Navalny e Imran Khan, dissidenti a confronto
Il triste destino di Navalny viene pianto in Occidente e brandito contro quel “pazzo figlio di puttana” di Putin, come da diplomatiche esternazioni di Biden. Parole alle quali lo zar ha risposto dicendo di comprendere l’esternazione, perché motivata dal timore del presidente americano di essere additato come suo amico dal momento che, in precedenza, lo zar aveva detto di preferirlo a Trump perché “più prevedibile”.
Le improvvide esternazioni presidenziali – non utilizzate nemmeno al tempo dell’Unione sovietica – cavalcano l’onda del forte sentimento anti-russo suscitate dal “momento Navalny”. Inutile tornare sulla morte di quest’ultimo, ne abbiamo già scritto, utile invece ricordare come la sua figura sia esaltata perché unico oppositore a un regime dispotico.
Qualcuno si è spinto addirittura a paragonarlo ad Alexander Solgenitsin, l’autore di “Arcipelago gulag”, resoconto dell’inferno sovietico e dei suoi lunghi trascorsi in quell’inferno. Dimenticando, però, che per Putin Solgenitsin “aveva una certa ammirazione. Prima di tutto per il suo lavoro di restauro civico, culturale e spirituale che gli è valso il riconoscimento del popolo russo. Ma anche per la sua visione del mondo: Mosca è ora al centro di un sistema policentrico con Cina e India, di fronte al blocco unipolare dell’evanescente occidente”. Lo raccontava il suo amico Philippe De Villiers (Solgenitsin è morto nel 2008, si veda come la prospettiva geopolitica allora delineata dallo zar, che al tempo poteva apparire di retroguardia, sia in rapida evoluzione).
Tornando a Navalny, resta la figura dell’oppositore di Putin, il dissidente, la dura carcerazione per motivi giudicati politicamente motivati (e in parte lo sono). In altre note abbiamo fatto un parallelo tra l’indignazione per Navalny e la dura persecuzione Usa contro Julian Assange, come anche la morte dello scomodo cronista Gonzalo Lira in un carcere ucraino, con la connivenza americana.
Imran Khan deve andare in prigione
C’è un altro parallelo, ancora più forte, ed è quello del triste destino di Imran Khan, l’oppositore politico del governo pakistano, ristretto da tempo in un carcere per accuse molto più politicamente motivate di quelle di Navalny.
A differenza di questi, noto più in Occidente che in madrepatria, Khan è un oppositore forte, essendo il leader del partito più votato del Pakistan, tanto da diventarne primo ministro.
La disgrazia dell’ex premier pakistano è stata quella di non essersi allineato ai diktat occidentali. Pressato oltremodo da Stati Uniti e Ue per aderire alle sanzioni anti-russe dopo l’invasione ucraina, rispose sprezzante, accusando pubblicamente i suoi interlocutori di revanscismi coloniali: “Cosa pensate di noi? Che siamo vostri schiavi? Che faremo qualunque cosa ci chiederete?” (Reuters).
Una posizione che fece irritare gli Stati Uniti che si mossero, nel segreto, per “rimuoverlo” dalla carica di primo ministro, usando le leve di cui godevano presso i militari pakistani, il potere più forte e oscuro del Paese, al quale Khan si era opposto in maniera vincente.
La manovra Usa è stata smascherata da The Intercept, che nell’agosto scorso pubblicava un cablogramma che descriveva le minacce rivolte al Pakistan da Donald Lu, responsabile dell’Asia meridionale e centrale per il Dipartimento di Stato, sulle “gravi conseguenze” alle quali sarebbe andato incontro se Khan fosse rimasto al potere.
Poco dopo Khan veniva rimosso con un’oscura manovra politica che portò a un voto di sfiducia parlamentare. Non essendosi rassegato e avendo perseverato nella sua battaglia politica, ebbe poi a subire un attentato per finire, infine, ristretto in una prigione con condanne decennali.
Non solo, il suo partito, il Movimento per la giustizia del Pakistan (PTI), è stato vessato, perseguitato, i suoi quadri e i suoi simpatizzanti mandati in galera. Tutto sotto lo sguardo compiaciuto dell’America.
Le “libere” elezioni del Pakistan
Una persecuzione che si è trascinata fino alle recenti elezioni, tenutesi nei giorni scorsi, alle quali al PTI è stato impedito di partecipare per evitare che si avverasse quanto indicavano i sondaggi, che lo vedevano vincente nonostante il suo leader fosse ancora prigioniero.
Nonostante tutto, gli uomini del PTI si sono presentati come indipendenti e sembra che abbiano ottenuto la maggioranza dei seggi parlamentari. Ma in quel sembra c’è tanto di non detto, dal momento che sembra anche che non sia così, anzi i partiti che si riconoscono nei militari hanno formato una coalizione che sembra abbia i numeri per governare, mantenendo al potere l’ex primo ministro Shehbaz Sharif, espressione dei militari.
Inutile dire che dal PTI si sono levate accuse di brogli, confermate da una confessione pubblica di un alto funzionario, il commissario di Rawalpindi Liaqat Ali Chatta. il quale ha detto ai giornalisti che le autorità di Rawalpindi, nella provincia del Punjab, la più importante del Paese, hanno tolto decine di migliaia di voti ai candidati che fanno riferimento al PTI, accusando “il Capo della commissione elettorale e il presidente della Corte suprema del Pakistan di aver avuto un ruolo nei brogli”, come riferisce il Guardian. Inutile aggiungere che Chatta è stato arrestato e ha poi ritrattato tutto.
Insomma, mentre gli Stati Uniti piangevano il triste destino di Navalny, si adoperavano perché il destino di un altro oppositore, ben più rilevante, fosse assicurato alla galera e il suo partito non andasse al potere tramite libere elezioni.
Non si tratta di accusare l’America o denunciare l’ipocrisia dilagante, solo di raccontare il gioco di specchi che abita il mondo.
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