La guerra perduta
di Enrico Tomaselli - 18/12/2023
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Fonte: Giubbe rosse
Quella che si sta combattendo in Medio Oriente, e che per
via del delirio che si è impossessato delle classi dirigenti occidentali
potrebbe ancora sfociare in una terribile guerra regionale-mondiale, è
qualcosa che le leadership sioniste israeliane rifiutano di riconoscere
come tale, e con loro l’intero occidente, che alla loro narrativa si abbevera.
Quello
che Israele non sa né vuole capire, anzitutto perché ha una classe
dirigente assolutamente mediocre, un mix di bigotti fanatici e grassi
squali della politica, è che spezzettare la Storia,
frammentarla in segmenti separati secondo il proprio comodo, non solo
non serve realmente a frantumarla, ma impedisce di coglierne il senso,
la direzione; misconoscere il passato inibisce la capacità di
comprendere il futuro, di averne una visione.
Sin dalla fondazione dello stato di Israele – che, non va
dimenticato, è uno specifico progetto del sionismo – la popolazione
autoctona palestinese è sempre stata considerata esclusivamente come un
problema [1], negandone in nuce l’umanità. Un problema perché
possedeva la terra che loro bramavano, perché era troppo numerosa,
perché non chinava abbastanza la testa. Da lì a considerarli apertamente
animali il passo è stato più breve di quanto si creda.
Salvo
rare, quanto lodevoli ma inascoltate eccezioni, le leadership
israeliane sono sempre state vittime di questa distorsione prospettica,
che li ha poi portate – appunto – ad una lettura della propria storia nazionale in cui gli arabi sono soltanto un ostacolo, bestie feroci che rendono difficile stabilire la pace nella terra promessa.
Questa incapacità di guardare la storia anche dalla parte palestinese,
ha fatto sì che non vedessero la Storia, ma solo una serie di
incresciosi contrattempi.
Per Israele, il 7 ottobre 2023 è solo l’ultimo – questi maledetti animali, che non accettano la soma e invece di lavorare per noi ci aggrediscono! – e nella sua visione monca ad esso non può che seguire una punizione esemplare. Magari anche risolutiva.
Israele pensa ora di poter completare il lavoro iniziato nel 1948, e poi portato avanti nel 1967. Per ristabilire l’ordine naturale delle cose.
Per
questo non riesce a comprendere due cose fondamentali: quella che si
sta combattendo è una guerra di liberazione (come quella algerina, come
quella indocinese, come quella sudafricana…), e quel 7 ottobre è la data
che segna la svolta, dopo la quale nulla sarà mai più come prima.
Non importa quante bestie feroci uccidi, se dimentichi che sono fiere.
Le potenze coloniali diventano feroci, quando il loro dominio viene
messo in discussione. Ed i popoli che si vogliono liberare pagano sempre
un prezzo enorme. Gli algerini ebbero 2 milioni di morti, quasi un
quinto della popolazione. I vietnamiti 3 milioni di morti. Ma alla fine i
francesi dovettero andarsene.
Il dominio coloniale finisce quando la
potenza dominante paga un prezzo che non riesce più a sostenere. Ed è
questa la differenza. Per i dominanti, il prezzo massimo accettabile è
molto basso, ma per i dominati, che lottano per la propria libertà e per
quella delle generazioni future, sarà sempre molto più alto.
Liquidare
la Resistenza palestinese come una questione di terrorismo –
dimenticando tra l’altro di aver fondato Israele facendo larghissimo
ricorso a questa pratica… – è ciò che impedirà agli israeliani di capire
la Storia di cui fanno parte. E quindi di affrontarla.
Come diceva il non compianto Henry Kissinger, a proposito della
guerra del Vietnam, “abbiamo combattuto una guerra militare; i nostri
avversari ne hanno combattuto una politica. Abbiamo cercato il
logoramento fisico; i nostri avversari miravano al nostro esaurimento
psicologico. In questo modo abbiamo perso di vista una delle massime
cardinali della guerra partigiana: la guerriglia vince se non perde. L’esercito convenzionale perde se non vince.”
E l’IDF, non sta affatto vincendo. Non può vincere. La Resistenza non
ha bisogno di infliggere al nemico una sconfitta militare tale che, in
sé, ne determini il crollo. Non ha bisogno di vincerlo strategicamente
sul campo di battaglia. È sufficiente che riesca a mantenere nel tempo
la sua capacità di combattimento, che riesca ad infliggere delle
sconfitte tattiche.
L’operazione al-Aqsa flood è l’equivalente palestinese di Dien Bien-Phu per i vietminh, dell’offensiva del Tet per i vietcong.
L’approccio storico-culturale con cui Israele affronta il conflitto,
ancor prima che quello strategico e tattico, è il limite insormontabile
per Tel Aviv. Ed è la causa da cui derivano gli errori che sta
commettendo nella guerra. Non capisce che affrontare le formazioni della
Resistenza come se fossero delle gang criminali non la porterà da
nessuna parte. Non capisce che imporre domani l’amministrazione militare
a Gaza è un enorme favore ad Hamas, che sarà sgravata dall’onere del
governo e potrà concentrarsi nella lotta. Non capisce che l’ondata di
attacchi militari in Cisgiordania, e l’ulteriore delegittimazione
dell’ANP (che è il governo dei suoi ascari), sono un assist per
Hamas, che vuole più di ogni cosa riunificare i fronti di Resistenza.
Non capisce che minacciare continuamente i suoi vicini non farà che
spingerli a saltarle addosso al primo momento di debolezza.
Non
capisce che non è più il 1967 né il 1973, e che il suo nemico non sono
gli eserciti giordano, siriano ed egiziano, ma un fronte di guerriglia
esteso, capace di mettere in campo almeno altrettanti uomini di quanti
ne può mobilitare Israele.
L’illusione di potenza, il disconoscimento dei cambiamenti che
intervengono nel mondo intorno a noi, sono costante causa di sanguinose
avventure. Paradigmatica, sotto questo profilo, è la storia
dell’avventura ucraina. Benché sia stata lungamente studiata e
preparata, si è – prevedibilmente, verrebbe da dire – risolta in un
disastro. È vero che ha troncato, almeno per qualche decennio a venire, i
proficui rapporti tra Europa e Russia, ma non solo non ha affatto
indebolito quest’ultima, ma ne ha addirittura determinato il
rafforzamento – e più in generale, proprio in termini geopolitici, ha
prodotto la saldatura politica, economica e militare tra i principali
nemici annoverati dagli USA: la Russia, la Cina, l’Iran e la Corea del
Nord.
Una delle tante connessioni esistenti [2], infatti, tra la
guerra in Ucraina e quella in Palestina, è che entrambe sono state
affrontate dalle potenze occidentali con la convinzione di poterle
quantomeno gestire, se non vincerle. E che invece hanno
entrambe segnato un giro di boa, quel punto della Storia oltre il quale
tutto cambia, per sempre.
Oltretutto, ed anche questo sembra incredibilmente sfuggire alla
leadership israeliana, la strategia politico-militare adottata per
fronteggiare la crisi innescata dall’attacco del 7 ottobre, rischia
seriamente di minare alle fondamenta l’esistenza stessa dello stato di
Israele in quanto stato ebraico.
Aver scelto infatti la via genocidaria, come strumento presuntamente risolutivo sia del terrorismo palestinese
che della minaccia demografica araba, significa al tempo stesso aver
portato all’estremo possibile la strategia millenaristica del sionismo.
Al di là dell’ecatombe nucleare – che travolgerebbe Israele quanto e più
che i suoi nemici – non c’è più un oltre possibile: il
genocidio è il limite estremo raggiungibile. E quando si rivelerà
inefficace (e ancora una volta, nessuno meglio degli ebrei dovrebbe
sapere che non può essere diversamente), metterà in crisi l’idea
fondativa di Israele, la sua ideologia nazionale.
Il sogno di una patria esclusiva, degli ebrei e solo per gli ebrei, così come l’illusione perpetrata per ottant’anni che tale sogno fosse effettivamente realizzabile, crollerà. Quando la società israeliana avrà sedimentato nella propria coscienza l’impossibilità materiale, concreta, di realizzarlo – perché i palestinesi non si arrenderanno mai, non smetteranno mai di essere di più, non accetteranno mai di vivere come bestie – allora tutto cambierà anche lì. Certo, non domani. Ci vorranno forse dieci anni (e saranno anni sanguinosi e dolorosi), ma sul medio periodo questo significherà la morte politica del progetto sionista. La liberazione della Palestina libererà dalle sue ossessioni anche Israele. La sua guerra è perduta.
1 – La parola d’ordine su cui il sionismo costruì dapprima l’idea, e poi lo stato israeliano, era la famosa doppia menzogna “una terra senza popolo per un popolo senza terra”.
Doppia perché quella terra era abitata dal popolo di Palestina da
migliaia di anni, e perché – molto semplicemente – gli ebrei non sono un
popolo, ma semplicemente i seguaci di una religione. E seppure questa
religione è assai esclusiva (gli ebrei non fanno proselitismo,
si è tali per nascita), resta il fatto che i suoi adepti si sono sparsi
per il mondo da oltre duemila anni, durante i quali l’etnicità semitica si è sicuramente annacquata assai
più di quanto non sia accaduto agli arabi palestinesi – che sono a loro
volta semiti. Non a caso, gran parte degli attuali leader israeliani
sono polacchi, russi, rumeni… E tra gli ebrei che vivono in Israele ci
sono ben due comunità per nulla semitiche, quella dei falascià (ebrei di origine etiope) e quella degli ebrei di origine indiana.
2 – Su questo aspetto di entrambe i conflitti, cfr. “Due guerre”, Giubbe Rosse News e “Info-warfare: la ‘terza guerra’”, Giubbe Rosse News
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