Ha ragione Favino, gli italiani non siano penalizzati
Il sottosegretario alla Cultura interviene dopo le frasi dell’attore al Festival di Venezia
È ovvio e intuitivo il riscontro che ha avuto lo sbotto di Pierfrancesco Favino contro i personaggi italiani interpretati da attori stranieri. Considerazione logica ma non universale, se si pensa ai grandi interpreti stranieri de Il Gattopardo, Burt Lancaster e Alain Delon, o ai mafiosi italo americani de Il Padrino interpretati da Al Pacino o Marlon Brando. Il tipo italiano non è una questione né storica né genetica; ciò che è in gioco è la qualità dell’interpretazione, non l’origine anagrafica.
L’ira di Favino corrisponde al rischio di una sottovalutazione della qualità degli attori italiani per esigenze di cassetta delle produzioni. Il suo ragionamento, in autotutela, apre la strada a una considerazione relativa al dibattito, aperto proprio da me 10 anni fa, sui direttori stranieri dei musei, il giudizio sui quali non può essere genetico ma operativo. E anche in questo caso si tratta di orgoglio non italiano ma professionale. Studi e concorsi mostrano una qualità di conoscenza e di capacità degli studiosi italiani non inferiore a quella di illustri studiosi stranieri.
Ammesso che i migliori concorrano, non si può pensare che non essere italiani sia un requisito di merito, con le nostre scuole e i nostri insegnamenti di scuola dell’arte. Il secolo scorso vide fra i più illustri studiosi un americano, Bernard Berenson, e un italiano, Roberto Longhi. Gli studi, come le capacità attoriali, non hanno nazionalità ma, a parità di impegno, gli italiani non devono essere penalizzati.
E mentre per un attore l’interpretazione ha un significato artistico, per i direttori le funzioni operative dipendono dalla competenza e dalle esperienze acquisite, non dall’origine. Per questo nessuno ha mai pensato di avere magistrati, prefetti, ambasciatori, questori, direttori generali, amministratori delegati stranieri. Solo la chiesa, con il suo magistero universale, si è affidata a stranieri per carenza di vocazioni. Ma questo non vale né per il cinema né per i musei.
Vittorio Sgarbi, 7 settembre 2023
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