Come andranno a finire le guerre in Medio Oriente e Ucraina
di Giacomo Gabellini - 27/12/2023
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Fonte: Diario del web
Quello che si sta andando a chiudere è stato un anno di grandi tensioni internazionali, dapprima sul fronte ucraino (che pure oggi sembra passato in secondo piano negli interessi occidentali), poi anche su quello mediorientale. Con la chiusura del 2023 è tempo di tracciare un bilancio, ma anche di ipotizzare le possibili prospettive future di queste guerre. Il DiariodelWeb.it lo ha fatto interpellando l’analista di questioni geopolitiche, strategiche ed economiche Giacomo Gabellini.
Giacomo Gabellini, partiamo dal Medio Oriente. Qual è, secondo lei, la strategia che sta perseguendo Israele?
Credo
stia puntando, in maniera piuttosto palese, a risolvere il problema dei
problemi: la presenza palestinese nel territorio della Israele biblica.
Lo sta facendo manu militari, approfittando dell’opportunità apertasi
dopo i fatti del 7 ottobre.
Che cosa glielo fa pensare?
Il 13 ottobre, a
meno di una settimana dall’Operazione diluvio di Hamas, al giornale
israeliano Mekomit è trapelato un documento, redatto dal ministero
dell’Intelligence, che parlava proprio dell’occasione emotiva e politica
rappresentata dall’eccidio di 1300 cittadini, per scatenare una
campagna militare senza precedenti.
Che tipo di campagna?
La prima fase avrebbe
dovuto prevedere l’evacuazione di un milione di residenti nell’area nord
della Striscia di Gaza, come poi è avvenuto, per esercitare una
pressione anche umana sul valico di Rafah, che dà sull’Egitto. A quel
punto si sarebbe dovuti intervenire diplomaticamente, anche con il
sostegno di Usa ed Europa, il leader egiziano Al Sisi, affinché
accettasse di aprire il valico e accogliere centinaia di migliaia di
palestinesi. Ma ci sarebbe stato anche un terzo passaggio.
Quale?
La creazione di una fascia di sicurezza,
in territorio del Sinai, lunga svariati chilometri, volta a impedire il
ritorno degli sfollati nelle loro case. Tra l’altro, qualche giorno
dopo, un centro studi israeliano, coordinato dall’ex direttore del
servizio segreto Shin Bet, ha pubblicato una sorta di studio di
fattibilità su questo piano: per un Paese che ha un Pil di circa 480
miliardi di dollari sarebbe bastato l’esborso di appena 8 miliardi per
acquistare gli edifici vuoti di due insediamenti alla cintura esterna
del Cairo dove alloggiare i palestinesi.
Sembra una posizione piuttosto esplicita.
Del
resto, che Israele punti a questo obiettivo lo si evince anche dalle
uscite di Ram Ben-Barak, ex vicedirettore del Mossad, attuale
parlamentare del partito moderato Yesh Atid, che ha dichiarato
apertamente in una trasmissione televisiva che una soluzione umanitaria
da far accettare al mondo contemplerebbe la ripartizione di 8-10 mila
palestinesi ciascuno a una cinquantina di Stati. Questa è una parte
dell’obiettivo.
E l’altra?
Riguarda la Cisgiordania, ed è molto
più impegnativa. Si parla di annettere anche questa zona a Israele, e ci
sono segnali molto chiari. Da anni gli insediamenti nei territori
occupati sono in continua espansione, in violazione degli accordi
internazionali. Quest’estate è passato un provvedimento, di cui non si è
parlato, che sanciva il trasferimento del controllo di quei territori
dall’amministrazione militare a quella civile.
Che cosa significa?
Sembra una questione di lana
caprina, ma non lo è. Significa che divengono territori israeliani come
tutti gli altri. Ciò è perfettamente in linea con gli obiettivi
programmatici resi pubblici dal governo israeliano insediatosi nel
dicembre 2022: l’espansione della colonizzazione di Israele in Giudea,
Samaria, Galilea, Golan e Negev.
Insomma, l’obiettivo è quello di far sparire la Palestina, punto.
Sì.
E faccio notare che il giornale israeliano Haaretz, che il governo
aveva minacciato di far chiudere perché pubblicava notizie non in linea
con la narrazione ufficiale, ha pubblicato il video di un incontro di
Netanyahu con i suoi colleghi di partito, avvenuto nel 2019. Si vede
l’attuale presidente dichiarare che chiunque voglia impedire la nascita
di uno Stato palestinese deve appoggiare Hamas.
Stavano aspettando la scintilla per accendere la miccia?
Ci
sono molti punti oscuri sul 7 ottobre. Quello che è successo ha risolto
i problemi di Netanyahu, di fronte a un Paese spaccato dalle proteste
sulla riforma giudiziaria e su altri provvedimenti discutibili. Di
fronte a una sfida esistenziale che sembra essersi presentata, la
nazione si è ricompattata.
Sta evocando il sospetto di un autoattentato?
Non
mi spingerei a tanto. Ma il servizio segreto egiziano aveva avvisato
l’ufficio di Netanyahu che si stava preparando qualcosa di grosso e il
ministro dell’Intelligence ha dichiarato di essere rimasto sorpreso
dalla freddezza con cui la notizia era stata accolta. Lo avevano
segnalato anche le soldatesse che monitoravano la Striscia di Gaza, ma a
loro è stato intimato di tacere.
Quindi Israele lo sapeva ma non ha fatto niente, perché gli conveniva.
Il
sospetto è quello. Oltretutto, dopo la breccia, si è aperto il caos e
centinaia di israeliani sono caduti sotto fuoco amico. Gli elicotteristi
non avevano ordini, sono caduti nel panico e hanno lasciato sul campo
molti loro connazionali.
Una strategia quantomeno cinica, a usare un eufemismo.
O
hanno lasciato fare, oppure si è trattato di una debacle colossale,
gigantesca, senza precedenti in materia d’intelligence, politica e
militare. Talmente grande da incrinare la deterrenza di Israele.
Ma se l’obiettivo di Israele è così radicale, Iran e Hezbollah potranno davvero restare a guardare come hanno fatto finora?
Io
credo di sì, perché non hanno interesse a stuzzicare un allargamento
del conflitto che coinvolgerebbe anche gli Usa. Lo schieramento delle
due portaerei al largo delle coste israeliane e sul Mar Rosso è una
chiara mossa di deterrenza. Il problema è che Israele sta cacciando i
palestinesi in maniera talmente brutale e conclamata che si è infilata
in un vicolo cieco pericolosissimo. Ha ottenuto l’effetto di
ricompattare, dopo tantissimi anni, finanche i sunniti e gli sciiti. Le
stesse opinioni pubbliche occidentali non sono più pronte a tollerarlo.
A dispetto delle leadership politiche.
Che sono
molto più scafate, non hanno mai avuto a cuore il destino dei
palestinesi. Ma le popolazioni le spingono a prendere posizione: ciò sta
avvenendo pure in Giordania, il Paese più filo-occidentale dell’area.
Sopravvive però l’appoggio degli Stati Uniti.
Che
sta iniziando ad avere dei costi, per un Paese che sta rimediando allo
scacco strategico epocale contro la Russia. Lede l’immagine degli Usa in
maniera irreparabile: si stanno rendendo di fatto corresponsabili
dell’eccidio, che ha mietuto in due mesi più vittime civili che in due
anni di conflitto ad alta intensità in Ucraina. Se non fornissero più le
armi a Israele, le operazioni cesserebbero in pochi giorni.
Magari Israele e America non rischiano sul piano militare, ma su quello reputazionale sì.
E
non solo. Una guerra si compone di tre livelli: quello fisico, dei
combattimenti; quello mentale, delle strategie; e quello morale, il più
importante di tutti. Si può anche vincere sul campo di battaglia, ma se
si dimostra di avere torto ci si inimica il favore di tutto il mondo.
Come avvenne in Vietnam, quando si creò una frattura tra la popolazione
statunitense e la sua classe politica, che fece venir meno la volontà di
portare avanti la campagna militare.
Potrebbe accadere lo stesso anche con l’opinione pubblica di Israele?
Purtroppo
i palestinesi sono abituati a pagare tributi di sangue, non sono così
sicuro che gli israeliani lo siano. Il quotidiano israeliano Yediot
Ahronoth ha licenziato un giornalista che contestava i numeri del
governo sulle perdite, perché enormemente sottostimati. Si parla di 3-4
mila morti e 7-8 mila feriti menomati.
I problemi per Netanyahu rischiano di arrivare sia dall’interno che dall’esterno.
Magari
lui, politico scafato, potrà continuare a barcamenarsi a dispetto dei
suoi problemi giudiziari, ma il Paese pagherà un prezzo per
l’avventurismo del suo governo. Se dovessero materializzarsi perdite
molto superiori a quelle annunciate, il sostegno della maggioranza della
società potrebbe dissolversi rapidamente.
Passiamo all’Ucraina, un fronte del quale tanto la Nato quanto l’informazione occidentale sembrano essersi disinteressati.
I segnali sono difficilmente equivocabili. Il giornalista Seymour
Hersh, che gode di entrature nell’intelligence militare statunitense, ha
pubblicato un articolo secondo cui Zelensky sarebbe stato aggirato dal
suo capo di stato maggiore, Valery Zaluzhny. Il quale starebbe
conducendo una trattativa parallela con il suo omologo russo Valery
Gerasimov, per cercare una via d’uscita che limiti i danni.
Quale potrebbe essere questa via d’uscita?
Gli
occidentali si accontenterebbero di strappare un’intesa che comporti
pesantissime cessioni territoriali per l’Ucraina: il riconoscimento
della sovranità russa non solo sulla Crimea, su Donetsk e Lugansk, ma
anche sui territori attualmente controllati, Kherson e Zaporizhzhia. In
cambio la Russia rinuncerebbe al veto sull’ingresso di Kiev nella Nato, a
patto che non ospiti soldati né basi militari straniere. Questo,
secondo me, non ha alcun senso.
La Russia potrebbe davvero accettare un accordo del genere?
Non ha alcun motivo, perché sta palesemente vincendo sul campo di
battaglia. Ormai non sono più in grado di negarlo nemmeno i mezzi
d’informazione occidentali secondo cui Putin aveva le ore contate. E
oltretutto non ha più alcuna fiducia nell’Occidente.
In effetti i patti sono stati più volte disattesi dagli ucraini.
La Merkel, Hollande e Poroshenko hanno ammesso che gli accordi di Minsk
furono concepiti e firmati solo per dare all’Ucraina il tempo di
riarmarsi. Lo scorso giugno, ai mediatori africani, Putin esibì un
documento, a suo dire firmato dal capo negoziatore ucraino nel marzo
2022, poche settimane dopo l’inizio delle ostilità, in cui si stabiliva
il ritiro della Russia da Kiev, il riconoscimento della sovranità russa
sulla Crimea e la neutralità dell’Ucraina, in cambio di garanzie.
Questa notizia è caduta nel vuoto.
Ma è stata
confermata da altre fonti, come l’ex cancelliere tedesco Gerhard
Schroeder, l’allora primo ministro israeliano Naftali Bennett e il
parlamentare ucraino Davyd Arachamija. Non si sarebbe arrivati alla pace
solo perché gli occidentali si misero di mezzo, immagino perché
pensavano di infliggere alla Russia una sconfitta strategica epocale.
Invece oggi la pace interessa di più proprio alla Nato.
Per la Nato si tratta di porre fine il più rapidamente possibile a un
conflitto che potrebbe costarle l’immagine internazionale di
invincibilità che si era costruita nel corso degli anni. In gioco c’è la
tenuta degli Stati Uniti sul sistema finanziario internazionale. Nello
studio della Rand Corporation datato gennaio 2023, intitolato «Avoiding a Long War», si affermava che gli interessi americani risulterebbero molto meglio tutelati da una conclusione rapida del conflitto.
E come si potrebbe farla accettare agli ucraini?
Lo stesso documento suggeriva di convincerli centellinando gli aiuti,
facendo capire che potrebbero riprendere se Kiev aprisse le trattative.
Esattamente quello che sta avvenendo. La bocciatura repubblicana del
piano di aiuti di Biden da 106 miliardi di dollari all’Ucraina, Taiwan e
Israele è un segnale inquietante per Zelensky. Che infatti ha
cancellato il suo intervento previsto al Congresso.
Ma se abbiamo detto che la Russia non accetterà più alcuna trattativa, allora qual è il punto di caduta di questa crisi?Ritengo che i russi continueranno nella demolizione controllata dell’Ucraina, per farne una landa desolata che prevenga qualunque minaccia futura di trasformazione dello Stato in un baluardo occidentale. O di quel che rimane dello Stato: perché se la Russia dovesse prendersi anche Odessa, come credo che proverà a fare, non resterebbe che una terra senza sbocco sul mare, costretta per forza di cose ad avere rapporti collaborativi con Mosca per continuare a esistere. L’area russofona verrà annessa o si trasformerà in una sorta di cuscinetto tra la Federazione russa e la Nato.
a cura di Fabrizio Corgnati
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