La mondializzazione della guerra
di Enrico Tomaselli - 09/04/2024
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Fonte: Giubbe rosse
Nella loro fase espansiva, quando si apprestavano a
scalzare l'impero britannico dal ruolo di egemone globale
talassocratico, gli Stati Uniti hanno largamente fatto ricorso alla
guerra; in particolare, dopo la guerra con la Spagna (che portò alla
conquista delle Filippine), attraverso l'intervento nella prima e poi
nella seconda guerra mondiale. Caratteristica comune di queste guerre è
stata la partecipazione diretta e massiccia - in termini di uomini e
mezzi - ai conflitti. In particolare le due guerre mondiali, che si
svolsero in Europa, in Africa, e nell'estremo oriente asiatico - oltre
che nell'intera area dell'oceano Pacifico. Consolidato il proprio
dominio egemonico con la vittoria sulla Germania, il Giappone e
l'Italia, nei decenni successivi gli USA hanno continuato ad utilizzare
largamente la guerra come strumento di dominio. Caratteristica
essenziale di questa fase è stata prevalentemente la funzione di
'contenimento' del nemico URSS (finché è esistita) e di 'mantenimento
dell'ordine' imperiale, ma con una progressiva diminuzione quantitativa
dell'impegno. La guerra di Corea fu quasi un'estensione della seconda
guerra mondiale, il Vietnam l'ultima guerra combattuta impegnando
massicciamente le proprie forze armate.
A partire dalla caduta
dell'Unione Sovietica, e la conseguente illusione di un dominio
unipolare, gli Stati Uniti hanno fatto un uso sempre meno massiccio del
proprio esercito, preferendovi la creazione di grandi coalizioni, e
soprattutto adottando un approccio che sfruttasse al massimo
l'asimmetria, schiacciando il nemico di turno in modo rapido e
definitivo (Iraq, Libia). Le guerre in cui non è stato possibile
applicare questo approccio (quelle di 'contenimento' - Afghanistan, o
quelle di 'destabilizzazione' - Siria) si sono rivelate un completo
fallimento, servite al più ad alimentare l'industria bellica nazionale.
Quella
in cui siamo adesso è una fase successiva, caratterizzata dal declino
dell'impero americano, prima ancora che dall'emergere di nuovi
'competitors'; basti osservare il degrado sociale e strutturale che
caratterizza sempre più gli stati dell'Unione.
Caratteristica
essenziale di questa nuova fase è anche il diverso approccio bellico
statunitense. Quello che possiamo definire come 'mondializzazione della
guerra', e che consiste essenzialmente non solo nella moltiplicazione
dei focolai di scontro, quanto soprattutto nell'arruolamento (più o meno
'forzoso') di una quantità di proxy, destinati a sopportare non solo il
peso economico delle guerre imperiali, ma di fornire le truppe per
questa 'guerra mondiale a pezzi'.
Dal Giappone all'Australia,
dall'intera fascia dei paesi europei ai prossimi proxy caucasici e
asiatici (Armenia, Kazakhistan, Taiwan...), la nuova strategia globale
dell'egemone è essenzialmente quella di accendere continuamente punti di
conflitto, la cui gestione sul campo sarà prevalentemente - se non
esclusivamente - affidata ai proxy locali, con l'obiettivo di
logorare-contenere lo sviluppo (economico, militare, e quindi in ultima
analisi politico) di Russia e Cina - ma in prospettiva anche Iran, ormai
ritenuto prossimo a diventare una minaccia di livello superiore.
Il
disegno strategico - ammesso che si possa usare questo termine -
consiste quindi nel moltiplicare e delegare al massimo la guerra
guerreggiata, nel dividerne gli oneri economici con i delegati, e nel
massimizzare i vantaggi per il proprio complesso militare-industriale.
Come,
quanto - e fino a quando - riusciranno a coinvolgere popoli e nazioni
in questa guerra a difesa degli interessi dello 0,1% dell'umanità, è la
scommessa del terzo millennio.
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