Nessuna risposta all’attacco di Damasco, in cambio del cessate il fuoco a Gaza. Stando a quanto riportato dal Jerusalem Post, sarebbero queste le condizioni dettate da Teheran a seguito del raid d’Israele che ha colpito l’ambasciata iraniana, causando quindici morti, tra cui un generale iraniano e alcuni pasdaran.
Gli Stati Uniti avrebbero un ruolo cruciale in questo, poiché la fonte araba anonima che si è interfacciata con il quotidiano ha aggiunto che “Se l’America riuscirà a contenere la situazione, sarà un grande successo per l’amministrazione Biden e su questo potremo costruire”.
Iran: le minacce di una dura risposta
Un barlume di speranza che arriva a seguito delle ripetute minacce da parte dell’Iran, il quale ha più volte sostenuto di voler rispondere duramente a quanto accaduto a Damasco, lo scorso primo aprile. “Nessun atto resterà impunito, i nostri coraggiosi uomini puniranno il regime sionista”, con queste parole Hossein Salami, capo della Guardia Rivoluzionaria Iraniana, aveva minacciato Israele, alimentando sempre di più la tensione che, oramai da mesi, e ai massimi livelli, attanaglia il Medio Oriente.
I media americani hanno riferito quanto previsto dall’intelligence di Washington e Tel Aviv: per la CIA e il Mossad, l’Iran potrebbe colpire direttamente Israele con missili cruise e droni kamikaze. Una sciagurata ipotesi che, per i servizi segreti sopracitati, potrebbe concretizzarsi anche entro la fine imminente del Ramadan.
Detto questo, la possibilità di un attacco diretto resta remota. Teheran non vuole una guerra di grande scala, come dimostra anche il segnale inviato agli Stati Uniti.
Gaza: l’ipotesi di un accordo
L’offerta di una non risposta iraniana a quanto avvenuto a Damasco, arriva in concomitanza della ripresa dei negoziati tra Israele e Hamas al Cairo. Da una parte c’è la richiesta di un cessate il fuoco prolungato, mentre Tel Aviv chiede un accordo sul rilascio di 40 ostaggi. Si tratterebbe di una tregua di sei settimane – ha dichiarato John Kirby, il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale americana – e anche le fonti egiziane hanno parlato di “grandi progressi delle trattative”. Tuttavia, al momento, sia Israele che Hamas hanno minimizzato quanto riportato dal Cairo.
Sostanzialmente, rispetto ai mesi passati, ad oggi la politica di Israele nei confronti degli ostaggi sta ricevendo nuove e più forti pressioni. I mediatori non sono più il Qatar e l’Egitto, per ragioni differenti. In primo luogo Doha, come riporta il giornalista Zvi Bar’el su Haaretz, avrebbe esaurito le capacità di fare pressioni politiche e finanziarie su Hamas, mentre il Cairo, al contrario di quanto avveniva prima della guerra, ha subordinato le sue posizioni sul valico di Rafah – unica via di fuga dalla Striscia di Gaza gestita dagli egiziani – alle decisioni di Israele e USA.
La conseguenza è che ora la politica di Israele nei confronti degli ostaggi è sotto una nuova duplice pressione: quella pubblica interna, sempre più incalzante, e quella derivante dall’amministrazione americana. Biden, infatti, tra le priorità della gestione della guerra, oltre a tentare di salvare la reputazione israeliana internazionale, praticamente distrutta, ha messo anche la liberazione delle persone ancora in vita portate all’interno della Striscia lo scorso 7 ottobre.
Di ieri le dichiarazioni particolarmente significative del ministro della Difesa Yoav Gallant riportate dal Timesofisrael: è il “momento opportuno” per ottenere il rilascio degli ostaggi, ma che la mossa richiederà “decisioni difficili”.
La questione di Rafah
Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, oltre alle pressioni americane e alle proteste interne, sta ricevendo continui moniti anche da Ben-Gvir, il ministro estremista, leader del partito Otzma Yehudit (Forza Ebraica). La querelle riguarda un possibile blitz a Rafah, la città della Striscia al confine con l’Egitto, che si tradurrebbe in un ulteriore massacro data l’alta densità di popolazione attuale. Il ministro della Sicurezza nazionale ha minacciato Tel Aviv: “Senza un’operazione a Rafah faremo cadere il governo”. E se è vero che l’esercito israeliano ha ritirato le sue truppe di terra dal Sud di Gaza, è altrettanto vero che Rafah resta nel mirino dell’IDF.
Israele: “Siamo pronti a qualsiasi scenario”
A
seguito dell’attacco nella capitale siriana, Israele, per paura di una
rappresaglia, ha deciso di chiudere le sue sedi diplomatiche in tutto il
mondo. Intanto, il ministro della Difesa, Yoav Gallant, ha dichiarato
che il Paese “ha completato i preparativi per una risposta contro
qualsiasi scenario che si potrebbe sviluppare contro l’Iran”. E,
infatti, già da giovedì scorso, che l’IDF ha annullato tutti i congedi
per i soldati operativi, sebbene non siano state rese pubbliche
istruzioni speciali a tal riguardo. Anche il Capo di stato maggiore
dell’IDF, Herzi Halevi, è intervenuto in risposta ai moniti di Raisi e
Khamenei – rispettivamente il Capo di Stato e la Guida suprema dell’Iran
– ribadendo che Israele è in grado di far fronte a Teheran, aggiungendo
che sul punto può avvalersi della cooperazione degli Usa e altri
alleati.
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