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Dal 7 ottobre Benjamin Netanyahu, un tempo soprannominato “King Bibi” e “Mr Sicurezza”, guida da lame duck la reazione militare di un Paese travolto dall’assalto di Hamas, uno choc solo in parte paragonabile all’attacco a sorpresa lanciato da Egitto e Siria nel 1973. Per molti analisti il premier – in carica per più di 15 anni non consecutivi, un record sfuggito persino a David Ben Gurion, il padre della patria – è un morto politico che cammina e il 75% degli israeliani lo considera responsabile della carneficina eseguita dal gruppo islamista. L’errore imperdonabile a lui attribuito è quello di aver distratto per mesi il Paese con una contestata riforma della giustizia e con i suoi processi per corruzione. Un tempo che i nemici di Israele hanno usato per preparare gli assalti ai kibbutz e al rave party esercitandosi a pochi chilometri dal confine con la Striscia di Gaza e sfuggendo ai radar dell’intelligence più potente del Medio Oriente.
Fortune e sfortune di Netanyahu
Per ironia del destino è stato proprio il tema del terrorismo a garantire il successo politico di Netanyahu e del suo partito, il Likud, portandolo al potere nel 1996 sull’onda della reazione alla serie di attentati seguiti agli accordi di Oslo del 1993. Nasceva infatti così il mito di leader conservatore in grado di rappresentare l’unica alternativa possibile ai governi di sinistra ritenuti troppo arrendevoli di fronte alle minacce alla sicurezza dello Stato ebraico.
“Che diavolo, diamogli una possibilità e vediamo cosa succede” ha scritto Bibi nella sua autobiografia pubblicata l’anno scorso in merito all’attitudine che lo ha contraddistinto nelle sue scelte di vita. Nata forse con lo stesso spirito, la sua strategia del divide et impera che mirava ad usare Hamas, da lui considerata quasi inoffensiva, per indebolire l’Anp ha portato Israele in un vicolo cieco e ad una pericolosa crisi che potrebbe coinvolgere presto altri attori del tinderbox mediorientale.
Netanyahu, sotto assedio anche per le trattative per la liberazione dei circa 240 ostaggi in mano ad Hamas e altri gruppi affiliati, potrebbe uscire di scena al termine della prima fase dell’operazione di terra a Gaza. A decidere sulle sorti del premier potrebbe essere Joe Biden, il componente “ombra” del gabinetto di guerra israeliano. Secondo diverse ricostruzioni di stampa, il presidente americano, storicamente “grande elettore” nei momenti più delicati della storia dello Stato ebraico, avrebbe infatti cominciato a discutere con Netanyahu della possibilità di un cambio al vertice invitandolo a “considerare gli scenari da lasciare al suo successore”. “Per ciò che è accaduto ci sarà una resa dei conti nella società israeliana e la catena delle responsabilità arriva dritta alla scrivania del primo ministro” dichiarano ai media fonti dell’amministrazione Biden.
Le opzioni per il governo del futuro
Ma chi potrebbe quindi prendere il posto di Bibi? La principale alternativa, ben vista a Washington, sarebbe Benny Gantz, ex capo di stato maggiore e leader centrista entrato nel governo di unità nazionale. Un sondaggio del quotidiano Maaruv gli attribuisce il 52% delle preferenze come eventuale premier contro il 26% di Netanyahu e, secondo le simulazioni di voto, il suo partito, Unione nazionale, conquisterebbe 40 seggi contro i 18 del Likud. Le strade dei due politici si sono già incrociate nel 2020 quando, anche a causa della pandemia, Gantz aveva accettato la nomina di ministro della Difesa nel governo Netanyahu ottenendo la promessa di una staffetta per la carica di premier. Un impegno però non rispettato che ha portato alle elezioni anticipate sbarrando le porte all’ex generale.
Le altre opzioni per il dopo Bibi sono i due ex premier Naftali Bennett e Yair Lapid. Bennett, milionario del settore high-tech nato in una famiglia di origini ebraiche di San Francisco, è famoso per le sue credenziali nazionaliste. Proviene dagli ambienti militari, si è arruolato come riservista in seguito agli attacchi del 7 ottobre e ha dato al suo primogenito il nome del fratello di Netanyahu, Yoni, ucciso in un’operazione israeliana di recupero ostaggi ad Entebbe in Uganda. Il suo appoggio all’espansione degli insediamenti in Cisgiordania e l’opposizione alla nascita dello Stato palestinese che ha definito “suicida” per la sicurezza d’Israele non lo rendono però il favorito alla successione.
Quotazioni migliori le ha invece il centrista Lapid, ex star del giornalismo televisivo, il quale ha scelto di rimanere fuori dal governo e in questi giorni si è scagliato contro il ministro delle Finanze di estrema destra, Bezalel Smotrich, attaccandolo per il supporto economico fornito ai coloni e alle scuole ultraortodosse. Il suo ruolo di moderato a favore della soluzione dei due Stati potrebbe in ogni caso garantirgli un posto di rilievo in un futuro esecutivo guidato da Gantz.
Anche se alcuni commentatori ritengono che Netanyahu, politico dalle sette vite, potrebbe riservare ancora sorprese, difficilmente per il premier sarà possibile fermare il conto alla rovescia partito il 7 ottobre. Il redde rationem preannunciato promette di rappresentare uno spartiacque per una nazione che per molti anni ha pensato di sentirsi così al sicuro con re Bibi al potere al punto da far dire a Sara Netanyahu che il Paese avrebbe smarrito la strada senza suo marito al comando. Un’illusione infrantasi per sempre all’alba di quello che sembrava uno shabbat come tanti altri.
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