Le liberaldemocrazie bruciano nei cassonetti
di Andrea Zhok - 30/06/2023
https://www.ariannaeditrice.it/articoli/le-liberaldemocrazie-bruciano-nei-cassonetti
Fonte: Andrea Zhok
Alla luce dei gravi scontri a Parigi seguiti all'uccisione
del 17enne Nael per mano di un agente di polizia, molti interrogativi
sorgono.
In prima battuta salta agli occhi l'assenza di un quadro
intelligibile da parte dei media circa le possibili cause di questo
scoppio di violenza (oramai ciclicità costante in Francia). Nella
descrizione degli eventi che si ritrovano sulla maggior parte dei
giornali si fatica non poco a comprendere perché mai le banlieue si
sarebbero rivoltate. Per come descrivono il fatto le autorità e i
giornali, sembra di trovarsi di fronte ad uno sciagurato incidente che
potrebbe capitare a chiunque. Ma la percezione da parte del
sottoproletariato urbano delle banlieue è manifestamente che riguardi
loro e non i “giovani francesi” in generale. Dobbiamo dire che sono
vittime di un’illusione? Se si tratta di un’illusione è qualcosa di
assai persistente perché le rivolte nelle banlieue sono eventi
ricorrenti da decenni.
I pochi, di solito dall’estrema sinistra
francese, che danno una lettura non contingente degli eventi utilizzano
l’usuale inutile chiave di lettura del “razzismo”. Ma di fronte ad un
ragazzo dalla pelle chiara, con origini del Maghreb ma nato in Francia,
in un paese in cui il 21% dei nuovi nati ha un nome di origine araba e
l’8,8% è musulmana, è insensato pensare che l’identificazione “razziale”
sia decisiva. La polizia peraltro è piena di reclute con
caratteristiche etniche simili.
Naturalmente nella marmellata
mentale dell’odierna sociologia politicamente corretta “razzismo” è
diventato un termine buono per tutti gli usi, utilizzato per
stigmatizzare un sacco di cose diverse, di carattere culturale,
economico, di ceto, religioso, che con il senso biologico di “razza” non
hanno niente a che fare. Ciò che è essenziale in questi usi verbali è
infatti l’intento mistificatorio, la volontà di utilizzare le categorie
non con lo scopo di definire i loro oggetti ma al contrario con quello
di impedire di definirli. Questo intento mistificatorio è peraltro ben
visibile anche a livello istituzionale, dove, ad esempio in Francia, è
vietato nei censimenti ufficiali raccogliere qualunque dato relativo
alla composizione etnica e religiosa. Secondo lo stilema orwelliano che
caratterizza l’odierna cultura occidentale, i problemi si fanno
scomparire cambiando o cancellando i concetti per identificarli.
Davanti
agli scontri ricorrenti di carattere economico-culturale che
caratterizzano gli Stati Uniti non meno che l’Europa è interessante
notare come per anni la sociologia si sia seriosamente impegnata nel
cercar di stabilire se fosse meglio il sistema “assimilazionista”
francese o il sistema “comunitarista” britannico.
Anche qui la categorizzazione serve non a capire, ma a coprire.
Infatti
nel momento in cui si imposta un problema su questa base oppositiva
sembra che tutta la questione stia nel capire quale delle due soluzioni
sia la soluzione. In questi casi tra gli intellettuali si formano
serissime fazioni impegnate a supportare l’uno o l’altro corno di questi
dilemmi premasticati, il che consente di sbarcare il lunario in
allegria. Una volta impegnate le migliori risorse intellettuali in
questo torello, la realtà può continuare a dispiegare le proprie
logiche, intoccata.
In verità la differenza tra il sistema
“assimilazionista” francese e quello “comunitarista” (o “pluralista”)
britannico è una mera differenza di retorica ad uso pubblico.
In entrambi i casi la dinamica sociale è esattamente la stessa:
1)
L’immigrazione ha una funzione economica nel breve periodo in quanto
fornisce al sistema produttivo manodopera adulta a basso costo; per
questo motivo essa è sostenuta con argomenti fioriti, proclami di
multiculturalismo, glorificazioni del melting pot e altre innumerevoli
buaggini da rotocalco.
2) Idealmente questa funzione economica dello
“sradicato” la si vorrebbe dosata sulla base dei bisogni economici
minuto per minuto, come nei grafici della domanda e dell’offerta: quando
servono dovrebbero esserci, quando non servono dovrebbero magicamente
sparire; purtroppo questi soggetti, oltre ad essere utili lavoranti a
buon prezzo sono anche ingombranti esseri umani, e qui iniziano i
problemi.
3) Tutte le chiacchiere sull’integrazione di cui si riempie
la bocca l’intellighentsia occidentale sono pura fuffa benpensante, ad
uso della plebe: in verità le società di impianto capitalista sono
società che generano per essenza e continuamente la dis-integrazione: la
divisione, l’esclusione, la compartimentazione competitiva. Beninteso,
lo fanno verso chiunque, nel proverbiale spirito liberale
dell’eguaglianza etnica e culturale, dove l’unica differenza che davvero
rileva è quella sull’estratto conto. Ma naturalmente i nuovi arrivati
alla ricerca di un impiego purchessia tendono a concentrarsi sui gradini
più bassi, e il meccanismo ordinario del sistema è: i soldi producono
soldi, la miseria altra miseria. Dunque l’esclusione sociale tende a
permanere e consolidarsi intergenerazionalmente.
4) Ed è qui che la
cultura ritorna in gioco. La cultura non cavalca su alati destrieri al
di sopra della società e dell’economia, ma vi si intreccia sempre e
necessariamente. Nel modello occidentale odierno la cultura è ancella
della società che a sua volta è ancella dell’economia. Per quanto si
catechizzino gli insegnanti affinché a loro volta catechizzino il
sottoproletariato urbano perché “si senta integrato”, in verità
l’identità culturale dei quartieri popolari si autonomizza su linee di
appartenenza di ceto, che niente hanno a che fare con la “cultura
ufficiale”.
5) L’identità culturale è essenziale quando la tua vita
dipende dalla possibilità di fidarti di altri (altri che non puoi
pagare). Perciò nelle periferie degradate dei grandi centri urbani si
costituiscono subculture identitarie ben più solide di quanto si possa
trovare nei quartieri bene. Queste subculture identitarie hanno poco a
che fare con le eventuali autentiche origini etniche o religiose, ma
risultano comunque distintive. Gli afroamericani hanno creato la loro
identità subculturale negli USA così come i maghrebini lo hanno fatto in
Francia: non come effettiva eredità di una cultura diversa, ma come
creazione funzionale a sopravvivere nella nazione in cui risiedevano
senza appartenervi. Se si guarda alla biografia degli attentatori
islamisti in Francia e Inghilterra di qualche anno fa, si nota come
fossero “islamici di ritorno”, nati in Francia, apparentemente
“integrati” come laici, salvo scoprire, come seconda generazione, che
non esiste in Francia (come ovunque in occidente) alcuna integrazione
che crei appartenenza. In occidente neppure i ceti apicali, che pure
sarebbero nelle condizioni di sottrarsi in buona parte al gioco della
dis-integrazione competitiva, possiedono più alcuna appartenenza.
Tirando
le fila di questo quadro, vediamo come il vicolo cieco strutturale in
cui si sono infilate le società occidentali non è risolvibile né
guardando unilateralmente alla “cultura” né guardando unilateralmente al
“reddito”.
Da un lato i meccanismi economici di efficientamento
della redditività a breve termine spingono alla liquefazione di ogni
cultura e di ogni appartenenza: al netto delle chiacchiere sul
multiculturalismo, si lavora per un sistema in cui hanno legittimo posto
solo individui autoreferenziali, intercambiabili, senza cultura, senza
appartenenze. Per questo la “mobilità”, interna o internazionale, è
santificata.
Dall’altro lato i “perdenti” del sistema hanno un
bisogno vitale di crearsi una qualche identità culturale che definisca
un’appartenenza del gruppo su cui poter contare nelle difficoltà. E
questo avviene attraverso la creazione di subculture difensive altamente
problematiche, subculture in conflitto con le pretese di legalità,
ostili alla cultura ufficiale del paese in cui vivono (cultura peraltro
spesso in stato di abbandono presso gli stessi autoctoni).
In questo quadro non ci sono eroi, ma solo diverse forme di degrado.
Le
“élite” nazionali hanno tradito tutto ciò che potevano tradire,
diventando una patetica melassa cosmopolita senza appartenenze, senza
lealtà, senza una cultura propria, pronta a lasciare qualsiasi barca su
cui stiano navigando se dovesse dare segni di instabilità.
Il popolo
dei lavoratori autoctoni è stato sedotto con le perline del mercato, o
ricattato quando non si riusciva a sedurlo: l’esito comunque è stato la
disintegrazione, da cui cercano di difendersi aggrappandosi alle
rimanenze di tradizioni, credenze, costumi sempre più effimeri.
I
più giovani o i più sprovveduti trangugiano le pillole ideologiche degli
influencer a libro paga delle élite, aderendo alle campagne
emancipatorie del giorno.
Quelli con una memoria un po’ più lunga si
arroccano e finiscono per identificare nei disperati non autoctoni gli
“invasori culturali” che hanno fatto a pezzi il senso del mondo che fu.
Il
sottoproletariato non autoctono, che anche se con cittadinanza
nazionale, non sente alcuna appartenenza, si costruisce fortificazioni
di fortuna nei propri quartieri dormitorio, sviluppando subculture
illegali o parassitarie, usando reminiscenze di culture e tradizioni
come mattoni funzionali alla propria sopravvivenza.
Tre disfunzionalità di cui ci accorgiamo solo quando prendono fuoco i cassonetti.
***
Cinque
giorni fa lo scarmigliato ribelle Prigozhin, novello Spartaco alla
testa dei suoi rivoluzionari di professione ha tentato di ridonare la
libertà al popolo russo, devastato dalle privazioni e ribollente di
rabbia verso il dittatore Putin.
Curiosamente il popolo russo è stato
a guardare, non è stata proclamata la legge marziale (nonostante la
Russia sia in guerra) e dopo 24 ore Prigozhin era in esilio in
Bielorussia.
Due giorni fa cogliendo al volo un disgraziato incidente
in cui ha perso la vita un ragazzo di origini maghrebine il florido e
appagato popolo francese, democraticamente rappresentato da un liberale
illuminato come Macron, ha iniziato a mettere a ferro e fuoco Nanterre,
Lione, Marsiglia, Lille, Rennes, Nantes, Strasburgo, Saint-Etienne, e da
ieri ci sono saccheggi in centri commerciali al centro di Parigi.
Ora, per piacere, giornali italiani, spiegateci che:
1) Le proteste in Francia sono organizzate dalla Wagner su mandato di Putin.
2) E' tempo di una rivoluzione colorata in ̷F̷r̷a̷n̷c̷i̷a̷ Russia per aiutare il legittimo scontento del popolo.
3) Il problema è che in Francia c'è troppa democrazia, i poliziotti non ci vanno giù abbastanza duro, sono tutti viziati.
4)
Tutto il mondo guarda all'occidente con ammirazione per l'armonia
serena e feconda delle nostre società, e vorrebbero essere come noi - se
non fosse per l'intervento malvagio di improvvidi autocrati.
5)
Perché stupirsi. Si sa che il popolo russo è fatto di sognatori
rassegnati con una propensione all'etilismo, mentre i francesi c'hanno
la rivoluzione nel sangue.
Poi, si certo, ovviamente popoli, società
e culture non esistono, siamo tutti intercambiabili in un grande
villaggio globale e le migrazioni sono una botta di salute.
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