La storia di Judith Curry inizia con un’allarmante scoperta che aveva attirato l’attenzione dei media: uno suo studio indicava un aumento significativo nell’intensità degli uragani, un argomento che è stato rapidamente collegato al riscaldamento globale. Curry ricorda che questa scoperta l’aveva resa una sorta di “rock star” agli occhi dei gruppi ambientalisti e degli allarmisti sul clima, facendola volare in giro per incontrare politici. Tuttavia, le critiche ai suoi lavori l’hanno spinta a indagare ulteriormente, e ha capito che alcune lacune nella sua ricerca erano dovute a dati errati e alla variabilità climatica naturale.
Ma uno degli episodi che ha avuto un impatto significativo sulla percezione di Curry sul mondo della ricerca climatica è stato lo scandalo noto come “Climategate”. Questo scandalo ha rivelato tentativi aggressivi da parte di alcuni scienziati allarmisti di nascondere dati che suggerivano che il cambiamento climatico potesse non essere una crisi immediata. Queste pratiche poco etiche hanno fatto emergere una realtà inquietante: esiste un “settore del cambiamento climatico” che sembra essere istituito per promuovere l’allarmismo, con origini che risalgono addirittura al programma ambientale delle Nazioni Unite.
L’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), creato dalle Nazioni Unite, doveva inizialmente cercare evidenze di un “cambiamento climatico pericoloso causato dall’uomo”, mettendo in secondo piano la considerazione dei possibili vantaggi del riscaldamento. Curry spiega che questo orientamento ha influenzato il modo in cui i finanziamenti sono stati indirizzati, favorendo chi faceva affermazioni allarmiste sul “cambiamento climatico antropogenico”.
Un punto particolarmente rivelatore dell’intervista è quando Curry sottolinea il ruolo degli editori delle riviste scientifiche, molti dei quali tendono ad essere allarmisti. Curry cita il caso di un editore della rivista Science che ha dichiarato che “il tempo per il dibattito è finito”. Questo atteggiamento crea un ambiente in cui diventa difficile per i ricercatori scettici ottenere visibilità e pubblicare i propri studi.L’intervista completa del NYPost
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