Autodeterminazione, proprietà e libertà. Autogoverno e disponibilità delle risorse
di PAOLO L. BERNARDINI
La recente guerra riporta, drammaticamente, la questione dell’autodeterminazione dei popoli alla ribalta. Se alle due repubbliche del Donbas fosse stato permesso di votare in un referendum, come per la Crimea, per l’annessione alla Russia, o per la propria indipendenza, probabilmente questo massacro, disinvoltamente alimentato dalla UE, assassina senza neanche sapere di esserlo, e serva (ma sapendolo, questo, molto bene) degli Stati Uniti, si sarebbe potuto evitare.
La questione dell’autodeterminazione dei popoli, tuttavia, necessita sempre di nuovi approfondimenti. A chi appartiene, propriamente, il territorio del quale si desidera l’autodeterminazione? E dunque, che diritti vanta un popolo sul territorio nel quale risiede? Non è una domanda pellegrina, si vede bene, anche se sembra vuota. Sembra ovvia una risposta: Il Veneto è dei veneti, la Catalogna dei catalani.
Siamo sicuri che sia così? Più si approfondisce la questione, più si serve non tanto la scienza politica, quanto proprio il desiderio dei popoli, molto in concreto, di autodeterminarsi. Ma anche riflessioni giuridiche possono essere utili, anche se in apparenza molto astratte.
La questione di una rivendicazione “pubblica” di una proprietà e della relativa amministrazione (“Il Veneto è dei veneti”, per l’appunto), ha a che fare con tutta la sfera della proprietà. Per fortuna, si può dire, il diritto pubblico stesso aiuta, definendo il bene “demaniale”, nei suoi vari aspetti, e il bene decisamente “pubblico”, ovvero di proprietà dello Stato, che infatti può alienarlo. Un edificio dello Stato può esser venduto dal medesimo, una spiaggia, data in concessione, ma venduta no. Gli abomini del diritto.
In Inghilterra, ad esempio, quando si acquista una casa si acquista, spesso, non sempre, in realtà un diritto, una concessione, sulla terra “della Regina”: il “lease”: ovvero, gli appartamenti, le case, i terreni etc. possono avere un “lease”, oppure essere “lease free” (“freehold” vs “leasehold”, e dunque se ne acquista la piena proprietà.
In situazioni diverse, si è si proprietari di un bene, ma la proprietà “della terra” rimane incerta, e non definita. Ad esempio, se io compro una villa, fino a quanto posso scendere sotto terra, e reclamare la proprietà di quanto sta esattamente sotto i 1000 mq., poniamo, che sono miei in tutto e per tutto, senza alcun “lease”? Il fatto che in ultima istanza un bene immobile non sia davvero mio come dovrebbe essere, ma in qualche modo sia mia “per grazia” dello Stato resta nella tassa di proprietà, cancellata in Italia per la prima casa, ma non per le seconde; e ben presente per tutte le case negli US.
Allora, il principio astratto dell’autodeterminazione si scontra con quello della proprietà. Certamente, se si facesse un censimento di tutte le proprietà private in Veneto, si scoprirebbe che quanto di diritto, privato prima che pubblico, appartiene allo Stato italiano, è una frazione minima di quanto appartiene ai cittadini veneti. Dunque, la proprietà privata di una terra, di una casa, di un magazzino, o altri beni “immobili”, allora giustifica in qualche modo la proprietà “pubblica”, ovvero la gestione del complesso di tali beni.
Il principio di autodeterminazione dei popoli nasce dal processo storico di frammentazione della proprietà – quando un re era proprietario di tutto un territorio, come è accaduto spesso nella storia, indipendentemente dalle origini di tale proprietà, più o meno delinquenziale, vedasi “DerStaat” di Franz Oppenheimer, del 1907, la prima edizione, breve, prima della seconda assai più lunga ma meno incisiva (mai tradotto in italiano) – e dunque se esiste un “individualismo proprietario”, ebbene, su questa base si può rivendicare quella “proprietà collettiva” (ovvero, piuttosto, “amministrazione collettiva di proprietà individuali” che è uno Stato, poniamo, la Nuova Veneta Repubblica. Tutti i “proprietari” del Veneto, grandi e piccoli, Benetton e Bernardini, possono unirsi e sulla base del fatto che hanno “proprietà”, miliardarie o piccolo borghesi, che insistono su di un medesimo territorio che, almeno per quanto riguarda il terreno su cui ricadono le loro case, e ovviamente sui terreni, reclamare un diritto di autodeterminazione. Dello Stato rimane il “demanio pubblico”, ma a questo punto lo Stato italiano avrebbe ancora interesse a mantenerlo? E soprattutto, su quale contratto sarebbe basata tale proprietà? Essa si basa sull’esproprio, e sul performativo costituzionale e dei susseguenti codici. Si veda il dispositivo dell’art. 822 del Codice Civile:
- «Appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico il lido del mare [942], la spiaggia, le rade e i porti; i fiumi, i torrenti [945], i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia; le opere destinate alla difesa nazionale.Fanno parimenti parte del demanio pubblico, se appartengono allo Stato, le strade, le autostrade e le strade ferrate; gli aerodromi; gli acquedotti; gli immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia; le raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche; e infine gli altri beni che sono dalla legge assoggettati al regime proprio del demanio pubblico [823, 824, 1145].»
Sulla base di quale contratto il “lido del mare” appartiene allo Stato, i fiumi e i torrenti e i laghi? Sulla base della violenza infinita del legislatore, che tramite un performativo magico fa proprio un bene: “Lago, ora sei mio!”, e non su un contratto – sia pure a Dio o alla Natura, o a chi vi naviga, o ai pesci, a qualcuno il lago appartiene –: il legislatore inventa una “res nullius”, e se ne appropria.
Il diritto pubblico è una finzione al servizio di bande ogni volta diverse di mascalzoni. Il vero diritto è quello privato. Meno male che poi ci si rende conto della barbarie generale e si specifica, in modo ridicolo: “Fanno parimenti parte del demanio pubblico, se appartengono allo Stato…”, clausola che è come dire: “Fa parte della proprietà privata di Paolo Bernardini, se appartiene a Paolo Bernardini…” tale e tal altro bene.
Solo sulla base di una rivendicazione di proprietà radicalmente meditata si può procedere ad una secessione. O perlomeno alla rivendicazione di una “gestione propria” dell’insieme delle proprietà individuali, che mai diventeranno proprietà collettiva. Ma questo deve essere preceduto da una profonda riflessione sulla “nozione” di proprietà stessa. In assenza di questo – e le scuole, compresa l’università, questo non lo insegnano, ovviamente, o lo insegnano in modo volontariamente distorto – difficilmente si potrà procedere all’autodeterminazione, e all’indipendenza.
E allora potranno autodeterminarsi solo quei popoli la cui libertà sta a cuore a chi comanda per meri e vergognosi interessi di compagnie minerarie, e quant’altro, come nel caso del Donbas, tragico: ma dove compagnie straniere, soprattutto americane, ci tengono a non perdere “concessioni” minerarie che hanno assunto elementi di vera proprietà – da studiare, peraltro –e dunque condannano a lungo macello bimbi e donne. O sono proprietarie di quelle miniere? Come è la faccenda?
Proprietà fa rima con libertà, ma anche con verità. Questo almeno insegno io, voxclamans in deserto, a studenti che comunque si mostrano interessati. Perché ne va del loro futuro, più lungo del mio, senz’altro anche a maggior ragione di quello di Biden e compagnia sinistra: con un piede nella fossa, ma l’altro fuori, in tale fossa precipitano migliaia di poveretti. Non dal 24 febbraio 2022, da molto prima.
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