Nel 2013, il presidente cinese Xi Jinping annunciava la Via della seta marittima, la componente oceanica della sua iniziativa di punta: la Belt and Road Initiative (Bri), il mastodontico progetto ideato per migliorare l’accesso della Cina ai mercati mondiali attraverso corposi investimenti globali nelle infrastrutture degli hub strategici di trasporto.
Oggi, dieci anni dopo, in seguito ad una pandemia di Covid-19, ad una crisi immobiliare preoccupante e ad altre magagne interne all’epoca non preventivate da Pechino, il flusso di denaro investito da Pechino nell’iniziativa ha subito un inevitabile rallentamento, così come è accaduto alla crescita economica cinese.
Ciò nonostante, ha scritto il Washington Post, la Cina è riuscita ad assicurarsi una partecipazione significativa in una rete di porti che risultano essere fondamentali per il commercio mondiale e la libertà di navigazione. Anche se il gigante asiatico ha più volte collegato i suoi investimenti ad un obiettivo commerciale, gli Stati Uniti e i loro alleati sono sempre più preoccupati per le potenziali implicazioni militari delle mosse del Dragone.
I porti della Cina
Considerando che Xi ha più volte parlato della sua ambizione di trasformare la Cina in una superpotenza marittima, la rete portuale fin qui assemblata dal Paese offre uno spaccato sulla portata di tali ambizioni. Dando uno sguardo ad una cartina geografica, la rotta marittima adocchiata da Pechino corre verso sud, partendo dalla costa cinese e attraversando la principale via di transito dell’Oceano Indiano nonché i più trafficati punti di strozzatura marittima del Medio Oriente, per poi finire la sua corsa in Europa.
È interessante soffermarci su un dato: quando Xi ha annunciato la Bri, e quindi la gemella Via della seta marittima, la Cina contava partecipazioni in 44 porti. Un decennio più tardi, questa base operativa si sarebbe ampliata. Adesso, infatti, la Repubblica Popolare Cinese possiede o gestisce porti e terminali in quasi 100 località situate in oltre 50 Paesi (in tutti gli oceani e in tutti i continenti).
Altro aspetto rilevante: la maggior parte di questi investimenti è stata effettuata da società di proprietà del governo cinese, rendendo di fatto il Partito comunista cinese il più grande operatore dei porti che si trovano al centro delle catene di approvvigionamento globali.
Le preoccupazioni degli Usa
Nel 2018, la Cina ha ampliato la propria presenza marittima presso il porto Khalifa, negli Emirati Arabi Uniti. Cosco Shipping, colosso statale cinese, ha costruito un terminal per container commerciali in loco, che ora gestisce.
C’è chi teme che una simile presenza – qui come altrove – possa offrire a Pechino una finestra sui rapporti commerciali dei Paesi concorrenti, oltre che essere sfruttata per consentire alla Repubblica popolare cinese di difendere le proprie rotte di rifornimento, spiare i movimenti militari statunitensi e, potenzialmente, compromettere le spedizioni Usa.
Del resto, i porti e i terminal di proprietà cinese fungono già da scalo per le navi da guerra cinesi. Certo, Pechino è lontana decenni dall’eguagliare la presenza militare statunitense nel mondo, ma la Cina ha la marina più grande e in più rapida crescita al mondo.
Non è difficile toccare con mano la nuova dimensione del gigante asiatico nello scacchiere mondiale che, ad esempio, 20 anni fa non aveva alcuna presenza navale nell’Oceano Indiano mentre ora è in grado di mantenere nella regione da sei a otto navi da guerra in contemporanea.
Una rete strategica
Anziché fare la lista dei porti o dei terminal controllati dalla Cina, vale la pena accendere i riflettori sui casi principali. Ad esempio, Pechino si è assicurata un contratto di locazione di 99 anni per il porto di Hambantota nello Sri Lanka, ottenendo un importante punto d’appoggio sulla trafficata rotta marittima tra l’Asia e l’Occidente. Un particolare non da poco, visto che circa l’80% del commercio cinese attraversa l’Oceano indiano, compreso quasi tutto il petrolio che alimenta il motore energetico del Dragone.
La Cina ha poi aumentato la sua influenza nei porti egiziani, nei pressi del Canale di Suez, investendo all’inizio del 2023 nei terminal dei porti di Ain Sokhna e Alessandria. Da considerare, inoltre, che il gigante asiatico è presente in almeno una ventina di porti strategici europei, molti dei quali hub logistici della Nato e della Marina statunitense. In America Latina, invece, la Cina gestisce i porti ad entrambe le estremità del Canale di Panama, e sta costruendo da zero un megaporto da 3 miliardi di dollari a Chancay, in Perù, che trasformerà il commercio tra la stessa Repubblica popolare e l’intera regione, consentendo ai più grandi container del mondo di attraccare per la prima volta nel continente sudamericano.
Dulcis in fundo, la Cina può vantare un sistema software chiamato Logink, una piattaforma logistica digitale di proprietà del governo cinese, adottata da 24 porti in tutto il mondo, tra cui Rotterdam e Amburgo. Logink, sostiene il dipartimento dei Trasporti Usa, potrebbe consentire al governo cinese di accedere a grandi quantità di informazioni normalmente riservate relative ai movimenti delle merci che circolano in tutto il mondo, alla loro gestione e ai prezzi. Ad agosto, Washington ha emesso un alert per avvertire le aziende e le agenzie statunitensi di evitare di interagire con il sistema a causa del rischio di spionaggio e attacchi informatici.
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