Israele premia il sostegno italiano concedendo nuovi permessi di estrazione a ENI
Mentre il Medio Oriente piange i suoi morti, il Governo israeliano ha assegnato a sei società – tra cui il colosso italiano degli idrocarburi ENI – dodici nuove licenze per l’esplorazione del gas naturale al largo della costa mediterranea del suo Paese. Con l’obiettivo, come annunciato dal Ministro dell’Energia Israel Katz, di diversificare i fornitori di energia e aumentare la concorrenza.
Per l’esplorazione e la scoperta di nuovi giacimenti offshore, le società assegnatarie saranno divise in due macro gruppi: ad ognuno sarà assegnata una specifica area di ‘investigazione’, tutte però adiacenti al giacimento israeliano denominato ‘Leviathan’, uno dei più grandi ‘contenitori’ di gas al mondo da cui Israele attinge già per il proprio rifornimento interno e per l’esportazione. Nello specifico, al primo trio composto da Eni, Dana Petroleum e Ratio Energies spetterà la parte ovest, al secondo, che comprende la multinazionale britannica del petrolio e del gas BP, State Oil Company of Azerbaigian Republic (SOCAR) e NewMed Energy, la restante parte. Le licenze avranno una durata iniziale di tre anni, prolungabili fino a sette – dipenderà sostanzialmente dai progressi e dalle scoperte, che se insufficienti potrebbero spingere le società a ritirarsi.
L’area di ‘lavoro’ tuttavia ha già dimostrato di essere ricca di risorse naturali. Negli ultimi quindici anni il Mediterraneo ha svelato grandi giacimenti, rendendo Israele un importante esportatore di gas. Un ruolo che il Paese spera di rafforzare con la scoperta di nuove fonti, che gli permetterebbero di intensificare le rotte del gas verso l’Europa. Nel 2022 il Paese ha prodotto quasi 22 miliardi di metri cubi di gas – 9 dei quali destinati a Egitto e Giordania -, prelevati dai suoi giacimenti ‘Leviathan’ e ‘Tamar’, ma secondo il quotidiano economico-finanziario britannico Financial Times, Israele ha probabilmente potenziale per aumentare la propria produzione di 15 miliardi di metri cubi entro il 2026, sia attraverso il potenziamento e lo sviluppo dei giacimenti esistenti che con le nuove esplorazioni. Non è escluso che una parte di queste risorse possano finire nei gasdotti che conducono all’Europa, che da tempo cerca di svincolarsi dall’energia russa.
Un fattore che potrebbe aver influenzato il continente sulle parti da prendere nel conflitto tra Israele e Palestina. D’altronde, come ha specificato il Ministro dell’Energia Katz, il fatto che grandi società di esplorazione abbiano deciso di investire nel Paese proprio quando questo «è in guerra con il gruppo terroristico Hamas, è un segno di fiducia nella resilienza di Israele», e le nuove scoperte di gas, oltre a rafforzare la sicurezza energetica di Israele, «inspessirebbero anche i legami internazionali».
Dal lato suo, l’Italia ha già dato il suo sostegno allo Stato ebraico. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha sentito telefonicamente il Premier Netanyahu assicurando a Israele «la piena solidarietà del Governo italiano». Confermando così non solo la sottomissione di quest’ultimo agli Stati Uniti – da sempre alleati di ferro di Israele – ma anche la sua “fede” sionista che mostra l’asservimento politico di Roma a ben precisi e poteri e criteri.
Una tendenza ben evidente anche a decine di chilometri di distanza da casa nostra, e che lo scorso ottobre ha persino spinto decine di manifestanti a riunirsi davanti al complesso petrolifero e di gas di Mellitah, – di cui la Libia è comproprietaria insieme all’italiana Eni –, a circa 60 chilometri dalla capitale Tripoli, per denunciare i «crimini di guerra» commessi dall’occupazione israeliana nella Striscia di Gaza contro i civili. Il gruppo di dimostranti ha chiesto allo Stato italiano di correggere la sua «infausta» posizione nei confronti degli attacchi dell’esercito israeliano e di contribuire all’invio di aiuti al territorio cinto d’assedio. «L’Italia scelga tra il petrolio e Israele», hanno urlato.
Ma l’Occidente, che in passato ha più volte ribadito che «sia israeliani che palestinesi meritano di vivere in pace, con uguali misure di libertà, sicurezza e prosperità», non ha però mai mosso un dito affinché accadesse per davvero. I suoi rapporti con Israele sono così radicati che negli ultimi anni molti più leader europei si sono recati direttamente a Gerusalemme. Ma, come ha fatto notare Benjamin Haddad, esperto di politica europea e relazioni transatlantiche, «il cambiamento principale è arrivato dalle stesse società europee ed è il simbolo di qualcosa di più profondo. Di fronte agli attacchi terroristici degli ultimi anni, gli europei hanno sempre più associato Israele a qualcuno che affronta delle sfide» e che combatte il terrorismo islamista.
Così alla fine il Paese ha sempre potuto violare ripetutamente i diritti dei palestinesi a proprio piacimento – come sta accadendo anche ora – senza timore di ritorsioni significative da parte dell’UE. E anzi, con la prospettiva di accordi economici ancora più intensi.
[di Gloria Ferrari]
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