Il pacifismo all’italiana è ipocrita e pusillanime, interviene in alcune occasioni e non in altre. Per l'Ucraina si e per 'attacco NATO alla Serbia no. Il Kosovo è giusto che si autodetermini ma le repubbliche del Donbass no. E' legittimo sospettare che sia eterodiretto, manovrato, manipolato. Se ci aggiungiamo che per volontà politica e ignavia dei cittadini l'Italia è uno dei paesi dove maggiore è il monopolio dell'uso della forza nelle mani del governo, dove i cittadini non hanno accesso alle armi se non per l'attività venatoria e sportiva (raramente), abbiamo il quadro della situazione. Una società che non è in grado di difendersi e non lo desidera, è ovviamente soggetta a subire qualsiasi angheria e perdere ogni residuo di libertà. Claudio
Il pacifismo all’italiana: sventolare la bandiera dell’invasore per farselo amico
Nel caso in cui il popolo italiano fosse aggredito da un esercito straniero, militarmente superiore al nostro, venuto per soggiogarci o addirittura per distruggerci, noi reagiremmo come stanno facendo gli ucraini da circa due mesi? Alla prova dei fatti, combatteremmo con la stessa determinazione? La storia del nostro Paese, privo di una vera coscienza nazionale, fa pensare di no. Alcuni, forse, sventolerebbero la bandiera dell’invasore per farselo amico, per non subire conseguenze. La nostra storia è costellata di episodi del genere.
Una volta mio nonno, nato nel 1934 a Crevalcore, un piccolo comune in provincia di Bologna, mi raccontò di un suo compaesano dichiaratamente fascista che, una volta arrivati gli americani (sia ben chiaro: liberatori e non invasori), si presentò in piazza con il fucile affermando di essere sempre stato un partigiano sotto copertura. E giù a ridere. Per non piangere. Una maschera fantozziana, in cui si rispecchiano le debolezze di un popolo destinato ad essere governato. Come disse Indro Montanelli in un’intervista a L’Unità del 23 ottobre 1994, “in Italia a fare la dittatura non è tanto il dittatore, quanto la paura degli italiani e una certa smania di avere un padrone da servire”.
L’amor patrio dovrebbe accomunarci tutti, indipendentemente dalle visioni politiche. Tuttavia, l’intellighenzia progressista, sempre pronta ad assecondare ogni pulsione anti-patriottica, ha sistematicamente relegato il concetto di patria nella cultura fascista. Basti pensare al doppio standard applicato ad alcune celebrazioni nazionali. Il 25 aprile tutti a sfilare — giustamente — in onore dei partigiani caduti, talvolta dimenticando o fingendo di dimenticare il ruolo cruciale degli Alleati per la Liberazione. Nessuno o quasi a festeggiare la nascita della Repubblica italiana, che non sarebbe mai avvenuta senza la cooperazione dell’intero assetto istituzionale (formato non solo da forze di sinistra).
Ormai è un fatto acclarato: l’opinione pubblica italiana diffida del tricolore. Guai a celebrare la festa della Repubblica esibendo carri armati, bandiere e divise militari. Noi siamo contro la guerra, pacifisti fino al midollo. E pazienza se si tratta della “pace sovietica”, fondata sul terrore e sulla sopraffazione dell’avversario. L’importante è scongiurare ogni scenario bellico, whatever it takes. Anche a costo di svendersi agli invasori, tradendo la propria dignità. Ha ragione Federico Rampini quando scrive che “in Italia i pacifismi ipocriti, che ripudiano la logica delle armi solo quando le abbiamo noi, sono rafforzati dalle robuste tradizioni anti-occidentali e anti-americane delle maggiori famiglie politiche: ex fascisti, socialisti, comunisti e una parte di cattolici” (Corriere, 24 marzo).
Il “pacifismo ipocrita” di cui parla Rampini ha disseminato di ostacoli il nostro cammino verso la modernità. Il referendum abrogativo sul nucleare del 1987, che ha visto la schiacciante vittoria dei sì, ne è la massima dimostrazione. Perfino gli ambientalisti avrebbero dovuto sostenere il nucleare, dal momento che si tratta di una fonte di energia meno inquinante. Eppure, la stragrande maggioranza dei cittadini scartò questa possibilità perché indisposta ad accettare il rischio — fra l’altro minimo — di un incidente.
E qui arriviamo al punto: al giorno d’oggi, pretendiamo di avere tutto sotto controllo. Rifiutiamo ogni rischio, trascurando i possibili benefici. Basti pensare alle modalità con cui i nostri governi hanno affrontato la pandemia. Come abbiamo raccontato più volte su Atlantico Quotidiano, dal febbraio del 2020 gli italiani hanno accettato con nonchalance ogni tipo di restrizione: il coprifuoco alle 22 (dopo aver trascorso il resto della giornata in letargo, il virus si risveglia improvvisamente di notte come Nosferatu?); la didattica a distanza, dannosa sotto il profilo formativo e psicologico (per noi studenti era chiaro fin dal principio, ma qualcuno finse di non vedere); il divieto di spostarsi (ci si contagia di più in villeggiatura che a casa?); il divieto di ricevere ospiti nella propria abitazione (se avessero imposto tale restrizione negli Stati Uniti, patria dell’individualismo e della proprietà privata, i cittadini americani sarebbero scesi in piazza con i forconi). Il giornalismo tradizionale ha abdicato alla sua funzione di cane da guardia del potere. Anzi, talvolta si è mostrato ancor più intransigente del potere stesso nel far rispettare le norme pandemiche. Noi tutti ricordiamo i titoli aggressivi di alcuni quotidiani contro la movida serale. Se in questi due anni non siamo stati capaci di difendere la nostra libertà come possiamo sperare di riuscire a difendere la libertà altrui?
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