Zuckerberg, Bezos e Dimon vendono le loro azioni: in arrivo il crollo definitivo di Wall Street e della globalizzazione?
di Cesare Sacchetti
L’espressione “cigno nero” fa parte del gergo dei mercati finanziari e descrive generalmente una situazione di un pesante crollo delle borse di rara frequenza.
Non è chiaro se un evento del genere sia in arrivo ma il comportamento di alcuni pezzi da novanta del mondo dell’economia e della finanza mondiale può forse aiutarci a comprendere cosa sta accadendo.
Il primo a vendere le sue azioni è stato il patron di Amazon, Jeff Bezos, che in una mossa senza precedenti ha venduto azioni della sua società per un valore complessivo di 8,5 miliardi di dollari.
Chi segue con attenzione le vicende della finanza, sa già probabilmente che il colosso americano della distruzione mondiale non se la passa affatto bene dopo la fine della farsa pandemica.
Il suo valore infatti dopo il 2022 si è letteralmente dimezzato passando dai 1,7 trilioni di dollari precedenti fino a scendere agli 800 miliardi alla fine del 2022.
Amazon sta attraversando una crisi non passeggera e profonda che la sta portando anche a ridurre il suo personale in giro per il mondo.
A seguire Amazon è stato un esponente di quello che negli Stati Uniti viene chiamato Big Tech, ovvero il settore tecnologico che domina internet, e il personaggio in questione non è altri che Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, che ha iniziato a vendere 428 milioni di dollari delle azioni del suo social, ribattezzato ora con il nome di Meta, già dalla fine del 2023.
A completare la serie dei nomi di punta dell’economia mondiale, è arrivato poi un altro peso massimo del mondo della finanza internazionale come Jamie Dimon, amministratore delegato della celebre, o forse dovremmo dire famigerata, banca d’affari JP Morgan che ha venduto le azioni della sua banca per un valore di circa 150 milioni di dollari.
JP Morgan è probabilmente già nota a diversi lettori. Questa banca è stata una delle protagoniste del saccheggio ai danni delle aziende di Stato italiane nel 1992 a bordo del panfilo Britannia della regina Elisabetta.
A fare da cerimoniere della svendita di quello che era il patrimonio di tutti gli italiani fu, com’è noto, il giovane Mario Draghi nelle vesti di dirigente del Tesoro, che a bordo del Britannia decise di liquidare un immenso tesoro a prezzi di saldo alla finanza speculativa anglosassone.
Ancora oggi, non è chiaro chi abbia autorizzato Draghi a commettere quell’atto di tradimento nei confronti dello Stato quando la notte della svendita, il 2 giugno del 1992, non c’era ancora in carica un governo dotato di pieni poteri in quanto il governo Andreotti era caduto e le attività governative non potevano andare oltre la soglia del disbrigo degli affari correnti.
Soltanto un mese dopo circa si formò un altro governo, quello di Amato, che prontamente ratificò la svendita non prima però di aver rubato nottetempo i soldi degli italiani attraverso il famigerato prelievo sui conti correnti.
La fuga dei signori dei mercati non ha precedenti
Ora qualcuno potrebbe pensare che quanto sta accadendo sia ordinaria amministrazione per quello che riguarda la compravendita di azioni ma in realtà non è affatto così.
Si pensi solamente al caso citato in precedenza di Jamie Dimon. Dimon non è un giorno che siede sulla poltrona di amministratore delegato di JP Morgan.
Ricopre questo incarico dal 2006 poco prima che scoppiasse la celebre crisi dei mutui subprime alla quale allora la banca newyorchese offrì il suo indispensabile contributo.
Nemmeno all’alba di una crisi così pesante, Dimon si liberò di un numero così elevato di azioni nonostante sapesse perfettamente che la bolla immobiliare creata dai mercati nei primi anni 2000 sarebbe prima o poi inevitabilmente esplosa.
All’epoca però Wall Street non appariva minimamente preoccupata. Alla Casa Bianca c’era un presidente che era stato da loro finanziato e sostenuto, ovvero il repubblicano neocon, George W. Bush, saldamente nelle mani della lobby sionista, .
Bush autorizzò un programma chiamato Troubled Asset Relief Program, che sta a significare programma di sostegno alle imprese in difficoltà.
Vennero stanziati almeno 700 miliardi di dollari per correre in soccorso di banche quali la stessa JP Morgan, Goldman Sachs e Bank of America, e negli anni seguenti il successore di Bush, il democratico Barack Obama, autorizzò il prosieguo del salvataggio della finanza.
Coloro che avevano trascinato l’America e il mondo intero nella più grossa crisi finanziaria dopo il 1929 venivano ancora una volta salvati dalla slot machine truccata della banca centrale americana, ovvero la Federal Reserve Bank (FED).
La storia della FED è stata raccontata dal ricercatore americano Eustace Mullins che ha spiegato come nel 1913 il presidente Wilson autorizzò la costituzione di una banca centrale che non era di proprietà del governo americano ma che era in realtà sotto il controllo di potenti gruppi bancari privati quali quelli della famiglia Morgan, dei Rockefeller e dei Rothschild.
Quando scoppiò la citata crisi dei mutui, Jamie Dimon faceva parte del consiglio di amministrazione di una delle 12 banche che controlla la FED, in questo caso la sezione della Federal Reserve di New York.
Se si guarda al consiglio di amministrazione di questa banca si scopre che a farne parte c’è anche attualmente Rajiv J. Shah, economista e presidente della fondazione Rockefeller.
La conclusione può essere pertanto soltanto ovvia. Gli architetti del fallimento utilizzavano la banca centrale che ha il potere di creare moneta dal nulla per salvare sé stessi e non utilizzare la leva della FED invece per sostenere l’economia reale.
La filosofia del protestantesimo neoliberale si vede perfettamente in quanto accaduto allora e in diverse altre occasioni.
Lo Stato viene messo al bando e il suo potere di intervento monetario non dev’essere utilizzato per sostenere le piccole e medie imprese e i risparmiatori ma gli oligarchi che sono i signori assoluti del sistema liberale.
Essi sono il vero Stato. Stavolta però siamo in presenza di un fenomeno nuovo. Gli alti membri della finanza speculativa di New York prendono delle decisioni che, come abbiamo visto, non hanno precedenti al riguardo.
Wall Street sa che la globalizzazione e il suo dominio è finita?
Il sentore che qualcosa di nuovo si stava verificando negli Stati Uniti lo si era già avuto quando iniziarono a fallire alcune grosse banche americane in California, laddove molti personaggi del mondo dello spettacolo e della politica depositano i propri patrimoni.
A questo giro, la FED non ha mosso un dito. I protetti della finanza iniziano a perdere i loro soldi e non si mette in moto la macchina che li salvò 16 anni prima.
Anche per ciò che riguarda gli obiettivi più propriamente politici di questi gruppi finanziari, si inizia a vedere un netto cambio di rotta.
La scorsa settimana di nuovo JP Morgan, affiancata in quest’occasione da BlackRock, decidono di abbandonare i loro investimenti nel programma climatico delle Nazioni Unite fondato sulla nota bufala del riscaldamento globale.
Sono quelle politiche così care a Davos che nelle sue riunioni annuali vagheggiava di un mondo ad emissioni zero, laddove il reale fine ultimo non è certo quello di proteggere l’ambiente, che non soffre di una reale minaccia di tipo entropica, ma piuttosto quello di accompagnare il mondo verso una deindustrializzazione di massa, prodromica al depopolamento che questi circoli malthusiani globalisti tanto desiderano.
Quando Massimo D’Alema qualche tempo fa ebbe a dire, non troppo gioiosamente per lui, che la globalizzazione era giunta al suo termine, aveva certamente ragione.
La stagione degli anni 90 sta volgendo, fortunatamente al termine. Il tempo delle delocalizzazioni selvagge e dell’esplosione dei commerci internazionali a discapito delle produzioni nazionali è finito.
Così come a sua volta il motore della globalizzazione, la Cina, ha già da un po’ iniziato a rallentare dopo il suo divorzio con la finanza anglosassone senza la quale il dragone cinese non avrebbe mai potuto raggiungere la sua posizione di dominio assoluto sui mercati.
Se dunque la globalizzazione è giunta alla sua fase finale, questo implica inevitabilmente una perdita dell’enorme potere che gli oligarchi avevano accumulato.
La globalizzazione non è altro che il feroce volto finanziario del globalismo. Il globalismo voleva la costituzione di un impero attraverso la nascita di una governance globale laddove gli Stati avrebbero poi perduto del tutto i loro residui poteri e i “grandi” gruppi finanziari e industriali avrebbero avuto una posizione ancora più dominante di quella degli ultimi 30 anni.
Sarebbe stata una situazione laddove le diseguaglianze tra le classi sociali sarebbero state persino più ampie di quelle paradossalmente in vita ai tempi nei quali esisteva la schiavitù.
Il potere che avrebbero avuto i globocrati avrebbe dovuto essere immenso e la fine, o meglio il fallimento, di questa visione ha provocato invece il processo inverso.
E’ questa la ragione per la quale iniziamo a vedere una fuga dai mercati di coloro che sono stati i signori della globalizzazione.
Costoro sembrano sapere che questa volta non ci sarà il comodo paracadute della FED e non ci sarà l’appoggio politico di una compiacente amministrazione presidenziale da loro governata, visto soprattutto l’assoluto vuoto di potere che c’è a Washington con l’amministrazione Biden.
Queste fughe dai mercati potrebbero essere il segnale del definitivo requiem della finanza speculativa e dei suoi predatori. Se nel secolo scorso la finanza era quel potere che aveva in mano la vita degli Stati, la fase attuale e futura sarà fondata sul processo inverso.
La fine della globalizzazione non potrà non portare la fine della dittatura del capitale.
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