L’Italia è prima in Europa per la censura su Facebook e Instagram
A Bruxelles continua la lotta contro la cosiddetta disinformazione, una delle principali preoccupazioni della commissione Europea che, ormai da anni, ha messo in atto specifici meccanismi per rimuovere dalle piattaforme social e in generale dal web tutte quelle notizie considerate non veritiere. Il tema è tornato sotto i riflettori in seguito alla recente presentazione da parte delle piattaforme digitali di una serie di relazioni concernenti i contenuti rimossi dal web e gli strumenti messi in atto per contrastare le informazioni false, in base a quanto stabilito dal Codice di condotta UE sulle pratiche contro la disinformazione sottoscritto dalle Big Tech, tra cui Google, Meta, Microsoft e Tik Tok. Twitter – ora X – invece, dopo avere inizialmente aderito al codice, ha deciso di uscirne. Tra i dati più rilevanti degli ultimi rapporti emerge quello secondo cui l’Italia sarebbe al primo posto per contenuti censurati su Meta (Facebook) e Instagram: nel periodo compreso tra il primo gennaio e il 30 giugno 2023, infatti, sugli oltre 140.000 post rimossi da Meta, oltre 45.000 sono stati cancellati in Italia. Seguono poi la Germania (con 22.000 post rimossi), la Spagna (16.000), i Paesi Bassi (13.000) e la Francia (12.000). Sulla stampa mainstream ci si concentra sul fatto che la disinformazione sarebbe molto più presente in Italia, ma il punto nodale del discorso rimane capire chi e su quali presupposti ha il potere di stabilire la veridicità di un’informazione e se tale prerogativa non sconfini in una pratica di censura volta a limitare la circolazione di fatti, notizie o opinioni semplicemente contrastanti con la narrativa istituzionale.
Con il Digital Services Act (DSA) – il regolamento dell’UE sui servizi digitali – la Commissione europea avrà ancora più potere sulle piattaforme e i motori di ricerca perché oltre a poter visionare periodicamente le relazioni, potrà anche multare quelle società che non rispettano i criteri stabiliti per rimuovere i contenuti falsi o illegali. Le multe potranno arrivare fino al 6% del fatturato dei colossi del web: il che incentiva le piattaforme a rimuovere il maggior numero di contenuti possibile per evitare di incorrere nelle sanzioni. I dati dei rapporti presentati dalle aziende digitali coprono un periodo di sei mesi e l’ultima serie di relazioni – la seconda da quando è stato sottoscritto il Codice ed è entrato in vigore il DSA – evidenzia come l’Italia sia il primo Paese nella diffusione di presunte “fake news. Inoltre, complessivamente in Italia si registra il maggior numero di rimozioni di banner pubblicitari da Facebook e Instagram per violazione della politica sulla disinformazione dell’Ue. Sono stati rimossi, infatti, oltre 3.600 banner, più di Polonia (3.500) e Germania (2.900).
Tuttavia, la moderazione dei contenuti avviene spesso con criteri parziali o politicamente orientati: tra gli esempi recenti più eclatanti c’è, ad esempio, la rimozione dai social degli studi scientifici che mettevano in evidenza i possibili rischi dei vaccini Covid 19 – come confermato dai Twitter Files – ma anche il generale silenziamento di tutti i medici non allineati alla narrazione e alle misure pandemiche imposte. Ma l’oscuramento dei contenuti riguarda anche i fatti inerenti la guerra in Ucraina: in questo caso, non solo alcuni fact checkers – coloro che dovrebbero verificare i fatti e che spesso si ergono a detentori esclusivi della verità – hanno oscurato importanti inchieste internazionali, ma sono stati gli stessi autoproclamatisi “professionisti dell’informazione” a riportare notizie false sul conflitto a Kiev: tra le bufale più note in questo senso si annoverano le immagini dei bombardamenti dell’esercito ucraino su Donetsk spacciati dalla stessa Rai per bombardamenti russi; il falso ricovero del ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, poi smentito; la presenza di mine russe nella centrale nucleare di Zaporizhzhia, smentita dall’AEIA (l’Agenzia internazionale per l’energia atomica delle Nazioni Unite) e, tra le ultime, la diffusione delle notizie – date per certe – della morte del leader ceceno Kadyrov e del comandante della flotta russa del mar Nero, Viktor Sokolov. Notizie poi prontamente sconfessate da alcuni video che li ritraggono vivi e in buona salute e diffuse proprio da coloro che dovrebbero verificare i fatti e che collaborano al contrasto della disinformazione con piattaforme come Meta.
Tra i crociati della lotta alla disinformazione compaiono giornali come Open – testata che cura la censura per conto di Meta ma che ha diffuso, tra le varie, la “fake” sulla morte di Sokolov – e il giornalista David Puente che collabora con Meta per il contrasto alle notizie false. Proprio Puente aveva contribuito a denigrare l’inchiesta condotta dal giornalista premio Pulitzer Seymour Hersh sull’esplosione dei gasdotti russi Nord Stream, etichettandola come «teoria del complotto». Se si prendono in considerazione il curriculum o le competenze geopolitiche di Puente però si capisce come non abbia minimamente i requisiti per stabilire che un’inchiesta giornalistica come quella di Hersh sia falsa. Per questo, i cosiddetti fact checkers risultano più che altro i guardiani e i difensori delle “verità euroatlantiche”. La stessa commissione europea, del resto, ha spiegato che «I rapporti includono anche approfondimenti sulle azioni delle piattaforme per ridurre la disinformazione sulla guerra della Russia in Ucraina», aggiungendo che «la Commissione si aspetta che i firmatari continuino il loro lavoro e aumentino i loro sforzi per combattere la disinformazione sull’Ucraina e in ambito elettorale». Il rischio è quello di creare una sorta di orwelliano ministero della Verità, dove è attribuito a una ristretta cupola il diritto di discernere le notizie vere da quelle false col chiaro obiettivo di indirizzare e “certificare” l’informazione, plasmando l’opinione delle masse ottenendone così il consenso.
Si tratta di un meccanismo ormai ben avviato che non potrà che proseguire: la Commissione europea, infatti, ha reso noto che la prossima serie di relazioni è prevista per l’inizio del 2024 e che “Tali rapporti conterranno anche informazioni su come i firmatari stanno preparando e mettendo in atto misure per ridurre la diffusione della disinformazione in vista delle elezioni europee del 2024, continuando a riferire sui loro sforzi nel contesto della guerra in Ucraina”. È evidente come dietro alla lotta contro la disinformazione si celi la volontà di oscurare contenuti scomodi che contrastano con le posizioni istituzionali, palesando così un rischio evidente per la libertà di parola e d’informazione.
[di Giorgia Audiello]
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