivamente parziali nella vicenda: anche questa volta l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza Josep Borrell ha dichiarato che l’Ue condanna «nei termini più forti possibili» l’orribile attacco e che i «responsabili devono affrontare la giustizia». Tuttavia, manca una reale iniziativa di mediazione tra i due territori da parte della Ue e delle nazioni occidentali, che si limitano troppo spesso a condannare gli attacchi serbi, tacendo sulle provocazioni kosovare e senza proporre soluzioni diplomatiche concrete.
[di Giorgia Audiello]
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