Blinken: eccezionalismo USA, scontro fra grandi potenze, e guerra a oltranza in Ucraina
di Roberto Iannuzzi - 29/09/2023
Fonte: Roberto Iannuzzi
Col tramonto dell’egemonia unipolare americana, il
manicheismo di Washington richiede un mondo diviso, e un conflitto
armato di lunga durata che perpetui questa divisione.
“Ciò che stiamo vivendo oggi è ben più di una messa alla prova dell’ordine mondiale post-Guerra Fredda, è la sua fine”.
A
pronunciare queste parole è stato il segretario di Stato USA Antony
Blinken, in un discorso tenuto il 13 settembre alla Johns Hopkins School
of Advanced International Studies (SAIS), uno dei “templi” del pensiero
strategico americano.
La SAIS fu fondata nel 1943 da Paul Nitze,
considerato uno degli architetti della politica di difesa americana
durante la Guerra Fredda. Nitze fu il principale autore dell’NSC 68, un
documento del Consiglio per la Sicurezza Nazionale che pose le basi per
la militarizzazione della Guerra Fredda dal 1950 in poi, con
l’espansione del bilancio del Pentagono, lo sviluppo della bomba
all’idrogeno e l’incremento degli aiuti militari agli alleati di
Washington.
Settantatré anni dopo, Blinken ci pone di fronte alla
prospettiva di una nuova, e forse più pericolosa, guerra fredda contro
non una, ma due potenze nucleari: Russia e Cina.
Quella di Blinken
non è una visione personale, ma riflette quanto già affermato nella
Strategia di Sicurezza Nazionale formulata dall’amministrazione Biden
nell’ottobre del 2022.
Una crisi senza cause apparenti
Di
fronte alla platea della SAIS, Blinken ha decretato la fine dell’era
unipolare americana, e l’inizio di una cupa fase di conflitto.
Secondo
il segretario di Stato, la fine della Guerra Fredda aveva “portato con
sé la promessa di una marcia inesorabile verso una maggiore pace e
stabilità, cooperazione internazionale, interdipendenza economica,
liberalizzazione politica, e diritti umani”.
Tuttavia, “decenni di
relativa stabilità geopolitica hanno lasciato il posto a una crescente
competizione con potenze autoritarie e revisioniste”.
Blinken non spiega come ciò sia accaduto, e non fa alcuna autocritica.
Trent’anni
di globalizzazione all’insegna della deregolamentazione dei mercati, di
ortodossia neoliberista che ha tagliato le tasse alle grandi imprese e
favorito le classi più ricche, di delocalizzazione della produzione e
conseguente deindustrializzazione che ha duramente colpito la classe
lavoratrice, non vengono neanche marginalmente considerati nel discorso
di Blinken.
La continua erosione dei salari, della produttività e
della partecipazione della forza lavoro, l’aumento esponenziale delle
disuguaglianze, la promozione di un’economia di consumo di massa fondata
in ultima analisi sul crescente indebitamento degli USA, sono elementi
che il segretario di Stato tralascia completamente.
Trent’anni di
avventurismo militare, dall’Iraq, ai Balcani, all’Afghanistan, e di
interventi diretti o indiretti in Libia, Siria, Yemen, hanno avuto un
ruolo determinante nel delegittimare lo status di potenza egemone, e di
“leader del mondo libero”, che gli Stati Uniti si attribuivano.
Blinken
non fa alcuna menzione di questi fattori che hanno contribuito ad
accelerare il tramonto della supremazia unipolare americana.
La sua
spiegazione è molto più semplice: “Una manciata di governi che hanno
utilizzato sussidi al di fuori delle regole, proprietà intellettuale
trafugata, ed altre pratiche distorsive del mercato per ottenere un
vantaggio sleale in settori chiave” sono citati fra i responsabili della
progressiva perdita di fiducia nell’ordine economico internazionale.
Altri
elementi vengono citati da Blinken – le trasformazioni tecnologiche, le
disuguaglianze – ma senza in alcun modo indagarne le cause. Si ha la
sensazione che si tratti di eventi ineluttabili che è superfluo
approfondire.
La “minaccia delle autocrazie”
Per il segretario
di Stato americano, le democrazie “sono minacciate” – non dalle scelte
compiute dalle élite politiche che le hanno governate in questi decenni,
dalla corruzione del processo democratico, e dalla progressiva
limitazione dei diritti sotto la spinta di continue ‘emergenze’
terroristiche, economiche, e di altra natura – ma da leader “che
sfruttano risentimenti e alimentano paure, erodono magistrature e media
indipendenti, arricchiscono reti clientelari, reprimono la società
civile e l’opposizione politica”.
Inoltre le democrazie sono
minacciate dall’esterno “da autocrati che diffondono disinformazione,
usano la corruzione come arma, interferiscono nelle elezioni”.
Fra questi attori, Blinken individua immediatamente i due principali responsabili:
“La
guerra di aggressione della Russia in Ucraina rappresenta la minaccia
più immediata e più acuta all’ordine internazionale sancito dalla Carta
delle Nazioni Unite e dai suoi principi fondamentali di sovranità,
integrità territoriale e indipendenza per le nazioni, e diritti umani
universali e indivisibili per gli individui”.
“Nel frattempo, la
Repubblica popolare cinese rappresenta la più significativa sfida a
lungo termine perché non solo aspira a rimodellare l’ordine
internazionale, ma sempre più dispone del potere economico, diplomatico,
militare e tecnologico per far proprio questo”.
Il 2 aprile 1917, il
presidente Woodrow Wilson si rivolse a una sessione congiunta del
Congresso americano per chiedere una dichiarazione di guerra contro la
Germania, allo scopo di “rendere il mondo sicuro per la democrazia”
(secondo quello che in realtà era uno slogan creato da Edward Bernays,
esperto di marketing e nipote di Freud, considerato il padre delle
“pubbliche relazioni”, e uno degli ideatori della propaganda americana
durante il primo conflitto mondiale).
Blinken capovolge lo slogan di
Wilson e Bernays, affermando che “Pechino e Mosca stanno lavorando
insieme per rendere il mondo sicuro per l’autocrazia attraverso la loro
‘partnership senza limiti’”.
“Ci troviamo quindi in quello che il
presidente Biden chiama un punto di svolta. Un’era sta finendo, ne sta
iniziando una nuova, e le decisioni che prendiamo ora plasmeranno il
futuro per decenni a venire”.
La missione “eccezionale” degli USA
Nella
visione manichea del segretario di Stato USA, di fronte a questa sfida
non vi è altra strada che quella della contrapposizione.
Non avendo
compiuto alcuna analisi sulle ragioni della crisi americana, Blinken non
ha difficoltà ad affermare che in questa sfida gli Stati Uniti partono
da una “posizione di forza”.
Aderendo pienamente ai principi
dell’eccezionalismo USA, egli afferma che “abbiamo dimostrato più e più
volte che quando l’America si unisce, possiamo fare qualsiasi cosa”, e
che “nessuna nazione sulla Terra ha una maggiore capacità di mobilitare
le altre per una causa comune”.
Tale causa consiste nella promozione di un mondo capitalistico idealizzato:
“Un
mondo in cui gli individui sono liberi nella vita quotidiana e possono
plasmare il proprio futuro, le proprie comunità, i propri paesi”.
“Un mondo in cui ogni nazione può scegliere la propria strada e i propri partner”.
“Un
mondo in cui beni, idee, e individui possono circolare liberamente e
legalmente per terra, mare, cielo, e cyberspazio, dove la tecnologia
viene utilizzata per conferire potere alle persone, non per dividerle,
sorvegliarle e reprimerle”.
“Un mondo in cui l’economia globale è
definita da concorrenza leale, apertura, trasparenza, e dove la
prosperità non si misura solo secondo il livello di crescita delle
economie dei paesi, ma secondo il numero di persone che beneficiano di
tale crescita”.
“Un mondo che genera una corsa verso l’alto negli
standard lavorativi e ambientali, nella sanità, nell’istruzione, nelle
infrastrutture, nella tecnologia, nella sicurezza e nelle opportunità”.
“Un
mondo in cui il diritto internazionale e i principi fondamentali della
Carta delle Nazioni Unite siano osservati, e in cui i diritti umani
universali siano rispettati”.
Che le politiche americane in questi
decenni abbiano perseguito e raggiunto obiettivi spesso opposti alla
visione idilliaca prospettata da Blinken non è questione che il
segretario di Stato ha ritenuto utile affrontare nel suo discorso.
In questa visione in bianco e nero, gli avversari di Washington hanno naturalmente concezioni totalmente contrapposte:
“Essi
vedono un mondo definito da un unico imperativo: preservazione e
arricchimento del regime. Un mondo in cui gli autoritari sono liberi di
controllare, costringere e schiacciare la propria gente, i propri
vicini, e chiunque altro ostacoli questo obiettivo totalizzante”.
La visione americana ha valore universale. Chi la contraddice, contraddice principi assoluti:
“I
nostri competitori affermano che l’ordine esistente è un’imposizione
occidentale, quando in realtà le norme e i valori che lo definiscono
hanno un’aspirazione universale – e sono sanciti dal diritto
internazionale a cui essi hanno aderito. Costoro affermano che ciò che i
governi fanno all’interno dei propri confini è di loro esclusiva
competenza, e che i diritti umani sono valori soggettivi che variano da
una società all’altra. Essi ritengono che i grandi paesi abbiano diritto
a sfere di influenza – che il potere e la vicinanza diano loro la
prerogativa di dettare le proprie scelte agli altri”.
Riaffermare il primato di Washington
Una
volta appurato che sostanzialmente non vi è dialogo né mediazione
possibile con gli avversari dell’America, Blinken passa ad enunciare il
piano volto a far prevalere gli Stati Uniti in questa nuova competizione
fra grandi potenze.
Nel far ciò, egli elabora ulteriormente i
principi enunciati da due suoi colleghi all’interno dell’amministrazione
Biden, il segretario al Tesoro Janet Yellen, e il Consigliere per la
sicurezza nazionale Jake Sullivan.
La prima aveva parlato di una
forma attenuata di “disaccoppiamento” dalla Cina denominata
“de-risking”, ovvero la riduzione dei rischi derivanti da una
sovraesposizione delle catene di fornitura occidentali alla Cina.
Il
secondo aveva per la prima volta messo in discussione alcuni dogmi
neoliberisti del “Washington Consensus”, puntando a “rinnovare la
leadership economica americana” attraverso l’introduzione di dazi e
sussidi, ed altre misure di politiche industriale (senza tuttavia
accennare ad alcuna politica sociale minimamente in grado di affrontare
lo squilibrio fra capitale e lavoro in patria).
Partendo da queste
basi, Blinken enuncia una strategia volta in primo luogo a rafforzare
gli USA al proprio interno, attraverso le già citate misure di
protezionismo e politica industriale, a cui affiancare provvedimenti
finalizzati al reshoring (ritorno in patria della produzione
manifatturiera) e friend-shoring (ridefinizione delle catene di
fornitura in modo da riportarle nell’alveo delle alleanze americane).
A
questa politica di rafforzamento interno è inscindibilmente legata una
strategia di consolidamento delle alleanze all’estero (in primo luogo
con gli amici storici di Washington in Europa e nel Pacifico), e di
tessitura di nuovi legami con i paesi del Sud del mondo, per sottrarli
all’influenza russo-cinese, ed assicurarsi le materie prime necessarie a
garantire le catene di fornitura occidentali, la transizione
energetica, e gli altri traguardi tecnologici della cosiddetta “quarta
rivoluzione industriale”.
Strategia “a geometria variabile”
In
questo quadro di rafforzamento delle alleanze, secondo Blinken gli USA
devono puntare in primo luogo a rinvigorire la NATO (operazione nella
quale il conflitto ucraino gioca un ruolo chiave), il G7 (da egli
definito “il comitato direttivo delle democrazie più avanzate al
mondo”), e l’UE, oltre a rinsaldare alcune alleanze bilaterali – in
particolare con Giappone, Corea del Sud, Israele, Australia, Filippine,
India, Vietnam.
In tale sforzo, gli USA devono basarsi su una
diplomazia “a geometria variabile” che, nelle parole di Blinken, può
essere riassunta così: “per ogni problema, stiamo mettendo insieme una
coalizione adatta allo scopo”.
Per il segretario di Stato, più di 50
paesi stanno cooperando per sostenere la difesa dell’Ucraina e costruire
un esercito ucraino sufficientemente forte da scoraggiare futuri
attacchi.
“Abbiamo coordinato il G7, l’Unione Europea e decine di
altri paesi per sostenere l’economia dell’Ucraina e ricostruire la sua
rete energetica, più della metà della quale è stata distrutta dalla
Russia”.
“Nel frattempo, i paesi europei, il Canada, e altri, si sono
uniti ai nostri alleati e partner in Asia per affinare i loro strumenti
volti a contrastare la coercizione economica della Repubblica popolare
cinese. E gli alleati e i partner degli Stati Uniti in ogni regione
stanno lavorando urgentemente per costruire catene di fornitura
resilienti, in particolare riguardo alle tecnologie chiave ed ai
materiali cruciali per realizzarle”.
Cardine di questa diplomazia a
geometria variabile sono i cosiddetti “minilaterals”, accordi
“minilaterali” che riuniscono pochi paesi per perseguire obiettivi
limitati.
Molti di questi accordi sono in realtà intesi come
strumenti che, pur operando distintamente, sono volti nel loro insieme a
contenere la Cina, nell’impossibilità di costruire un unico fronte
anticinese esteso.
Fra essi spiccano l’AUKUS (patto di sicurezza fra
USA, Regno Unito ed Australia volto a far acquisire a quest’ultima
sottomarini nucleari), il Quad (partnership diplomatica e militare fra
Australia, India, Giappone e USA), e la recente intesa trilaterale fra
USA, Corea del Sud e Giappone.
A questi mini-accordi si affiancano
partnership più estese come la Partnership of Global Infrastructure and
Investment (PGII), il Lobito Corridor in Africa, e l’IMEC, corridoio
economico fra India, Medio Oriente ed Europa recentemente lanciato da
Wahington al G20.
Tali collaborazioni hanno l’aspirazione di
contrastare la Belt and Road Initiative (BRI) cinese, pur non avendone
la portata né un equiparabile volume di finanziamenti.
La guerra ucraina come “cardine” del nuovo scontro mondiale
Cerniera
essenziale di questa nuova “guerra fredda”, che (sebbene in maniera
ancora confusa) vede l’emergere di un’inedita contrapposizione fra
blocchi, è il conflitto ucraino.
Nelle già citate parole di Blinken,
“la guerra di aggressione della Russia in Ucraina rappresenta la
minaccia più immediata e acuta all’ordine internazionale sancito dalla
Carta delle Nazioni Unite”.
Egli sottolinea il valore “globale” di
tale conflitto, affermando che “l’invasione della Russia ha messo in
chiaro che un attacco all’ordine internazionale danneggerà i popoli
ovunque”.
E, per certi versi, egli riconosce che, senza questa
guerra, gli USA non sarebbero stati in grado di mobilitare i propri
alleati nella nuova competizione fra grandi potenze: “Abbiamo sfruttato
questa presa di coscienza per riunire i nostri alleati transatlantici e
dell’Indo-Pacifico nella difesa della nostra sicurezza, prosperità e
libertà condivise”.
Secondo la narrazione di Blinken, “la guerra di
Putin continua ad essere un fallimento strategico per la Russia”, anche
grazie “al notevole coraggio e alla resilienza del popolo ucraino, e al
nostro sostegno”.
La guerra ucraina ha dunque assunto un valore cruciale nella nuova narrazione di Washington.
Avendo
l’amministrazione Biden annunciato un inedito scontro globale fra
l’Occidente e le potenze “autocratiche e revisioniste” di Russia e Cina,
una sconfitta in Ucraina rappresenterebbe un colpo durissimo per la
traballante reputazione degli Stati Uniti in questa sfida appena
lanciata.
Come ho scritto in un recente articolo,
gli USA hanno a
tal punto investito la loro credibilità in questo conflitto, lasciandosi
coinvolgere militarmente oltre ogni ragionevole cautela, che
un’eventuale vittoria della Russia in Ucraina sarà devastante per il
prestigio di Washington e per la coesione del fronte occidentale e della
NATO.
Irruzione della realtà
Tuttavia, in Ucraina sono
proprio gli eventi sul terreno a non evolvere come Washington si
augurava. Pur rifiutando ogni soluzione negoziale, la Casa Bianca non ha
una chiara visione di come portare avanti il conflitto.
La
controffensiva ucraina estiva ha ottenuto conquiste territoriali minime a
fronte di enormi perdite in termini di uomini e mezzi, in massima parte
infrangendosi contro l’impressionante sistema di strutture difensive
costruito da Mosca.
Se Kiev è ormai drammaticamente a corto di nuove
reclute da mandare al fronte, i paesi occidentali che sostengono
l’Ucraina stanno seriamente intaccando i propri arsenali, mentre i ritmi
di produzione della loro industria bellica non sono al momento in grado
di competere con quella russa.
Di fronte a questa realtà, i diversi
esponenti dell’amministrazione Biden, da Blinken allo stesso presidente e
ad altri, continuano a ripetere il medesimo vago ritornello: gli USA
appoggeranno l’Ucraina “per tutto il tempo necessario”.
Dietro
l’ostentata sicurezza, vi è tuttavia la crescente (seppur tardiva) presa
di coscienza che le tattiche fin qui adottate non hanno funzionato, e
che è necessario un cambio di strategia.
La carenza di proiettili di
artiglieria e di altri tipi di munizionamento, così come la penuria di
uomini, impediranno nei prossimi mesi un’offensiva su vasta scala come
quella tentata quest’estate.
Le limitate disponibilità degli arsenali
occidentali, e una serie di appuntamenti elettorali che culmineranno
con le presidenziali americane del novembre 2024, probabilmente
ridimensioneranno il flusso di aiuti militari occidentali diretti a
Kiev.
Necessariamente si tornerà ad una guerra di logoramento, nella
quale gli ucraini saranno costretti più a difendersi che ad attaccare.
Gli strateghi americani stanno già estendendo l’orizzonte temporale del
conflitto nelle loro previsioni.
Impasse strategica e rischi di escalation
Allo
stesso tempo, l’attenzione dei vertici militari occidentali si sta
spostando sugli attacchi con missili a lungo raggio, come gli Storm
Shadow britannici, in grado di colpire le retrovie russe e scompaginare
le linee di rifornimento di Mosca.
Ciò sta già avvenendo in Crimea.
Simili attacchi, tuttavia, non solo vengono effettuati con armi NATO, ma
con supporto logistico e di intelligence occidentale, segnando un
ulteriore grado di coinvolgimento degli USA e dei loro alleati nel
conflitto.
Come ha scritto Hal Brands, docente presso la stessa SAIS
dove Blinken ha pronunciato il suo recente discorso, un’intensificazione
degli attacchi a lungo raggio, accompagnata dalla prospettiva di una
guerra a più lungo termine, comporta l’accettazione di maggiori rischi
di escalation.
Tale cambio di strategia, peraltro, molto
difficilmente muterà le sorti dello scontro armato. Dopo il fallimento
dell’offensiva di quest’estate, Kiev vede crollare le possibilità di
riconquistare i territori perduti e si avvia verso una lunga guerra
difensiva, che continuerà a prosciugare le sue risorse.
Gli attacchi
in profondità in Crimea e in territorio russo, a prescindere dal rischio
di escalation che comportano, non altereranno in maniera significativa
l’andamento di un conflitto che sta volgendo al peggio per l’Ucraina.
La
guerra a oltranza che Washington vuole sostenere nel paese porterà
nuove tragedie e un fardello sempre più insostenibile per Kiev,
ulteriori rischi di estensione del conflitto, e un progressivo
deterioramento del clima internazionale, senza tirar fuori gli USA dal
vicolo cieco strategico in cui si sono cacciati.
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