Ecco chi sono i (pochissimi) veri padroni del cibo mondiale e quanto guadagnano ogni anno
Per capirci: “Cargill nell’anno fiscale giugno 2020/giugno 2021 ha dichiarato 135 miliardi di dollari di ricavi, Adm 86 miliardi, Bunge 60 miliardi nel 2021 e Louis Dreyfus 50 miliardi: i profitti netti cumulati si aggirano sui 15 miliardi. Qualunque sia il marchio sul pane, sulla bistecca di soia, sul riso che acquistate al supermercato sappiate che quasi sempre dietro ci sono quei quattro nomi. Una faccenda che ha ricadute enormi. Se un pugno di aziende sono il mercato sono loro a decidere il prezzo, a decidere chi vive e chi muore, cosa, dove e come viene coltivato: per questo, ci dice la Fao, in pochi decenni le grandi monocolture care alle multinazionali hanno ridotto del 75% la biodiversità sul pianeta, a non dire della deforestazione, che nel decennio 2010-2020 s’è mangiata una superficie grande come l’intera Spagna”. Ma mica è finita qua.
Continua Palombi raccontanto il grande business del cibo: “Per fare un albero, ma pure il grano e tutto il resto, ci vuole un seme, si sa, e i semi sono quattro nomi: dopo una serie di fusioni negli anni scorsi ChemChina (che in Italia ha quasi mezza Pirelli), Bayer, Corteva (ex Dow-Dupont) e il consorzio francese Limagrain controllano quasi il 60% delle sementi a livello globale, un mercato da 42 miliardi di dollari nel 2020. E pure i fitofarmaci per l’agricoltura sono quattro nomi: tre sono gli stessi delle sementi, la quarta è la tedesca Badai posto dei francesi di Limagrain, e in quatto valgono il 66% di un settore che fattura quasi 60 miliardi. Un mostro a cinque teste da centinaia di miliardi di di dollari di ricavi annui che fa il bello e il cattivo tempo sui contadini dell’intero pianeta”. E se a quei poverini serve un trattore, una mietitrebbia o altri macchinari agricoli?
“Questo mercato da 126 miliardi di dollari annui è per metà appannaggio di quattro imprese: Cnh Industrial (controllata dalla Exor degli Agnelli e basata in Olanda), le statunitensi Ago e Deere, la giapponese Kubota. Pochi proprietari, molti produttori, miliardi di consumatori: lo schema funziona in tutti i recessi del mercato del cibo”. E ancora, altro problema: “Secondo un report 2017 di Coldiretti nella grande distribuzione i primi dieci grandi rivenditori di generi alimentari coprono il 30% delle vendite mondiali (dal colosso Walmart ai tedeschi di Schwarz Group, quelli di Lidl, fino ai francesi di Carrefour, in attesa della crescita scontata di Amazon)”. E anche i marchi produttori non sono da meno: “Quattro o cinque società pesano per metà o due terzi delle vendite dell’80% dei prodotti alimentari”.
“L’intero sistema – spiega Palombi – è pensato per pompare utili verso azionisti e manager illudendo i consumatori (dei Paesi ricchi, ma non solo) di poter scegliere sulla base della propria irripetibile individualità, mentre si estrae valore sfruttando agricoltori, lavoratori e risorse naturali”. Il cibo è una commodities come le altre: “Oggi l’intera filiera dal campo allo scaffale è un prodotto finanziario ben più che fisico”. E di fatto oggi il prezzo di materie prime come il grano “ha più a che fare con la finanza che coi costi di produzione o con la domanda”. E così, “una filiera così estesa e ricca (in Italia nel 2021 valeva 575 miliardi, il 32% del Pil) spartita tra poche società è un fatto che finisce per modellare il mondo”. Resta da chiedersi: chi sono, dietro le società, i padroni del cibo? “Sono i soliti noti e, al solito, puntano su tutti i giocatori: fondi come BlackRock, Capital Group, Vanguard Group, Sun Life Financial, State Street e il Fondo pensioni norvegese (che non è il piccolo e bonario investitore che il nome farebbe presumere) hanno partecipa-zioni in molte multinazionali del cibo – teoricamente concorrenti tra loro – ma al gioco partecipano anche grandi investitori privati (Warren Buffet controlla Kraft Heinz col fondo 3g Capital) e qualche banca (CréditAgricole, Deutsche Bank, ecc.)”.
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