Il neocolonialismo del carbonio: perché gli Emirati stanno comprando le foreste africane
Negli ultimi mesi l’azienda Blue Carbon LLC, con sede a Dubai, ha concluso diversi accordi con Paesi africani per gestire parti consistenti dei loro territori al fine di trasformarli in riserve per la compensazione di emissioni e, quindi, per vendere titoli sul mercato globale del carbonio. Con i vari memorandum d’intensa firmati in Africa, la società emiratina si è assicurata la bellezza di 24,5 milioni di ettari, cioè 245 mila chilometri quadrati: un’area enorme, di poco inferiore all’intero territorio italiano, che è pari a 302 mila km2. Secondo la società questo rappresenterebbe una grande opportunità per i Paesi coinvolti e, soprattutto, per le comunità che abitano quei luoghi. D’altro canto, ci sono moltissimi dubbi circa le modalità di attuazione e sul futuro delle stesse comunità che abitano le aree designate a fungere da riserva di carbonio. Per ultimo, ma non per importanza, è alquanto curioso che Blue Carbon sia di proprietà della famiglia reale e che questa sia anche la proprietaria di una delle più grandi compagnie al mondo nel settore dei combustibili fossili. A chi venderà quei titoli? A quale prezzo?
La società, al cui vertice vi è lo sceicco Ahmed Dalmook Al Maktoum, membro della famiglia regnante di Dubai, si è assicurata la gestione di questi immensi territori, grazie alla stipula di una serie di Memorandum d’intesa (Mou), con alcuni Paesi Africani, ai sensi dell’articolo 6.2 dell’Accordo di Parigi, il quale ha istituito i ITMOs (Internationally Transfered Mitigation Outcomes), ovvero crediti di riduzione delle emissioni che possono essere creati sia da enti pubblici che privati e che possono essere scambiati reciprocamente dai Paesi attraverso accordi bilaterali.
Uno dei Paesi coinvolti negli accordi con Blue Carbon LLC è la Liberia. Quest’ultima ha ceduto la gestione di più di un milione di ettari, ovvero il 10% della propria superficie, per un periodo di 30 anni. Lo Zimbabwe ha invece affidato alla società emiratina la gestione di un quinto della sua superficie terrestre, 7,5 milioni di ettari. Accordi simili sono stati stipulati con i governi di Angola, Kenya, Tanzania, Uganda e Zambia. I piani della Blue Carbon LLC non si arresterebbero poi solo all’Africa poiché anche con Pakistan e Papua Nuova Guinea sono stati concordati simili memorandum.
Dopo le varie critiche espresse a seguito del primo di questi accordi, firmato con la Liberia, la società di Dubai, in occasione del memorandum firmato con lo Zimbabwe, ha voluto dire quanto segue: «Una delle caratteristiche distintive di questa collaborazione è l’istituzione dei Community Welfare Programs, in cui il capitale ricevuto dai crediti di carbonio sarà utilizzato, tra le altre cose, per finanziare vari progetti sociali su misura per elevare gli standard di vita delle comunità che risiedono nelle aree del progetto. Queste iniziative comprenderanno settori cruciali come l’assistenza sanitaria, l’istruzione, lo sviluppo delle conoscenze, la creazione di industrie artigianali». Inoltre, per concludere, assicura che «questa partnership pionieristica è in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e sottolinea l’impegno di Blue Carbon e del governo dello Zimbabwe nel guidare un cambiamento trasformativo per un futuro più verde, sostenibile e più equo».
Tuttavia, rimangono molti aspetti che definire controversi è riduttivo. Ad esempio, ci sono preoccupazioni per le potenziali violazioni dei diritti fondiari, consuetudinari e di comunità, così come per il possibile sfollamento delle stesse comunità locali che si trovano nelle aree gestite dalla società privata della famiglia reale degli Emirati Arabi Uniti. Inoltre, nessuna delle comunità locali coinvolte dagli accordi ha partecipato ad alcun tipo di processo decisionale. Eppure, in Liberia quasi metà della popolazione vive nella foresta e dipende da essa per la propria sopravvivenza. Le stesse Nazioni Unite hanno certificato che nel mondo vivono 1,6 miliardi di persone che dipendo per la propria sopravvivenza dalle foreste e delle loro risorse.
Gli Emirati Arabi Uniti, che hanno nominato Sultan Al Jaber – già gestore della mastodontica compagnia petrolifera e del gas della nazione, l’Abu Dhabi National Oil Company (ADNOC) – come inviato e capo negoziatore internazionale per il clima, ospiteranno nel dicembre prossimo la COP28, ovvero la conferenza sul clima, che tra i punti all’ordine del giorno dovrebbe avere proprio la discussione sui crediti di compensazione. Petrolio e gas rappresentano per gli Emirati Arabi Uniti circa il 30% del PIL e il 13% delle esportazioni. Sebbene non vi sia alcuna certezza, risulta del tutto probabile che i crediti di emissione generati da Blue Carbon saranno venduti proprio alla Abu Dhabi National Oil Company, abbassando così anche i costi di compensazione con soldi che passano da una mano reale ad un’altra e con qualcosa (si parla di circa il 30%) che nel passaggio rimarrà ai Paesi e alle comunità locali coinvolte. Oltretutto all’inizio di quest’anno, lo scandalo che ha travolto Verra, la più grande agenzia del mondo di standard di compensazione del carbonio, ha fatto crollare il valore dei crediti di carbonio.
Il colonialismo del carbonio, così viene chiamata l’idea per cui gli inquinatori possano affermare che le loro emissioni di combustibili fossili sono state annullate perché hanno pagato per piantare alberi (generalmente, quando avviene, in monoculture) o perché proteggono, o per meglio dire, gestiscono foreste abitate da comunità il cui futuro, già incerto, si tinge di tinte fosche. Per queste ultime vi è infatti la paura di essere sfollati e allontanati e che il loro modo di vivere divenga incompatibile con la necessità dei Paesi ricchi di poter continuare ad inquinare sentendosi in pace con sé stessi.
[di Michele Manfrin]
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