La crisi dell'Occidente e la battaglia per le anime europee
di Andrea Zhok - 15/10/2023
https://www.ariannaeditrice.it/articoli/la-crisi-dell-occidente-e-la-battaglia-per-le-anime-europee
Fonte: Andrea Zhok
La fase storica che stiamo vivendo è contrassegnata da una
profonda crisi, forse terminale, dell’impero americano. Con il riflusso
della globalizzazione economica e il decrescere della presa USA sul
mondo i processi di controllo, ricatto e destabilizzazione strategica
promossi dai centri di potere americani hanno subito un’accelerazione.
Essendo
i paesi del blocco di alleanze americano tutte liberaldemocrazie, il
problema del controllo dell’opinione pubblica è centrale. Si è avviata
così una fondamentale battaglia per le anime delle popolazioni
occidentali, e questa battaglia ha il suo epicentro non in America, ma
in Europa, dove la tradizione di una cultura critica e plurale era assai
più vigorosa che negli USA.
Il primo passo in questa direzione è
stato l’assoggettamento dell’Unione Europea alla catena di comando
americana, assoggettamento testato dalla vicenda pandemica, ed oramai
conclamato. Pochi ricordano che il progetto europeo era nato sotto gli
auspici di rappresentare un contraltare alla potenza americana, un terzo
polo organizzato che rifuggisse non solo il modello sovietico, ma anche
quello degli alleati americani. Questo ruolo autonomo, ispirato
all’esperienza dei welfare state europei del dopoguerra, è entrato in
crisi con la trasformazione della Comunità Europea in Unione Europea,
con la svolta neoliberale del Trattato di Maastricht, ed è oggi soltanto
un ricordo remoto.
Per comprendere gli estremi della battaglia per
le anime in corso gettiamo uno sguardo, a titolo di campionatura, ad
alcuni fatti recenti, relati al conflitto israelo-palestinese.
In
questi giorni l’UE ha chiesto a META di rimuovere dalle loro piattaforme
tutti i contenuti ritenuti “disinformazione”, pena sanzioni fino al 6%
del fatturato mondiale.
Il commissario europeo Thierry Breton è
intervenuto ufficialmente presso Elon Musk per sollecitare interventi di
controllo e censura sulla “disinformazione” su Twitter in occasione del
conflitto israelo-palestinese.
Il Digital Services Act approvato
dall’Unione Europea nel 2022 è il primo intervento legislativo che
istituzionalizza la censura sulle piattaforme mediatiche europee.
Naturalmente ciò che riceve lo stigma di “disinformazione” e “fake news”
sono sempre soltanto le tesi che turbano la narrativa corrente, e il
controllo sulle agenzie di “fact-checkers indipendenti” garantisce che
vengano alzate continuamente alle autorità le palle giuste da
schiacciare.
Intanto è ripartita la giostra delle modifiche ed
emendazioni delle pagine di Wikipedia con contenuti scomodi, sulla
stessa linea vista per il Covid e per l’Ucraina.
In Italia l’apparato
di manganellatori mediatici a servizio permanente che popolano TV e
giornali si è attivato nelle oramai usuali spedizioni punitive verso i
dissenzienti con un profilo pubblico rilevante. Così Alessandro Orsini
ed Elena Basile sono divenuti l’insistente oggetto di sfottò, agguati
mediatici e fatwe. Il povero Patrick Zaki, da idolo del mainstream, è
caduto istantaneamente in disgrazia giocandosi candidature europee e
benefit vari per aver ingenuamente detto quello che pensava su Israele e
Palestina. Moni Ovadia, per il quale gli squadristi mediatici non
riescono a ricorrere alla solita equazione antisionista = antisemita, è
stato sollecitato a lasciare il posto di direttore del Teatro comunale
di Ferrara.
A livello internazionale, gli eventuali giornalisti che
non si limitassero a ricopiare le veline degli apparati americani
corrono sistematicamente il rischio di prendersi un’accidentale
sventagliata di mitra. Così è successo l’altrieri ai giornalisti della
Reuters e di Al Jazeera, ma l’elenco dei giornalisti uccisi
dall’esercito israeliano in questi anni è lungo.
Grazie al cielo ci
sono giornalisti come i nostri, che se ne stanno nel tinello romano a
roteare bandierine da tifosi ed esercitarsi come ventriloqui dell’amico
americano; altrimenti non si saprebbe dove veicolare prebende e
riconoscimenti.
In questa fase l’interesse americano è tutto rivolto
alla moltiplicazione di focolai di conflitto perché ciò gli permette di
mettere a frutto i suoi due ultimi, residuali, punti di forza: la
perdurante preminenza nell’armamentario convenzionale e la collocazione
geografica isolata, che rende l’America immune dalle conseguenze
immediate dei conflitti che rinfocola. È in quest’ottica che si
comprende quanto rivelato ieri dalla visione di e-mail interne
(Huffington Post), ovvero che il Dipartimento di Stato USA ha
scoraggiato i diplomatici che lavorano alle questioni mediorientali dal
fare dichiarazioni pubbliche che contengano parole come "de-escalation",
"cessate il fuoco", "fine della violenza", "spargimento di sangue",
"ripristino della calma". Gli ordini di scuderia sono di gettare benzina
sul fuoco.
In questo contesto il controllo dei flussi di opinione pubblica è determinante.
Il
metodo – è importante comprenderlo – non è più quello della censura
sistematica che era richiesto dagli autocrati di un secolo fa, ma quello
della manipolazione e censura qualificata.
Si può prendere a questo
proposito l’esempio della “notizia” di quattro giorni fa intorno ai 40
neonati decapitati da Hamas. La notizia è stata diffusa sulla base di un
sentito dire, e il giorno dopo era la notizia di apertura di più o meno
tutte le testate mondiali. Ieri la giornalista della CNN Sarah Snider,
che ha reso inizialmente virale la “notizia” si è scusata perché la
notizia non era poi stata confermata. Sky News ha detto oggi che la
notizia non è stata “ancora” confermata (dopo quattro giorni su cosa si
confida? sugli esperti di effetti speciali?)
Ora, c’è chi dirà
ingenuamente che quest’ammissione della CNN è un segno del fatto che in
occidente esiste la libertà di stampa. Ma naturalmente l’asimmetria tra
una notizia clamorosa sbattuta in prima pagina in tutto il mondo e gli
eventuali dubbi che in seguito filtrano qua e là tra le righe
equivalgono sul piano politico ad aver indirizzato la maggioranza
dell’opinione pubblica in una direzione definita (sdegno emozionale
contro gli assassini), anche se tra qualche mese o anno si dovesse
ammettere serenamente che la notizia era effettivamente destituita di
fondamento.
È quello che potremmo chiamare “metodo Colin Powell”, o metodo “gli indiani buoni sono gli indiani morti”.
Prima
si crea un caso sufficiente a demonizzare una parte e lo si fa con
sufficiente vigore da produrre un’operazione di sterminio.
Dopo di
che, ad operazione conclusa, si ammette cavallerescamente che invero le
cose non stavano proprio così, vantandosi peraltro della propria onestà e
trasparenza.
Prima si agitano fialette di presunte armi chimiche
all’ONU, si spiana uno stato sovrano, donne, bambini, cani e criceti,
poi anni dopo – tra uno scotch e l’altro – si ammette con un sorriso
distratto che vabbè, era un espediente, che vogliamo farci, chi ha avuto
ha avuto ha avuto.
Prima si stermina la popolazione autoctona di
pellerossa, dipingendoli come mostri assetati di sangue bianco, poi
quando oramai sono ridotti ad attrazioni folcloristiche, si dà avvio ad
una cinematografia piena di indiani buoni e coloni coscienziosi.
Nel
mondo contemporaneo non c’è nessun bisogno di tentare l’impresa,
complessa quanto inutile, di bloccare il 100% delle informazioni vere.
Basta manipolare, censurare, filtrare selettivamente per le masse di
pubblico e per il tempo sufficienti a creare un certo danno
irreversibile.
Ma si illuderebbe il cinico che pensasse che oggi
questo gioco distruttivo ha al suo centro soltanto qualche milione di
“pedine palestinesi sacrificabili”. Se la situazione non viene
immediatamente congelata e disinnescata, al centro dell’attuale grande
operazione demolitiva sono e saranno innanzitutto i popoli europei.
È l’Europa che sta già subendo e subirà l’impatto della devastazione dei rapporti verso Est con la guerra in Ucraina.
Ed
è l’Europa che subirà l’impatto di una destabilizzazione duratura nel
medio oriente, dove un conflitto che chiamasse in causa Israele, Siria,
Libano, Iran e magari anche Iraq, Egitto, Giordania, ecc.
rappresenterebbe una bomba sociale ed economica a tempo indeterminato
per l’Europa – per tacere dei rischi di un coinvolgimento bellico
diretto.
E curiosamente l’unico minimo comune denominatore di questi
conflitti sta nel ruolo degli USA, che sono anche la forza che ne trae i
maggiori vantaggi e quella che ha la maggiore capacità di influsso sui
media internazionali.
Ma va da sé che chi unisce i puntini è un complottista.
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