Cinquanta sfumature di verde
di Alain de Benoist - 14/07/2023
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Fonte: GRECE Italia
La teoria dello sviluppo sostenibile vuol fare quadrare il
cerchio: guardandosi dal mettere in discussione il capitalismo, che è la
maggiore causa della devastazione della Terra perché per sua natura
combatte tutto ciò che rischia di ostacolare l’espansione planetaria del
mercato, pretende di difendere l’ambiente senza però ripudiare l’ideale
moderno della crescita.
Martin Heidegger ha scritto nella sua
Introduzione alla metafisica (1935): «L’oscuramento del mondo, la fuga
degli dei, la distruzione della Terra, la gregarizzazione dell’uomo, il
sospetto odioso verso tutto ciò che è creativo e libero, tutto ciò ha
raggiunto, su tutta la Terra, proporzioni tali che categorie infantili
come pessimismo e ottimismo da tempo sono diventate ridicole».
Sono
parole che si applicano benissimo all’ecologia. Oggi, a parte qualche
scontroso reazionario, tutti si dicono ecologisti. Se ne potrebbe essere
lieti se, dell’ecologia, non si potessero avere le idee più diverse, le
peggiori come le migliori. Lo testimoniano le due forme di ecologia più
diffuse nel solco dell’ideologia dominante: da un lato il “capitalismo
verde” e il suo corollario, lo “sviluppo sostenibile”, dall’altro
l’ecologismo radical chic, che è anche quello dei partiti Verdi.
La
teoria dello sviluppo sostenibile vuol fare quadrare il cerchio:
guardandosi dal mettere in discussione il capitalismo, che è la maggiore
causa della devastazione della Terra perché per sua natura combatte
tutto ciò che rischia di ostacolare l’espansione planetaria del mercato,
pretende di difendere l’ambiente senza però ripudiare l’ideale moderno
della crescita. Ma, bisogna ripeterlo, non si può avere una crescita
industriale e demografica infinita in uno spazio finito. Lo sviluppo
sostenibile, pilotato da esperti che credono che l’ideologia si riduca
alle anomalie climatiche e all’impronta carbone, che contano sulle
“tecno soluzioni”, cioè sul ricorso a sempre più tecnica per correggere
la tecnica, e vogliono decidere su tutto in termini di quantità e
redditività perché nella natura vedono solo un oggetto da gestire, si
accontenta di rinviare le scadenze, adottando l’atteggiamento di un
pilota di nave che, avvertito di star dirigendosi contro gli scogli,
decide di ridurre la velocità invece di cambiare rotta. Chi parla di
ecologia senza mettere sotto accusa il capitalismo farebbe meglio a
tacere.
L’ecologismo radical chic, invece, funziona sulla tematica
del pentimento morale in una prospettiva “planetaria” e apocalittica
(«pentitevi, perché la fine è vicina!»). Veicolato da piccoli borghesi
delle grandi città che non hanno alcuna idea di cosa sia davvero la
natura (i cacciatori la conoscono e la rispettano meglio di loro),
perorano un’ecologia fondamentalmente punitiva col pretesto di “far del
bene al pianeta”, che ai loro occhi non è che uno spazio mondiale in via
di unificazione. Come fare del bene al pianeta? Proibendo gli alberi di
Natale, il foie gras, la caccia alla lepre e le corride, favorendo la
promozione delle pale eoliche e dei monopattini elettrici, vandalizzando
le opere d’arte o magari legalizzando la cannabis e inviando carri
all’Ucraina. Strano modo di preservare l’ambiente.
Che fare, allora,
se si vuol restituire all’ecologia il suo vero senso? Innanzitutto
evitare quella che Bernard Charbonneau chiamava la «periferizzazione del
mondo», la trasformazione del mondo in una periferia senza fine, fatta
di costruzioni industriali, sedi di grosse società, terre desolare,
“grandi insiemi” e centri commerciali. Impedire la devastazione del
mondo da parte di un capitalismo liberale che cerca solo di massimizzare
i profitti. Preservarlo dall’accelerazione del tempo e dal
restringimento dello spazio. Farne un luogo non solo vivibile, ma
abitabile.
Questa ecologia è un’ecologia del locale, del territorio,
del paesaggio, del sito, del «luogo che fa legame» (Michel Maffesoli).
L’ecologista sincero è un amico dei luoghi, che sono altrettanti abiti
con cui i popoli hanno rivestito la Terra. I luoghi, come gli uomini che
li abitano, non sono intercambiabili, anche se entrambi vivono
nell’orizzonte della precarietà. Friedrich Nietzsche diceva che
«l’occhio del nichilista idealizza nel senso della bruttezza». La
bruttezza oggi è voluta e ricercata, perché la bellezza è considerata
superata. Occorre restituire al mondo la sua bellezza e la sua
diversità, a partire dalla diversità dei popoli e delle culture.
Non
si tratta solo di rispettare l’ambiente, ma di rifondare un’amichevole
connivenza fra l’uomo e la natura, che si potrebbe riassumere nei
termini di Martin Buber: sostituire l’io-tu all’io-ciò. Ritrovare il
senso del cosmos. Smettere di ragionare secondo il dualismo
soggetto-oggetto ereditato da Cartesio che inaugura un’assoluta
separazione tra la cultura e la natura, gettando le basi di quello che
Augustin Berque chiama il paradigma occidentale moderno classico.
Armonia
ma non fusione. Perché bisogna anche respingere l’ecologismo New Age,
mistico e fusionale, e l’antispecismo, che vuole dimenticare che l’uomo è
creatore di se stesso perché, contrariamente agli altri animali,
l’ambito che gli appartiene in proprio è la storicità. Solo l’uomo
diviene storicamente. L’umanità è una solo biologicamente; culturalmente
è per forza molteplice. L’uomo non ha un ambiente specifico. Crea il
suo a sua guisa, e questa disposizione sfocia nella diversità delle
culture.
L’ecologia è fondamentalmente conservatrice, poiché si batte
per il rispetto degli ecosistemi e dei cicli naturali, valorizza il
radicamento, rifiuta il saccheggio dei paesaggi, ha il senso della
terra, diffida tradizionalmente dei danni provocati in nome del
produttivismo e del progresso. Ma è anche rivoluzionaria. Nel 1937,
Bernard Charbonneau pubblicò un articolo intitolato Il sentimento della
natura, forza rivoluzionaria, constatando che «in un mondo che si lascia
andare nel corso del Niagara economico, la conservazione diventa
rivoluzionaria». Aveva ragione. Cambiare rotta sarebbe un atto molto
profondamente conservatore e perfettamente rivoluzionario.
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