L’Era della Geopolitica
Oggi il termine Geopolitica pare essere ovunque e non è un caso: mai prima d'ora Politica, Geografia, Economia, Cultura e le mille sfaccettature dell'agire umano sono state così collegate tra loro. Ma cos'è veramente la Geopolitica? Una disciplina, una Scienza o una modalità di ragionamento?
Di Fabrizio Bertolami per ComeDonChisciotte.org
Con il termine Geopolitica definiamo una disciplina che è stata originariamente fondata per fornire una conoscenza scientifica, quella geografica, ai decision-maker dei primi anni del ‘900, ma oggi è molto di più. Il Generale Carlo Jean definisce la Geopolitica :
“[…] una forma di ragionamento olistico che mira a individuare i futuri possibili, generati dalle dinamiche delle forze in gioco” (1).
Essa
è quindi una modalità di interpretazione di scenari complessi in cui le
logiche sono interdisciplinari: non solo geografia e politica, ma anche
economia, cultura, potenziale militare e persino il fattore religioso,
concorrono alla creazione e all’interpretazione di un’ottica geopolitca.
Si può ampiamente concordare con Raymond Aron quando afferma che:
“[…] se ci si aspetta, sotto il nome di teoria Geopolitica, l’equivalente di ciò che offre ai costruttori di ponti la conoscenza dei materiali, una cosa del genere non si ha, e non si avrà mai”.
Non
esiste alcuna “Teoria Generale della Geopolitica”. Tra tutte, solamente
le teorie che si fondano su evidenze geografiche possono dirsi, in
linea di massima, generali proprio perché fondate sulla morfologia del
pianeta mentre le altre risentono dello “Zeitgeist” (lo spirito del tempo) e dei limiti imposti dallo sviluppo tecnologico dell’epoca.
Il termine nasce all’inizio del ‘900 e attraversa tutto il secolo: nato
in ambito Positivista, diviene dottrina delle dittature tra gli anni
Venti e Quaranta, per poi cadere in disgrazia e rinascere
progressivamente a metà degli anni ’70.
Nella prima metà del secolo
scorso, le caratteristiche fisiche delle Nazioni, interpretate in
maniera politica, fornivano la base della maggior parte dei ragionamenti
geopolitici. L’economia era limitata da frontiere fisiche (mari,
montagne, deserti e steppe) e dai confini politici tra le Nazioni. Erano
allora anche presenti grandi imperi che creavano spazi economici (oltre
che politici, va da sé) chiusi, con organizzazioni differenziate e
tecnologie esclusive. La guerra era perciò l’unico mezzo per espandere
l’area economico-politica nazionale e solo dopo la fine della Prima
Guerra Mondiale, nasce un abbozzo di Sistema Internazionale di relazioni
codificate, con la Lega delle Nazioni, ad affiancare le relazioni
diplomatiche bilaterali in uso dal XVI Secolo.
Dopo la seconda
Guerra Mondiale la Geopolitica diviene parte delle opposte dottrine
politiche applicate nei due campi avversi, quello sovietico e quello
occidentale; sono i massimi esponenti dei due blocchi ad enunciare, in
maniera più o meno esplicita, la visione geopolitica della Nazione che
rappresentano e sono organi e agenzie dello stato a fornire analisi e
teorie per supportare le affermazioni dei due presidenti.
Si
potrebbe però affermare che le teorie fondate sulle caratteristiche
fisiche dei territori, come quelle che danno maggiore importanza alla
massa terrestre piuttosto che a quella marittima (Tellurocrazie versus Talassocrazie),
siano state esse stesse influenzate dal pensiero e dalle necessità
strategiche del tempo. E’ vero infatti che nell’ultimo secolo l’area
mediorientale, il sudest asiatico e l’area dell’Europa dell’est sono
state al centro delle strategie delle principali potenze e che quelle
aree siano oggi ancora terreno di scontro militare o economico. Se però
nei prossimi anni lo sviluppo tecnologico del mondo si orienterà sempre
più verso l’uso di energie alternative, le aree ricche di idrocarburi
potrebbero forse perdere la loro centralità a scapito di altre aree, e i
presupposti geografici delle teorie geopolitiche che su esse insistono
potrebbero dover essere ridefiniti.
La cornice storica è infatti
fondamentale nell’enunciazione di tutte le teorie geopolitiche. Inoltre
non esistono teorie geopolitiche sempre valide per un dato sistema di
potere in quanto tale, sia esso socialista, democratico o dittatoriale.
Esistono poi paesi che non hanno sviluppato dottrine geopolitiche
proprie né hanno importato quelle di altri. L’applicazione della teoria
Geopolitica di Hausofer, con la sua sfrenata tendenza espansionista
potrebbe, oggi, trovare più estimatori tra le file di Al Qaeda o
dell’ISIS che non tra i membri del Partito Comunista Cinese per il quale
non è semplicemente un’opzione percorribile.
La Cina ha importato il pensiero comunista da un tedesco come Marx
ma non ha fatto proprie, nè potrebbe importare nessuna delle dottrine
geopolitiche di scuola tedesca poiché il sostrato culturale su cui si
fondano le due civiltà è completamente differente e diverse sono le
caratteristiche psicologiche che le relative geografie hanno plasmato
nei loro abitanti. Ciò non vuol dire che Pechino non abbia una sua
ottica geopolitica, ma l’espansione fisica è sostituita da quella
economica.
Le teorie geopolitiche hanno attraversato almeno tre fasi dalla fondazione della disciplina ad oggi:
- -Nel periodo, che possiamo definire ambito del canone storico, che va dal 1900 fino al 1945, l’obiettivo politico degli Stati è stata la conquista fisica, materiale dello spazio. E’ questa una fase che ricade nella tradizionale definizione della politica di potenza di cui la guerra è uno dei tradizionali strumenti.
- -Nel secondo dopoguerra e fino alla fine della guerra fredda la conquista materiale lascia lo spazio a quella ideologica. La guerra tra i due opponenti è un’eventualità negata dalla deterrenza nucleare e dalla dottrina MAD (Mutua Distruzione Assicurata), marxismo e capitalismo si combattono alle periferie e si rafforzano al centro. Anche la Geopolitica viene influenzata dalla contrapposizione manichea e la politica prende il sopravvento sulla Geografia nell’interpretazione della realtà.
- -Dal 1989 ad oggi l’obiettivo politico degli stati è di partecipare alla competizione nel commercio globale. La Geopolitica diviene geo-economia. Il concetto di frontiera fisica, fondamento dell’autorità dello Stato, è stato rimpiazzato da quello di interconnessione e di integrazione. Le merci e i capitali devono poter fluire dentro e fuori gli stati per permettere al sistema di funzionare. Oggi il soft power affianca, e in certi casi sostituisce, l’hard power nella gestione della politica estera.
Ogni
periodo storico ispira le sue teorie geopolitiche. Le teorie passate e
presenti fondano i loro obiettivi nella conquista di territori fisici e
oggi anche immateriali, ma sono limitate dal quadro politico più ampio e
dalle possibilità tecnologiche del tempo. Inoltre sono differenti i “fatti geopolitici”
generabili e interpretabili: le sanzioni imposte dal congresso USA
negli ultimi 30 anni alla Libia, all’Iraq, all’Iran, alla Corea del Nord
o alla Russia, ad esempio, non erano strumenti utilizzati nelle
Relazioni Internazionali nella prima metà del Secolo scorso (tranne nel
caso delle sanzioni all’Italia del ’35) e quindi valutabili tra le
opzioni utili nella definizione e nella interpretazione della
Geopolitica di una determinata Nazione, così come il ruolo delle
fluttuazioni finanziarie sulle piazze borsistiche mondiali hanno oggi un
peso geopolitico che non avevano 50 anni fa.
Non tutti i paesi
inoltre hanno la possibilità di essere soggetti attivi nel campo della
Geopolitica, molti ne sono esclusivamente soggetto passivo ed altri non
hanno mai sviluppato una propria dottrina Geopolitica. Durante l’ultimo
mezzo secolo alcuni paesi sono transitati dallo stato passivo a quello
attivo; il passaggio da un’ottica all’altra è necessariamente legato ad
una politica di potenza, sia essa politica, militare o economica.
Negli ultimi trent’anni, la mutata architettura internazionale ha
prodotto un aumento di consessi internazionali in cui i paesi una volta
detti in via di sviluppo partecipano come interlocutori allo stesso
livello delle Grandi Potenze donando ai primi un peso che non avevano in
precedenza, permettendo loro addirittura di sfidare le seconde. Il
pensiero geopolitico è perciò mutevole quanto lo è l’architettura del
potere nel mondo. La configurazione delle Relazioni Internazionali
impone le linee più ampie e prioritarie in termini di autorità e la
Geopolitica vi si conforma, in qualità di braccio operativo, nei teatri e
nelle situazioni di scontro.
Tutti gli esponenti delle varie scuole
geopolitiche hanno infatti sostenuto tesi, enunciato teorie, pubblicato
articoli, o agito direttamente, come Kissinger o Brzezinski,
all’interno delle relazioni internazionali e dei rapporti di forza del
tempo e la loro opera è stata influenzata da quel determinato,
irripetibile, periodo storico.
Per dirla con Max Weber:
“[…] Sono gli interessi (materiali e ideali), e non le idee, a dominare immediatamente l’agire dell’uomo. Ma le “concezioni del mondo”, create dalle “idee”, hanno spesso determinato, come chi aziona uno scambio ferroviario, i binari lungo i quali la dinamica degli interessi ha mosso tale attività“.
Una volta caduto il muro, e terminata la contrapposizione tra blocchi, è ripresa la guerra economico-finanziaria interrotta nel 1914 tra le grandi economie del pianeta dislocate in ogni emisfero e a ogni latitudine. Le guerre pertanto non cessano ma cambiano forma e motivazione. Yves Lacoste scriveva nel 1994 su Limes, la rivista italiana di Geopolitica :
”Contrariamente a coloro che proclamano che il mondo si de-geopoliticizza (sic) perché la guerra fredda è finita, si può pensare che il mondo entri progressivamente nell’era della geopolitica. E si tratta di fenomeni geopolitici sempre più complessi e interdipendenti“ (2).
Gli
ultimi 30 anni hanno visto la realizzazione di un sistema
finanziario-industriale altamente integrato che permette ai grandi
capitali finanziari di fluttuare da un circuito economico ad un altro,
dalle obbligazioni statali alle borse valori, dai futures sulle merci a
quelli sul petrolio in maniera pressoché immediata. Tutto ciò crea un
ambiente nuovo su cui agire e permette a quei capitali di divenire una
leva per influenzare nelle loro decisioni le nazioni in cui quei
capitali si riversano. Quei capitali finanziano, ad esempio, la
costruzione di condutture per il petrolio o per il gas che corrono
attraverso diverse Nazioni dal luogo di estrazione al mercato di
utilizzo finale. Inutile dire che queste infrastrutture creano legami
geopolitici e sono oggetto di geopolitica dalla fase della loro
ideazione fino alla loro realizzazione e messa in opera.
Consideriamo poi i traffici commerciali su terra e via mare, che sono
sviluppati come mai lo erano stati in precedenza. Le rotte commerciali
che si dispiegano su tutti i mari hanno bisogno di una rete di sicurezza
che impedisca loro di essere interrotte da guerre o pirateria. Questo
viene garantito da un controllo internazionale sui punti nodali dei
traffici come Suez, Malacca, Aden e il Mar Rosso o le coste sud dello
Sri Lanka. Anche qui il controllo delle linee commerciali è oggetto di
Geopolitica, prova ne è ad esempio, la fitta attività cinese per dotarsi
di punti attracco e attraversamento alternativi al controllo americano
come il porto di Gwadar in Pakistan, la base militare di Djibuti,
l’acquisto di parte del porto del Pireo in Grecia o le trattative con la
Thailandia per la realizzazione di un canale artificiale presso Kra che
permetta di aggirare completamente Singapore e Malacca.
Che dire
poi del sistema di produzione globalizzato che permette ad un prodotto
ideato negli Stati Uniti di essere realizzato in Cina o in Vietnam per
essere poi recapitato via mare ad un acquirente europeo? Quanto la
Geopolitica entra nelle considerazioni degli investitori internazionali
per determinare la locazione di uno stabilimento o l’apertura di un
nuovo mercato per loro prodotti?
Andrew Hurrel, nel suo On global Order (2007),
attribuisce alla presenza di attori economici sovranazionali come la
Comunità Europea, ASEAN, il Gulf Cooperation Council, l’Unione Africana o
il Mercosur, un’azione non solo sempre più orientata in senso
geoeconomico ma anche portatrice di nuove normative e regolamentazioni
che modificano l’ambiente politico più ampio.
E’ quindi necessario
chiarire che l’ambito geografico del termine “Geo-Politica” è
attualmente solo in parte connotato da caratteristiche fisiche e lo è
sempre più per via di fattori come gli scambi finanziari o il commercio
elettronico, che travalicano lo spazio materiale. Inoltre a questo si
sommano altri elementi, che spesso rientrano nel concetto di “Soft Power” (termine coniato da Joseph Nye
nell’omonimo libro del 2005), ovvero la capacità di una Nazione di
influenzare gli altri attori sulla base di elementi immateriali, siano
essi di natura culturale (l’immagine di sé proiettata attraverso il
cinema e i media in generale, per esempio), etnica, valoriale o
religiosa.
Si moltiplicano perciò gli ambiti in cui possono
verificarsi “fatti geopolitici” per cui si amplia la base sulla quale le
teorie geopolitiche possono svilupparsi e mutare nei loro mezzi, se non
nei loro fini. Sebbene la conflittualità internazionale sia stata fino a
30 anni fa governata da considerazioni politiche e ideologiche le
guerre attuali e del futuro, saranno prevalentemente combattute per il
possesso e il controllo di beni economici vitali, di risorse necessarie
per il funzionamento delle moderne società industriali e per la
conquista di mercati di sbocco stabili e regolamentati. Non
necessariamente il conflitto si espliciterà in forma armata ma sarà
implicito nella stipula di trattati commerciali internazionali che
vincoleranno le nazioni all’appartenenza a sistemi economici esclusivi,
anche se potrebbero altresì essere oggetto di scontro i territori
soggetti al transito delle linee energetiche e logistiche con
conseguenti ripercussioni in termini politici, sociali ed economici.
La dissoluzione dell’Unione Sovietica ed il conseguente superamento del
conflitto bipolare hanno avviato un processo di progressiva
trasformazione dell’assetto e dell’ordine geopolitico, geoeconomico e
geostrategico globale in cui la progressiva integrazione dei mercati
economici crea nuovi attori e nuovi contesti geopolitici. Tre decenni
dopo la caduta del Muro di Berlino la competizione geopolitica si svolge
sempre più attraverso la stipula di accordi commerciali transnazionali,
che divengono pilastri del sistema di relazioni internazionali, in un
mondo dominato dall’organizzazione reticolare dei rapporti economici.
Pensiamo ad esempio al tentativo, abortito, di realizzare il Trattato di Partnership Commerciale Transatlantica (TTIP),
tra Stati Uniti ed Unione Europea. Esso puntava a realizzare un mercato
privo di dazi e barriere doganali tra le due sponde dell’Atlantico,
definendo un’armonizzazione degli standard produttivi e legislativi su
diverse materie che potenzialmente avrebbero creato uno spazio chiuso o
con alte barriere all’ingresso di nuovi paesi e contemporaneamente un
forte disincentivo nel non farne parte.
Quell’accordo, parallelo a quello tentato sulla sponda Pacifica, detto TPP
e poi annullato da Trump, era parte di un presunto disegno di
“pivoting” messo in atto da parte degli Stati Uniti per continuare a
garantirsi una centralità in un mondo sempre più multipolare e
contemporaneamente accerchiare Russia e Cina tramite il controllo
commerciale, militare e politico di quell’area che già Nicholas Spykman
negli anni ’30 definì il Rimland (opposto all’Heartland di Mackinder),
ovvero quello spazio che va dall’Europa Centrale all’Asia Sud-Orientale,
passando per il Medio Oriente e l’area Centro-Asiatica.
Nei
prossimi articoli, un rapido excursus sulle principali teorie ed autori
del XX secolo permetterà di comprendere il bagaglio culturale della
disciplina Geopolitica e le tesi che a più riprese si sono affacciate
nel dibattito internazionale.
Oggi, la cornice più ampia entro la
quale queste tesi vengono utilizzate, è quello della fine delle
ideologie e l’affermarsi di un unico sistema internazionale nel quale
democrazie di stampo più o meno liberale coesistono con regimi
autoritari.
Tutte le Nazioni agiscono in un sistema politico
internazionalizzato ed economicamente orientato al mercato (3) come
preconizzato e sostenuto da Francis Fukuyama ne La fine della Storia e l’ultimo Uomo.
In un ambiente che pare tendere all’omogeneità economica sono invece le
particolarità culturali a fare la differenza e ad imporsi come fattori
di integrazione o divisione in campo politico e geopolitico. Questo è
quanto sostenuto da Samuel Huntington nel suo saggio Lo Scontro di Civiltà
in cui afferma che le affinità culturali definiranno il quadro delle
alleanze strategiche politiche ed economiche del futuro. Le riflessioni
di Barry Buzan, contenute nel saggio Il Gioco delle Potenze
in merito alla relazione tra identità e polarità nelle relazioni
internazionali si rifanno in parte a questa linea di pensiero. Una
visione differente è quella prospettata da Edward Luttwak nel suo articolo From Geopolitics to Geo-Economics: Logic of Conflict, Grammar of Commerce sul The National Interest
del 1990 nel quale prospetta un futuro di accentuati conflitti di
natura economica per il predominio su materie prime e mercati tra le
grandi potenze mondiali.
Analizzeremo inoltre l’opera di Aleksander Dugin, La Quarta Teoria Politica
quale portatrice di una visione differente da quella “atlantista” e che
di converso postula la necessità per la Russia, e per gli altri popoli
dell’area Euroasiatica, di fare della propria diversità culturale una
ricchezza ed un motivo di aggregazione in chiave antagonista al modello
occidentale.
Secondo Dugin, la Russia dovrebbe guardare alla Cina ed
all’area che va fino al Caspio per una integrazione militare, politica
ed economica sulla base dei valori tradizionali che contraddistinguono
l’Area Russo-Asiatica o “Eurasia”, come Dugin stesso la definisce.
Manca, non senza una ragione, un’excursus sulle teorie Geopolitche cinesi: il paese di mezzo è rimasto infatti in uno stato di autoisolamento fino al 1979 e da allora la sua postura internazionale è stata perloppiù orientata alla convivenza e all’assenza di scontri con le altre potenze in attesa di poter disporre degli strumenti militari, economici e politici per potersi rapportare con loro da una posizione meno svantaggiata. La Cina del XXI Secolo ha nella Belt and Road Initiative (BRI), nella sua partecipazione all’ASEAN+ e al gruppo dei BRICS, nella Shangai Cooperative Organization (SCO) e nella Banca Asiatica di Investimento nelle Infrastrutture (AIIB), l’area di dispiegamento della sua dottrina Geopolitica di ordine pratico, ma la teoria resta appannaggio del Partito Comunista Cinese che è notoriamente riluttante a svelare le proprie intenzioni più ampie.
Conclusioni:
Nel 1989 a Berlino si è chiuso un conflitto ideologico tra due sistemi non integrabili tra loro ovvero il liberalismo democratico e il socialismo di stampo sovietico. Questi due sistemi hanno imposto e predicato due stili di vita completamente differenti sotto tutti gli aspetti del vivere umano, da quello filosofico a quello economico, da quello sociale a quello politico. Gearòid O’ Thuathail nel saggio Critical Geopolitics del 1996 ha affermato che la fine della guerra fredda ha causato una crisi di significato nella politica globale:
“Il problema non è che non esistano ragionevoli definizioni per descrivere la nuova éra ma piuttosto che ne esistano troppe” (4).
Nei primi anni ’90 la vittoria del modello liberale è apparsa a Fukuyama pressoché completa. Nel 2001 la tesi di Huntington si è presa però una rivincita su quella di Fukuyama: la Storia non è finita perché un gruppo di persone in Afghanistan ha progettato un attentato alla più ricca e potente Nazione sulla Terra colpendola al cuore e mostrandola nuda e indifesa come non pensava di poter essere. Lo scontro di civiltà, preconizzato da Huntington qualche anno prima, è divenuto da allora uno scenario plausibile ed il suo paradigma fondato sull’esistenza di civiltà diverse ed in competizione tra loro è stato utilizzato per descrivere la situazione in divenire.
Il 2001 ha segnato la rinascita della geopolitica competitiva dopo gli anni del momento unipolare americano e il riassetto di potenze come Russia e Cina. Sono tornati con forza in campo gli interessi nazionali e le potenze regionali hanno cercato di ristabilire le proprie sfere di influenza. Negli anni seguenti il tentativo di “esportare la democrazia” manu militari è fallito e con esso anche la tesi di Fukuyama su una presunta Fine della Storia. L’idealismo di Fukuyama non è riuscito a venire a patti con la volontà della Russia di mantenere un ruolo di primo piano sullo scenario globale e inoltre egli non ha previsto l’impetuosa crescita economica della Cina e le sue possibili conseguenze.
La prima, dopo aver affrontato una lunga fase di difficoltà economica sotto le due presidenze di Boris Eltsin ha progressivamente riguadagnato una sua posizione sebbene non più paragonabile a quella di una superpotenza. Ancora oggi si discute se di essa si possa parlare in termini di potenza globale o regionale ma la crescente assertività di cui ha dato prova l’estabilishment russo negli anni delle presidenze Putin-Medvedev è stata certo un problema per i progetti globali americani.
Alexander Dugin e la sua teoria euroasiatista hanno avuto un ruolo nel riconcettualizzare la geopolitica russa post-guerra fredda verso obiettivi più orientati sui propri interessi nazionali.
Il tentativo di riconquista di quello che Brzezinski ha definito il “near abroad” russo è tutt’ora in corso. In molti casi è avvenuto grazie ad una politica energetica fatta di accordi bilaterali sul prezzo del gas o alla costruzione di nuovi gasdotti e oleodotti (il gasdotto North Stream che parte dalla Russia arriva ad esempio in Germania aggirando il territorio polacco mentre contemporaneamente l’Ucraina viene tagliata fuori dalle nuove linee di transito del gas verso l’Europa ).
In altri casi è stato fatto valere il peso dell’interscambio commerciale come nel caso della Bielorussia o delle repubbliche centro-asiatiche (Kazakhstan in primis). Nei primi anni ’90 Edward Luttwak ha predetto lucidamente che molte delle dispute geopolitiche della nuova era si sarebbero combattute sul terreno dell’economia e che le nuove armi sarebbero state rappresentate da barriere di tipo tariffario o dal possesso di materie prime. Ancora O’Tuathail ha affermato che sia Luttwak che Huntington, trovandosi a disagio nel passaggio ad un panorama post-guerra fredda, abbiano sviluppato teorie ed assunti che continuassero a legittimare il mantenimento di una “società della sicurezza” che salvaguardasse il ruolo degli Stati Uniti e dell’Occidente anche nella nuova era (5). Per quanto riguarda gli USA l’elemento di maggior peso da far valere a livello internazionale è stato, durante l’intero XX secolo, la possibilità di fornire quei beni pubblici (common goods) come la garanzia dell’ordine internazionale, la sicurezza e il mantenimento di un ordinamento liberale degli scambi economici che all’alba del nuovo millennio potevano essere insidiati dalle nuove potenze emergenti come la Cina o la stessa UE.
Probabilmente l’assenza di un paradigma alternativo come quello socialista e l’avvento dell’auspicata diffusione del modello liberale a livello globale ha obbligato i due autori ad valutare la possibilità della sparizione dell’eccezionalismo americano ed il venir meno del destino manifesto degli Stati Uniti nel mondo. Non più quindi modello da imitare ma una Nazione liberale come altre nel panorama internazionale. A distanza di 35 anni dalla caduta del muro di Berlino e a più di venti dall’inizio del millennio le teorie di Huntington e, in parte, di Fukuyama rappresentano ancora il fondamento dell’azione occidentale a livello internazionale. Di converso le teorie di Dugin, che in parte ricalcano l’impianto culturalista e civilizzazionale di quelle di Huntington, hanno la possibilità di divenire la base ideologica per la geopolitica di una risorgente Russia e forse anche di altri paesi come la Cina o l’Iran.
Di Fabrizio Bertolami per ComeDonChisciotte.org
05.09.2023
NOTE
1. C.Jean, Geopolitica del XXI secolo, Editori Laterza, Roma-Bari, 2004, p.19
2. Y. Lacoste, Che cos’è la Geopolitica, Limes- Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma, 1994
3. Per mercato si intende lo scambio internazionale di beni e servizi.
Sebbene ispirato da logiche liberiste esso è ancora fondato sul
mercantilismo di stampo occidentale. L’orientamento all’esportazione di
molte nazioni è ancora bilanciato da forti dazi sulle importazioni
dall’estero.
4. J. Kurth, the Real Clash, The National Interest 37 (inverno 1994), p.3-4 in G. O’Tuathail,Critical Geopolitics, University of Minnessota press, Minneapolis, 1996, p.225
5. G. O’Tuathail, Critical Geopolitics, University of Minnessota press, Minneapolis, 1996, p.230
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