La Russia come "terapia" per l'Occidente?
di Luigi Zoja - 11/09/2023
https://www.ariannaeditrice.it/articoli/la-russia-come-terapia-per-l-occidente
Fonte: Sinistra in rete
Fra i meriti di un autore totale come Octavio Paz sta
l’aver chiamato l’antropologia “…il rimorso dell’Occidente” (1). Con
questo punto di vista, un’immensa corrente di studi assume un senso che
va molto al di là della sua importanza specialistica. L’antropologia non
è solo lo studio dei pochi popoli premoderni sopravvissuti: è il grumo
di malinconia che tormenta segretamente il mondo euro-americano –
divenuto con la globalizzazione modello universale – per aver eliminato
le qualità umane non rivolte all’efficienza.
Utilizzo questo esempio
per suggerire che forse la Russia ricorre nei discorsi dell’Occidente
non solo perché si presenta oggi come suo rivale, ma anche perché
rappresenta molto di quello che la nostra modernità ha perduto. E di cui
quindi prova nostalgia.
I rapporti dell’Occidente con la Russia
Perché
parliamo spesso della Russia? Nella post-modernità si discute
soprattutto di economia. Come antagonista dell’Occidente in questo
campo, la Federazione Russa è quasi un moscerino: il suo prodotto
nazionale è inferiore del 20% a quello dell’Italia (2), pur avendo una
popolazione più che doppia e un territorio così esteso da contenere
risorse naturali praticamente infinite. È stata chiamata stazione di
rifornimento con armi nucleari. I suoi missili fanno paura. Non si
giunge a una guerra atomica perché si considera implicito un “equilibrio
del terrore”, simile a quello che, nella Guerra Fredda, evitò un
conflitto armato tra Occidente e Unione Sovietica: era chiamato MAD
(Mutually Assured Destruction, Distruzione Reciproca Assicurata) (3).
Il
riferimento alla Russia, può essere per giunta abbastanza benevolo,
particolarmente in Italia. Anche su questo dobbiamo interrogarci.
Nell’attuale situazione internazionale, stabilire chi è l’aggressore nel
conflitto tra Russia e Ucraina è chiaro come forse non era più stato
dai tempi di Hitler. La relativa benevolenza può quindi essere, più che
un fenomeno attuale, un residuo storico della “eccezione italiana” che
ha attraversato la Guerra Fredda: l’Italia era l’unico paese
dell’Occidente dove l’opposizione fosse dominata da un Partito
Comunista, cosa che rendeva ambigua la sua collocazione internazionale
fra Stati Uniti e Unione Sovietica, e ostacolava una vera alternativa di
governo.
Oggi, però, non solo in Italia, ma anche nella narrativa
tedesca si ritrova spesso un atteggiamento di estrema cautela, che
sfiora l’accondiscendenza, di fronte alle posizioni russe, incluse le
aggressioni a paesi vicini. Nei servizi televisivi – soprattutto quelli
di qualità del Secondo Canale (ZDF) – si tende ad attribuirlo a un
“complesso tedesco” o a un “sentimentalismo tedesco” che impedisce
atteggiamenti troppo ostili verso la Russia. Dobbiamo allora prendere
atto di come, nei due ex-alleati dell’Asse nazifascista, a quasi tre
generazioni di distanza sopravviva un problema di psicologia collettiva:
un “debito” semicosciente, un senso di colpa per l’aggressione
all’Unione Sovietica, evento decisivo della Seconda Guerra Mondiale.
Per gli psicoanalisti questa è una sorpresa relativa, perché richiama due fatti già noti.
Prima
di tutto, si sono evoluti gli studi dei traumi collettivi e del loro
persistere nei tempi lunghi. Oggi sappiamo molto anche sulle loro
conseguenze nella terza generazione dei sopravvissuti alla Shoah
ebraica. Ma negli Stati Uniti, fra i problemi della popolazione
afro-americana, vengono analizzate persino le tracce della schiavitù,
oltre un secolo e mezzo dopo la sua abolizione (4). Queste indagini non
hanno per base solo la psichiatria individuale, ma richiedono un
allargamento di visione che includa l’antropologia, la sociologia, il
concetto junghiano di inconscio collettivo.
In secondo luogo,
identificare delle conseguenze “lunghe” di quello che fu l’attacco
all’Unione Sovietica da parte dell’Asse nazifascista comporta uno
sguardo non solo storico-politico, ma anche psicologico, che l’uomo
ordinario può faticare a condividere. In uno stato di catastrofe come la
guerra, il trauma comune lascia profonde ferite non solo fra gli
aggrediti, ma anche fra gli aggressori, come oggi percepiamo persino
nelle poche indagini sul conflitto tra Ucraina e Russia che ci giungono
da quest’ultima.
Le parole di Svetlana Aleksievic
Le domande
che stiamo ponendo possono riassumere un argomento centrale nel discorso
di accettazione del Premio Nobel tenuto da Svetlana Aleksievic.
L’Unione Sovietica è scomparsa quasi di colpo, ma ciò non significa che,
improvvisamente, nel mondo non ci sia più l’“uomo rosso”, soprattutto
fra i meno giovani. Uno stato, per quanto grande, può sparire più o meno
rapidamente. Però questo non corrisponde affatto alla scomparsa del
bisogno di utopia che, nel caso di quello sovietico, aveva presieduto
alla sua nascita (5).
A sua volta, lo spazio culturale su cui
quell’esperimento era stato edificato richiama qualcosa di ben più vasto
e complesso della semplice nostalgia di chi si sentiva marxista (6). Si
tratta di una dimensione temporale, spaziale, psicologica, originaria
per la persona umana, ma sempre più repressa, cancellata, sottovalutata
nella quotidianità dell’Occidente.
Torniamo dunque a Svetlana Aleksievic, che in quel discorso ha detto: “Tutti noi viviamo molto più in fretta di prima”. (7)
Cominciamo
a intuire che quanto ci trasmette la scrittrice bielorussa non riguarda
solo i cittadini della ex Unione Sovietica. La persona colta
dell’Occidente, sfinita dal consumismo e dall’effimero, può credere di
provare una “nostalgia di Russia” quando rimpiange i tempi degli
intellettuali impegnati, che guardavano sempre quel paese con curiosità,
spesso con indulgenza o simpatia. Per parte sua, il nuovo populista del
XXI secolo pensa invece di ritrovarvi il fascino di autorità
indiscutibili come lo Zar, Stalin o Putin. Certe attrazioni forti – che
non riusciamo a definire ma di cui percepiamo l’influenza – hanno radici
più complicate e antiche dello stesso lacerante Novecento che ci
precede.
La premodernità e la mancanza di limite
La
malinconia e lo smagamento nell’immensità, tipiche di chi oggi è
affascinato dalla Russia in sé, hanno infatti abitato il Medio Evo, il
Seicento, l’Ottocento romantico. Sono esistite secoli prima di Marx.
Durante le ultime generazioni, sono state espulse dal vissuto degli
europei a causa della fretta, dell’attesa di risultati concreti,
inevitabili conseguenze della globalizzazione, e dell’americanizzazione
che essa comporta. Ma proprio il “passo lento” e il disinteresse per
l’accelerazione hanno differenziato, e differenziano pure oggi, la
cultura russa tradizionale dall’Occidente.
È significativo che
questo si applichi anche all’arte che consideriamo più essenzialmente
moderna, il cinema. Spiegando come arrivò a L’infanzia di Ivan (1962),
suo primo, folgorante successo, Andrej Tarkovskij chiarisce i rapporti
col libro ispiratore, Ivan di Vladimir Bogomolov. Non voleva solo
riprodurre il racconto, ma anche il ritmo. Il bambino è travolto dalla
guerra: il suo carattere e i suoi sentimenti, però, non sono descritti
dall’azione bellica, ma dal contrario, le pause fra le azioni. (8)
Si
può riprendere questa differenza fra culture da una prospettiva
generale. Il passaggio alla modernità dell’Occidente ha evidenziato una
divaricazione spazio-temporale con la Russia nelle principali attività
creative: cinema, teatro, arti figurative
Contrapponiamo l’animo
russo (9) al mondo più specificamente europeo, usando il concetto con
cui Max Weber distinse la mente tradizionale da quella moderna.
Quest’ultima comporta la Entzauberung der Welt: il disincanto o
smagamento del mondo, che lo riduce a un contenitore dove gli agenti
sono chiari, identificabili e laici: quasi scientifici anche quando si
tratta di qualità morali. (10)
Tale logica moderna manca nei testi di
Dostoevskij, fra quelli che più associamo al “genio russo”. Il male è
sempre presente, ma non è mai identificabile con le categorie nette di
un Decalogo. Il male è un potenziale dell’uomo preesistente alle norme,
Dostoevskij è la psicologia prima della psicanalisi. La non
contenibilità morale di Raskol’nikov e di Stavrogin sono per più di un
aspetto parenti della mancanza di limiti della steppa o della mai
completa capacità russa di trasformare un passato millenario in un
presente dotato di coerenti strutture moderne.
Noi occidentali
dobbiamo fare attenzione a non usare criteri riduttivi post-weberiani.
Commettiamo questo errore persino nei più banali luoghi comuni. Non ha
senso dire “I russi sono malinconici, quindi bevono troppa vodka” e,
circolarmente, “I russi bevono troppa vodka, quindi diventano
malinconici”. Anche molti italiani esagerano nel bere: a volte diventano
tristi, a volte esuberanti. L’alcol determina una alterazione delle
emozioni: non il contenuto di queste. Non è mai estraneo ai precedenti
vissuti dal soggetto e ai condizionamenti dalla sua cultura.
È
naturale che in Occidente si legga Dostoevskij perché è uno
straordinario narratore. Ma, semicoscientemente, lo leggiamo anche
perché il male che lo attraversa non ha percorso l’illuminismo: malgrado
la filosofia illuminista fosse ben conosciuta dai russi colti, che
spesso parlavano correntemente il francese. Quel male, dunque, è
qualcosa di esterno a noi occidentali, ha qualcosa della magia weberiana
di cui tutti siamo orfani, ci angoscia e affascina insieme. (11)
Il
costituirsi in unità definibili è estraneo all’animo russo non perché
esso sia incapace di combinarsi con la filosofia e la scienza
occidentali: al contrario, il maggiore esperimento non solo della
Russia, ma della storia umana di trasformarsi in società equa e
“moderna” è appunto l’applicazione delle teorie di un ebreo tedesco,
Karl Marx. Tuttavia ben più antichi e decisivi di quelli dello Stato
bolscevico, o addirittura zarista, sono i vissuti che, nella narrativa
ma già nella cultura orale, fondono il dilatarsi illimitato del tempo
con la mancanza di limiti dello spazio, percepibile nella geografia: “La
terra russa è stata suolo prima di essere nazione”. (12)
È nota
anche al non specialista una delle più concrete differenze tra Lager
nazisti e Gulag staliniani: questi ultimi, situati a immense distanze
dall’Europa o dalle coste – eccettuate quelle gelate dell’Artico – non
avevano quasi bisogno di recinzioni. A differenza di una barriera,
l’infinità dello spazio non si può scavalcare con espedienti.
L’unità infinita di spazio e tempo
L’occidentale
ha il fiato corto, soffoca nei limiti di luogo e di tempo fra loro
vincolati. Il borghese europeo che assiste per la centesima volta al
Giardino dei ciliegi di Cechov non lo fa “malgrado” sappia che per tutta
la rappresentazione non vedrà accadere niente, ma “proprio perché” –
semiconsciamente – ha bisogno di partecipare a un flusso temporale in
cui non accade nulla: una condizione originaria, ordinaria, fisiologica
per millenni, per l’essere umano normale, o quanto meno naturale.
All’uomo che vive nella realtà del presente, tanto russo quanto
occidentale, l’industrializzazione e la modernizzazione hanno strappato
via questo contenitore rassicurante quasi sotto agli occhi, senza che se
ne accorgesse.
I classici russi non parlano solo della immensità:
tentando di contenerla, strabordano di pagine. Difficilmente diciamo “In
questa vacanza leggerò Guerra e pace o I fratelli Karamazov”, Ma
“Quest’anno…” o: “Gli anni prossimi leggerò…”
Quando noi occidentali
decidiamo di assistere a una proiezione cinematografica di Tarkovskij o
di Sokurov sappiamo benissimo che non vi troveremo l’infinitesima
frazione del dinamismo, dell’azione, per non parlare delle uccisioni che
ci attendono in una pellicola di Hollywood. Forse abbiamo sentito
lodare i due registi e intuiamo che le loro creazioni sono guidate da
criteri non commerciali. Quello che non sappiamo è che facciamo questa
scelta anche perché, sotto alla nostra cultura e alle nostre convinzioni
coscienti – anzi, indipendentemente da esse – la nostra natura, il
nostro inconscio, intossicati dall’“obbligo alla produttività”, cercano
un po’ di riposo in uno spazio anti-isterico e anti-maniacale.
Come
abbiamo suggerito dall’inizio, non solo il singolo, ma tutta la cultura
dell’Occidente (e sicuramente oggi gli strati più modernizzati della
società russa) sono alla ricerca di una correzione per la unilateralità
di questo affanno.
Naturalmente, anche nella immensità gemella di
spazio e tempo la Russia concreta ha dei limiti. Ma, più che in altri
luoghi al mondo, la narrazione offusca e dissolve i suoi bordi reali
rendendoli slabbrati, indefinibili. Racconti e canti tradizionali hanno
sempre pullulato di personaggi che vogliono sottrarsi alla morsa della
immensità spaziale, ma dopo una vita di vagabondaggi si trovano sempre
in Russia. (13)
E il tempo? Sotto lo Zar e il regime sovietico, al
cittadino non era permesso aver vere opinioni sul futuro: esso
apparteneva al potere politico. Ciononostante, poteva divenire
imprevisto per lo Stato stesso.
L’imprevedibile
Grossman ne ha dato una descrizione ineguagliabile.
“E
improvvisamente, il cinque marzo, Stalin morì. Quella morte venne a
intrufolarsi nel gigantesco sistema di entusiasmo meccanizzato, d’ira e
d’amore popolare, stabiliti su ordine del comitato di rione.
Stalin
morì senza che ciò fosse pianificato, senza istruzione degli organi
direttivi. Morì senza l’ordine personale dello stesso compagno Stalin.
Quella libertà, quella autonomia della morte conteneva qualcosa di
esplosivo, che contraddiceva la più recondita essenza dello Stato. Lo
sconcerto invase le menti e i cuori”. (14)
Se il futuro non può
essere previsto, il passato è esistito e non dovrebbe esser
modificabile. Ma lo specialista di storia russa Steven Kotkin ne dubita
(15). In Russia, sotto i vari regimi il futuro si presenta
convenzionalmente radioso. Imprevedibile è sempre il passato.
Infinità e attualità
Dopo
queste considerazioni su ciò che oltrepassa i bordi, guardiamo a una
dinamica secolare, quindi a un processo in teoria storicamente
definibile. Osserviamo con i dati di oggi le maggiori tappe del lungo
processo di unione e contrapposizione tra Russia e Ucraina.
Nel 1868
un decreto zarista aveva affermato, stabilendo un interessante caso di
legislazione preventiva, che la lingua ucraina non era mai esistita, non
esiste e non esisterà mai (16). Lungo la storia, i regimi di estrema
destra nazionalista hanno costruito legami mitici col passato per
giustificare la loro aggressività presente. Per restare ai paesi
dell’Asse, il fascismo ha inventato una continuità con l’Impero Romano e
il nazismo con i germani di Arminio, che lo aveva sconfitto. Queste
operazioni apparentemente psicologiche non hanno risparmiato loro il
discredito e la disfatta finale.
Nel 1931-32, Stalin aveva indebolito
l’Ucraina con totalizzanti requisizioni di raccolti, che avevano
causato l’Holodomor, considerato oggi dagli ucraini e da altri un
intenzionale genocidio per fame.
Secondo la successiva
mitologizzazione di Nikita Krusciov, l’Ucraina aveva in passato deciso
di fondersi con la Russia. Per celebrare i 300 anni del mito, l’allora
capo dell’Unione Sovietica trasferì la sovranità della Crimea dalla
Russia all’Ucraina, che ne è una continuazione territoriale, quindi
economica. La continuità demografica risultava già assicurata dal fatto
che gli abitanti secolari, i tartari di Crimea, dopo la Seconda Guerra
Mondiale erano stati deportati in Siberia con l’accusa di aver
simpatizzato per i tedeschi.
Maschi e femmine oggi
Restando ai
processi storici misurabili anche in cifre, nella Russia non
immaginaria la “produzione di nuova vita” che le nazioni portano avanti
naturalmente, mettendo al mondo dei figli, è giunta a un estremo
negativo: non solo si guardano con diffidenza fra loro le ex-etnie
sovietiche, ma la frattura che separa uomini e donne è fra le più
profonde del mondo (17). I femminicidi toccano un livello infinitamente
maggiore di quelli dell’Europa Occidentale: 4 donne uccise ogni 100.000.
Per restare fra i paesi latini, tradizionalmente maschilisti, questo
tasso è superato solo nell’America Latina dove spesso la criminalità è
fuori controllo: Colombia 4,2, Brasile 4,3. L’Italia è a 0,4, la Spagna a
0,5. (18)
Il tasso di divorzi e di aborti è fra i maggiori del
mondo. Nel XXI secolo, dato lo stile di vita relativamente rischioso dei
maschi, il loro elevato consumo di alcol e altre sostanze, la Russia
registra anche una delle maggiori differenze tra l’aspettativa di vita
degli uomini e quella delle donne: fra i 12 e i 14 anni. (19)
Il
risultato di tutto questo è una percentuale molto alta di bambini che
crescono senza padre: con la sola madre o spesso con la nonna, data la
frequente vicinanza fra le generazioni sia abitativa, sia di età. La
proverbiale babuska, eroina anti-hollywoodiana di Alexandra, uno dei
capolavori cinematografici di Sokurov. Come nell’Ivan di Tarkowski,
anche qui mancano spari e sangue, tutto consiste nell’attesa. Se lo
definiamo film di guerra russo, l’accento deve cadere sul “russo”, non
su “film di guerra” come penseremmo in Europa o in America.
Dagli
importanti studi che hanno accompagnato nei secoli lo sviluppo della
società americana (basterà ricordare Margaret Mead e Daniel Patrick
Moynihan) sappiamo che nelle diverse società (o nelle diverse etnie che
compongono una macrosocietà come quella americana) lo sviluppo economico
e culturale dei vari gruppi è direttamente proporzionale alla presenza
di padri. In cima alla gerarchia USA stanno asiatici ed ebrei, dove più
raramente manca. Al livello più basso, gli afro-americani, dove è
assente dai tempi della schiavitù. Usando questa notissima analogia
(20), senza sbagliare troppo si potrebbe riassumere la mancata
modernizzazione della Russia dicendo che è abitata dagli afro-americani
d’Europa.
I bisogni inconsci della cultura e le nostalgie occidentali
In
definitiva, il fascino complesso che esercita su di noi quello che
percepiamo come russo non può essere ricondotto solo a elementi
oggettivi ed estetici. Certo, Dostoevskij e Tolstoj in letteratura,
Tarkovskij e Sokurov nel cinema sono vette assolute. Ma la venerazione
con cui li sommergiamo ci dice molto anche sullo squilibrio psicologico
dell’Occidente. Cosa si attiva nel nostro inconscio quando guardiamo
alla Russia da una inevitabile distanza?
Secondo Jung:
“Quanto
maggiore è l’unilateralità dell’atteggiamento cosciente, tanto più i
contenuti provenienti dall’inconscio si oppongono ad essa, così che si
può parlare di un vero contrasto fra coscienza e inconscio. In questo
caso la compensazione si presenta sotto forma di funzione contrastante.”
(21)
Di conseguenza:
“La compensazione inconscia di uno stato
nevrotico della coscienza contiene tutti gli elementi capaci di
correggere efficacemente e fruttuosamente l’unilateralità della
coscienza [corsivo LZ]” (22)
La psicoanalisi nacque già al passaggio
dal XIX secolo al XX, quando Freud notò che l’eccessiva repressione
della sessualità nelle donne “beneducate” le portava alla nevrosi, più
specificamente all’isteria, con cui il loro insieme psicofisico si
ribellava proprio a quella estrema unilateralità. In questa concezione,
medica e freudiana, il problema potrebbe restringersi a una somma di
casi individuali. Oggi ci interessa però sottolineare con Jung come la
unilateralità di tutta la nostra cultura occidentale può spingerla verso
preferenze che rischiano di sottovalutare come “soltanto” estetico,
letterario, o sentimentale il fascino di culture anti-occidentali o
anti-americane. Questo anelo verso l’immensità russa dice anche quanto
immensa sia la nostra mancanza.
Infatti: “L’inconscio collettivo è
come un sedimento dell’esperienza e insieme, in quanto un apriori
dell’esperienza stessa, un’immagine del mondo, che si è formata nel
corso di eoni. In questa immagine si sono venuti delineando attraverso i
tempi determinati tratti, i cosiddetti archetipi o dominanti.” (23)
Chiediamoci
a questo punto: lo spazio e il tempo che dilagano verso l’infinità sono
archetipi (o dominanti) specifici dell’animo russo o appartengono
all’animo umano in generale?
Da un lato, scorgiamo che l’infinito
esercita attrazione e terrore insieme su ogni essere umano. Proprio per
dominare l’ignoto assoluto, prima o poi ogni cultura immagina un Dio
onnipotente, degli eroi la cui forza è infinita. Questo significa che in
qualche modo vi abitava già, cioè che si tratta di un archetipo
universale? Ma la magia dell’infinito, per cui proviamo uno struggente
rimpianto da quando noi occidentali post-moderni abitiamo un mondo in
cui tutto è misurabile, materializzabile e finito, sembra manifestarsi
soprattutto nel paesaggio russo, nel racconto russo, nella tristezza
irrimediabile che ogni epifania russa deposita negli occhi e nelle
orecchie di noi euroamericani.
Tale magia suona poco credibile se è
espressa nel linguaggio occidentale: noi “disincantati” possiamo essere i
primi a non prestarle fede.
Se invece il dolore viene da quella
alterità misteriosa che abita al di là della steppa, esso ci commuove,
ci convince: come un sogno, come tutto ciò che resta poco definibile
perché giunge più dall’inconscio che da informazioni oggettive e
razionali.
Svetlana Aleksievic sintetizza con parole
poetico-politiche ma amare un simile mistero: “La nostra più grande
risorsa è la sofferenza. Non il petrolio o il gas, proprio la
sofferenza. È l’unica cosa che riusciamo a produrre con continuità.”
(24)
Questa capacità metatragica e metacristiana lascia estasiati:
forse anche ammirati, indipendentemente da ogni sentimento di
condivisione o repulsione che può ispirare il sistema in cui si è
manifestata nelle diverse epoche.
Note
1. Octavio Paz, Tiempo nublado, Seix Barral, Barcelona 1986, I, 1.
2. https://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.MKTP.CD
3.
Ho chiamato questa nuova situazione MAD 2. Cfr. Paranoia. La follia che
fa la storia, seconda edizione, Bollati Boringhieri, Torino 2023,
Prefazione.
4. Si veda per esempio: Èlodie Grossi, New avenues in
epigenetic research about race: Online activism around reparations for
slavery in the United States
Intergenerational transmission of trauma effects: putative role of
epigenetic mechanisms
Rachel Yehuda 1, 2 and Amy Lehrner 1, 2
5. Si veda la parte introduttiva del mio Utopie minimaliste, Seconda edizione, Chiarelettere, Milano 2021.
6.
Mi sembra corretto usare questa espressione, e non “comunista”.
Impiegarle come equivalenti è una deformazione eurocentrica e
modernocentrica. Basate sulla proprietà comune erano anche la società
proposta da Platone, molte di quelle americane precedenti l’arrivo di
Colombo ed altre culture non europee.
7. Svetlana Aleksievic,
Discorso per il conferimento del Premio Nobel (2015) in: Il Male ha
nuovi volti. Cernobil, la Russia, l’Ucraina. Morcelliana, Brescia 2022,
p. 33.
8. Andrej Tarkovskij, Sapetschatljonnoje (1986), tr. tedesca
aggiornata e autorizzata Die versiegelte Zeit, Alexander Verlag, Berlin
2021, p. 27.
9. Per l’uso di animo anziché anima cfr Piretto in:
Intervista di Marco Belpoliti a Gian Piero Piretto, 13 ottobre 2014.
Piretto è uno storico fra i massimi esperti italiani della Russia.
10.
Max Weber, Politik als Beruf – Wissenschaft als Beruf (1919), tr. it.
Il lavoro intellettuale come professione, Mondadori, Milano 1966.
11.
Significativamente, nell’edizione che possiedo il testo Fëodor
Dostoevkij, I demoni, Einaudi, Torino 1993 è pubblicato insieme a un
lungo saggio di uno fra i principali filosofi italiani, Luigi Pareyson:
Il male in Dostoevkij.
12. Piretto, cit., p. 19.
13. Piretto, cit., pp. 19 – 21.
14. Vasilij Grossman, Tutto scorre (1970), Adelphi, Milano 1987, p. 33.
15. video
video
16. Timothy Snyder, lezione 22.
17.
Alexander Etkind, Russia Against Modernity, Polity Press, Cambridge
2023: il cap. 6 passa in rassegna questi dati, provenienti da molte
fonti internazionali..
18. sito
19. Etkind, cit., ibidem.
20.
Si veda anche il mio: Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e
scomparsa del padre (2000), Bollati Boringhieri, Torino 2016, caap. 4.
21. Opere complete di Carl Gustav Jung, Vol. VI, edizione digitale, 2445
22. Ibidem, 2681
23. Ibidem, 2666
24. Aleksievic, cit., p 42.
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