LA CATABASI IMPERIALE
C’è una grande guerra globale in atto che oppone l’impero occidentale a guida statunitense a quei paesi che ne contestano il dominio. A questa guerra, prima o poi, finiranno per ricondursi tutte le piccole guerre in atto nel mondo, quali che ne siano state le cause scatenanti ed è forte il rischio che finiscano per saldarsi in una sola guerra aperta. In questo momento, ci sono due fronti di guerra che sono con ogni evidenza parte di questo scontro: quello ucraino e quello palestinese. Entrambe ci indicano qual è il fattore decisivo su cui si decidono le sorti. L’impero ha fretta, perché teme che i suoi nemici diventino troppo forti e la sua capacità di deterrenza cali. Il resto del mondo ha pazienza e vuole logorare l’impero finché non crolla. La grande guerra globale è una guerra con il tempo.
Benché sia una delle cose che capitano più di frequente, non bisognerebbe mai dimenticare la lezione di von Clausewitz, la guerra come proseguimento della politica con altri mezzi. Dunque non solo la guerra – ogni guerra – è già di per sé un atto politico, ma i suoi obiettivi, benché si cerchi di conseguirli attraverso lo strumento militare, sono e restano di natura politica. Dunque, una guerra che fallisce i suoi obiettivi politici è una guerra persa, anche se ha prevalso in ogni battaglia.
La guerra ucraina, ad esempio, è cominciata con obiettivi politici ovviamente diversi, per l’una e l’altra parte; ma soprattutto, ad un certo punto ha visto la Russia modificare i suoi, o meglio ancora, l’ha vista modificare la strategia militare attraverso cui conseguirli. Tra questi obiettivi, le conquiste territoriali sono sempre state secondarie, mentre il focus principale è sempre stato sulla smilitarizzazione dell’Ucraina (e la sua denazificazione). Obiettivo che Mosca ha dovuto alfine perseguire attraverso la via più radicale, ovvero la distruzione materiale delle forze armate ucraine. Obiettivo ormai quasi completamente conseguito, ed ottenuto applicando una tattica ed una strategia basata sul logoramento massivo del nemico. Non una blitzkrieg, né una campagna distruttiva devastante, seguita da un’azione conclusiva delle truppe di terra. Entrambe queste strade, a parte ogni altra considerazione, non avrebbero in realtà inferto il colpo duraturo che era invece necessario infliggere. Quindi, per quanto questo procedere abbia un costo più elevato, è stata scelta una via basata sul fattore tempo. Più tempo, più logoramento della forza nemica, maggiori risultati; e soprattutto, di più lunga durata. Mosca ha scommesso ancora una volta sulla propria capacità di sfruttare questo fattore meglio di chiunque altro, ed ha vinto la scommessa.
A ben vedere, ciò che sta accadendo in Palestina è assai simile.
Anche se i rapporti di forza appaiono invertiti, rispetto al fronte
ucraino, la strategia messa in atto dal Fronte della Resistenza (in
senso ampio, non solo quella palestinese) ricalca in qualche modo quella
adottata dai russi in Ucraina.
Le forze della Resistenza sanno che
il nemico ha bisogno di concludere in fretta, per una serie di motivi
che vanno dagli aspetti economici agli equilibri interni ed
internazionali. Per questo, l’asse USA-Israele sta mettendo in campo uno
sforzo considerevole, cercando di ottenere delle vittorie quantomeno
tattiche, che le consentano di accelerare la conclusione del conflitto –
o quanto meno di congelarlo temporaneamente per riprendere fiato.
Ovviamente,
il problema gigantesco con cui devono confrontarsi gli
israelo-americani, ancor prima della Resistenza armata, è la mancanza di
obiettivi politici reali, e quindi di una strategia elaborata in funzione di questi. E per reali si
intende realisticamente perseguibili, quindi politici in senso proprio,
e non certo i sogni messianici con cui li stanno sostituendo. Per
tacere poi del fatto che i due poli dell’asse hanno oltretutto interessi
ed obiettivi non sovrapponibili, anche se per molti versi coincidenti.
Va tenuto presente che l’operazione della Resistenza è molto più
vasta di quanto appaia. Non solo c’è un completo coordinamento tra le
formazioni politico-militari della Resistenza palestinese, che hanno
una Joint Operations Room (il centro di comando e coordinamento
delle varie brigate) operativo su Gaza. Da tempo è presente in Libano
un ulteriore centro di coordinamento, in cui sono rappresentate – oltre
alle formazioni palestinesi – anche alcune delle milizie irachene e
siriane, ed ovviamente Hezbollah. Non ci sono notizie certe sulla
presenza anche di Ansarullah (Yemen). In tal modo, tutte le forze della
Resistenza possono coordinare le proprie azioni a livello strategico,
calibrando la pressione su Israele e sugli USA, ed alternandola tra i
vari fronti aperti – Gaza, confine israelo-libanese, mar Rosso…
L’intento
è quello di tenere impegnate le forze israeliane in una guerra
d’attrito, il cui livello d’intensità varia nel tempo – così da
risultare tatticamente imprevedibile – e nello spazio; può acuirsi a
Shuja’iya come a Khan Younis, a Metula oppure ad Eilat, sulle alture del
Golan o a Kiryat Shmona.
Tutte le formazione che fanno parte del
Fronte della Resistenza sono in grado di sviluppare un attacco assai più
intenso e massiccio contro il territorio israeliano, ma non è questo
l’intento – poiché qualsiasi accelerazione produrrebbe una reazione
altrettanto intensa e massiccia; l’obiettivo è invece risparmiare al
massimo possibile le proprie forze, e puntare sul logoramento di Tsahal su tempi medio lunghi.
La situazione per le forze israeliane, nonostante i bombardamenti
genocidi sulla Striscia di Gaza facciano da cortina fumogena, è di
crescente difficoltà. Le perdite, in uomini e mezzi, cominciano a
diventare significative, e soprattutto emerge sempre più la difficoltà –
da parte dell’IDF – nel gestire tatticamente il confronto. Sul fronte
libanese, sono costretti a tenere impegnate una parte significativa
delle forze di terra e dell’aviazione; e nonostante abbiano schierate
ben 8 delle 12 batterie di Iron Dome (di cui due certamente già
distrutte o danneggiate), la minaccia dei missili di Hezbollah è così
significativa che gran parte degli insediamenti e delle città vicine al
confine sono state evacuate – con i conseguenti danni all’economia, e le
crescenti tensioni interne.
Il blocco dello stretto di Bab
el-Mandeeb per le navi dirette in Israele, oltre agli attacchi verso
Eilat e gli insediamenti vicini, sono praticamente senza difesa, a
difficilmente l’operazione navale Prosperity Guardian riuscirà a
risolverli, se non a prezzo di mettere seriamente in pericolo le flotte
NATO, e rischiare un blocco totale anche sullo Stretto di Hormuz – un
disastro per le economie occidentali.
La situazione non è certo migliore nella Striscia di Gaza, dove le
truppe israeliane devono confrontarsi con un nemico sfuggente, di cui
non riescono a prendere le misure, e che mantiene intatta la capacità
non solo di resistere ai tentativi di penetrazione, ma anche di
sviluppare offensive tattiche. I periodici lanci di missili verso
Ashkelon o Tel Aviv, le sanguinose imboscate contro le unità IDF, il
continuo martellamento – a distanza ravvicinata – contro i corazzati
israeliani, testimoniano il permanere di una significativa potenza di
fuoco, e soprattutto di un inalterato coordinamento tattico.
Le fonti
informative israeliane testimoniano che il numero dei morti e dei
feriti è tenuto coperto, e viene comunicato solo parzialmente. Il ritiro
della Brigata Golani, forse la migliore unità dell’IDF, per
via delle perdite subite, così come il mancato conseguimento degli
obiettivi tattici dati continuamente per raggiunti (la rete di tunnel
sotterranei è chiaramente ancora perfettamente operativa, non è stato
scoperto un solo centro comando, un solo deposito di armi, una sola
delle fabbriche che producono i missili…), non sono che i più evidenti
segni di tale difficoltà.
A più di due mesi dall’inizio dei combattimenti, non solo l’IDF non è
ancora penetrato in tutte le aree urbane della Striscia, ma continua ad
essere impegnato in scontri a fuoco anche laddove la penetrazione è
avvenuta. Nessuno dei prigionieri è stato liberato manu militari –
i due soli tentativi sono tragicamente falliti, e l’unico caso di cui
avrebbero potuto menar vanto è stato azzerato da una applicazione ottusa
delle regole d’ingaggio. Da almeno un paio di settimane viene data per
imminente la morte di Yahya Sinwar, che invece continua a sfuggire.
Nonostante tutta la potenza di cui dispone (aviazione, carri armati e corazzati, artiglieria, intelligence elettronica…), Tsahal non riesce a prevalere.
Persino
la guerra della comunicazione vede chiaramente in vantaggio le forze
della Resistenza, che documentano inequivocabilmente in video gli
attacchi portati contro le forze israeliane, mentre queste inanellano
figure barbine una dopo l’altra, mostrando filmati propagandistici per
di più malamente costruiti su veri e propri set.
Esattamente come in Ucraina, quindi, anche in Palestina le forze che
combattono contro l’imperialismo USA-NATO mettono in campo una strategia
di logoramento delle forze avversarie, ed in entrambe i casi puntano
sul fattore tempo per mettere in difficoltà il nemico. Che, oltretutto,
si trova oggi ad essere impegnato su due fronti, con le difficoltà
dell’uno che si riverberano sull’altro, mentre i suoi avversari agiscono
separatamente.
A riprova che la geografia è ineludibile, e che la
politica non può prescinderne. Ed oggi la situazione globale è che i
tradizionali strumenti del dominio imperiale anglo-americano, la potenza
talassocratica e la proiezione a grande distanza, hanno fatto il loro
tempo e risultano inadeguati. L’impero è costretto a combattere guerre
assai problematiche ed impegnative, su fronti diversi; e sia la potenza
navale, che quella derivante dalla più estesa rete di basi militari
della storia, rischiano di risolversi in un problema più che in un atout.
Per la semplice ragione che i nemici non sono più così deboli da poter
essere rapidamente schiacciati (ma anzi possono a loro volta colpire), e
che sanno scegliere le strategie e le tattiche più efficaci per
combattere.
L’impero ha perso la sua arma più potente, la capacità di deterrenza. E, costretto ad usare la forza in tempi e modi che non gli sono congeniali, arretra. I suoi nemici, invece, lo sfidano, non arretrano più dinanzi alla minaccia. Ingaggiano il combattimento, ne impongono i tempi ed i modi. E per vincere, gli basta resistere un minuto in più.
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